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 2015  maggio 10 Domenica calendario

DALLO SPACCIO NEL GHETTO ALL’ANTICAMERA DEL NOBEL L’ASCESA DELL’ECONOMISTA CHE RISCATTA I NERI USA

ROMA.
Quando Roland G. Fryer si affacciò al mondo del lavoro una dozzina anni fa, aveva un dottorato in economia alla Pennsylvania State University e una preoccupazione: temeva che qualcuno cercasse il suo nome su Google prima di assumerlo. Suo padre, con il quale è cresciuto fino alla prima adolescenza dopo che sua madre lo aveva abbandonato, si chiama esattamente come lui. E a quell’epoca stava scontando una condanna per violenza sessuale. A suo tempo l’arresto aveva riempito la stampa locale di Lewisville, Texas, finché il figlio, al primo anno delle scuole superiori, era riuscito a pagare la cauzione.
Ora se un possibile datore di lavoro avesse confuso il figlio con il padre, le chance del giovane Fryer si sarebbero azzerate. Su Internet, è vero, non c’era niente sulla sua propria “carriera adolescenziale”: né il certificato di nascita falsificato per farsi assumere a McDonald a 13 anni (e rubare qualche soldo in cassa), né lo spaccio di marjuana a lotti da 700 dollari l’uno, né la guida senza patente, o la Magnum 357, o gli zii arrestati per aver messo su una piccola fabbrica di crack in cucina. Su Google c’era solo il reato del padre, l’alcolista che lo aveva malmenato molte volte. Ma sarebbe bastata quella omonimia a chiudergli tutte le porte.
L’INTUIZIONE DI SUMMERS
Non è successo, alla prova dei fatti. A soli 25 anni Fryer fu invitato a unirsi alla “Society of Fellows” di Harvard da Larry Summers, allora presidente dell’università. Cinque anni dopo ottenne una cattedra di ruolo in quello stesso ateneo, il più prestigioso al mondo, e fu il primo nero americano a arrivarci così giovane. E la settimana scorsa, a 37 anni anni, Fryer è diventato primo economista di colore a vincere la John Bates Clark Medal. Tecnicamente, è la medaglia che va ogni anno al migliore economista americano sotto i 40 anni, ma la lista dei vincitori del passato rivela che si tratta anche di qualcosa di più. È il riconoscimento più ambito dagli economisti dopo il Nobel, la strada maestra per arrivarci. Prima di Fryer ha vinto la Clark Medal l’intera aristocrazia accademica americana, molti di coloro che in seguito sarebbero stati premiati anche dall’Accademia di Svezia: Paul Samuelson, Milton Friedman, James Tobin, Robert Solow, Gary Becker, Joe Stiglitz, Michael Spence, James Heckman, Paul Krugman e celebrità come Martin Feldstein, lo stesso Summers, o Daron Acemoglu.
Tutti uomini bianchi, prima di Fryer. Il 27 aprile l’American Economic Association ha motivato il premio con parole che implicitamente sottolineano la ventata di aria fresca insita nella differenza: il vincitore di quest’anno, si legge, «ha approfondito la nostra comprensione delle fonti (…) della diseguaglianza razziale negli Stati Uniti». Ma è inutile chiedere a Fryer se i continui riferimenti dei media al colore della sua pelle, quasi che fosse un record in sé, siano per lui motivo di orgoglio oppure di fastidio. «Né l’uno, né l’altro — risponde — . È un fatto. Un fatto sfortunato. È la ragione per la quale faccio il lavoro che faccio, perché i figli di tutte le razze e religioni possano avere l’opportunità di realizzare in pieno il loro potenziale. L’America ha una storia razziale complicata, lo sappiamo. Quello che mi interessa è capire come superarla, dunque quando la stampa dice che sono il primo a fare qualcosa, semplicemente la ignoro».
NESSUN TRIONFO AGRODOLCE
Fryer non lo sottolinea mai, ma la sua vittoria non è il trionfo agrodolce del politicamente corretto. Non ha vinto perché gli economisti bianchi che lo hanno votato vogliono apparire aperti e magnanimi di spirito. Avrebbe vinto anche se fosse stato bianco lui stesso, o asiatico, ebreo, protestante o musulmano, perché i suoi lavori sono un concentrato di creatività, innovazione, solidità teorica e ricerca empirica. Uniscono le armi dell’economista matematico con nozioni di biologia, sociologia, psicologia, e migliaia di interviste e test su persone nelle scuole e nei ghetti neri delle grandi città. Uno dei suoi studi più sorprendenti cerca di spiegare perché gli afro-americani muoiono di malattie cardiovascolari più e prima dei bianchi, e tira fuori un’ipotesi che sembrava assurda, prima che fosse riscontrata nei dati: i neri negli Stati Uniti in media hanno un’elevata concentrazione di sali minerali nell’organismo perché moltissimi di coloro che erano su livelli più normali morirono di disidratazione durante il trasporto dall’Africa. È sopravvissuto al viaggio in catene sull’Atlantico un patrimonio genetico di uomini e donne tendenti all’ipertensione.
LE RICERCHE SUL TERRENO
Gli studi più importanti di Fryer vengono però da ricerche sul terreno su cosa è efficace, e cosa no, per spingere all’apprendimento i bambini dei ghetti urbani. Non funziona promettere ai ragazzi qualche soldo se prendono voti più alti, perché a loro manca la «funzione di produzione»: si esaltano all’idea del guadagno, poi però non sanno come apprendere per ottenerlo. Ma se li si paga per leggere un libro, per esempio, i risultati scolastici tendono chiaramente a migliorare. E non funzionano i premi in denaro agli insegnanti quando una classe registra voti alti nei test, una proposta che in questi giorni divide anche l’Italia. Ma se ai professori il bonus viene concesso in anticipo, e tolto solo in caso di voti bassi degli allievi ai test, il rendimento di questi ultimi aumenta in modo misurabile. Tutto del resto va misurato, sostiene Fryer: «Non credo nell’intuizione. Credo nei dati empirici e non lascio che la politica o le mie opinioni personali si mettano in mezzo».
Ma neanche lui nega che la sua ricerca sia frutto della vicenda della sua vita. «E’ profondamente collegata — riconosce senza difficoltà — . Intorno a me ho visto talmente tanto talento buttato via. Gente creativa, interessante, intelligente che ha finito per avere esiti terribili. Non puoi evitare di chiederti cosa sarebbe successo se tu avessi preso un certo bambino e lo avessi tirato su un ambiente di ceto medio o medio-alto, con buone scuole e genitori che lo sostengono. Immagino che i risultati sarebbero stati totalmente diversi».
MERITI SPORTIVI
Fryer è entrato in college a Arlington, Texas, grazie a una borsa di studio per meriti sportivi. Ma un altro modo per dimostrare l’importanza di avere delle opportunità nella vita gli deriva da James Heckman, il Nobel che nel Duemila lo chiamò all’università di Chicago. Heckman ha condotto una serie di test durata vent’anni fra figli di disoccupati, di occupati senza qualifiche, di colletti bianchi e di professionisti. Fra loro si notano forti differenze di sviluppo mentale già ai tre anni di età, e non vanno più via: la distanza tende a restare uguale nei decenni e si trasforma in reddito, salute, felicità in più o in meno. I figli dei professionisti in cima, quelli dei disoccupati in fondo. Fryer, la cui infanzia contraddice la teoria di Heckman («credo si sia interessato a me anche per questo», dice) ha portato la ricerca un passo più in là: ha misurato lo sviluppo mentale dei bebé di soli 9 mesi. Si fa suonare una campanella, poi la si nasconde sotto una tazza rovesciata e si vede come il piccolo reagisce, per esempio. Viene fuori che fra i bianchi nati nel privilegio e i neri dei ghetti a quell’età non c’è quasi differenza di sviluppo mentale: dipende tutto dagli stimoli che arrivano dopo.
DURO CON SE STESSO
In altri casi però Fryer è duro con gli afro-americani come un bianco non potrebbe mai essere: in uno studio di cui parla “Freakonomics”, il best-seller di Stephen Dubner e Steven Levitt, dimostra che i neri con voti alti a scuola vengono emarginati dai compagni: sono accusati di «comportarsi da bianchi». Fryer non fa sconti, neanche a se stesso. «Non credo affatto di essere un uomo di successo — dice — . Sono davvero grato dei riconoscimenti. Ma quello che volevo, e voglio, è trovare le chiavi per liberare il potenziale dei bambini svantaggiati. Ho appena grattato la superficie. Sto ancora imparando, ogni giorno. Dunque non è difficile continuare a essere duri con se stessi. Ho una montagna di lavoro da fare e sto invecchiando, dunque bisogna che mi ci metta sul serio».
Federico Fubini, la Repubblica 10/5/2015