Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  maggio 09 Sabato calendario

LE DUE SFIDE CHE ASPETTANO CAMERON

Attorno a mezzanotte del 7 maggio due cose sembravano certe a proposito delle elezioni generali in Gran Bretagna: in primo luogo che la lunga campagna elettorale era stata parecchio noiosa e sfocata e poi che l’esito era destinato a portare caos e instabilità, lasciando il Paese senza un governo per giorni, forse settimane. Le certezze, tuttavia, svaniscono in fretta quando i voti vengono contati: il risultato è un colpo di scena: David Cameron ha vinto nettamente, una vittoria che probabilmente è una sorpresa anche per lui e il suo partito conservatore, e la Gran Bretagna non starà nemmeno per un minuto senza un governo.
Eppure ci sono ancora molte sorprese in serbo.
Il Regno Unito si trova ora con un governo sorprendentemente semplice e tradizionale, con un partito che ha una maggioranza parlamentare assoluta, a differenza delle elezioni del 2010. Ma il leader rieletto deve affrontare due compiti che saranno tutt’altro che semplici, e che potrebbero trasformare il Paese e la sua collocazione nel mondo: David Cameron dovrà creare un nuovo assetto costituzionale che renda il Regno Unito un sistema politico più federale, per rispondere a un trionfo ancora più grande del suo in queste elezioni, quello del Partito nazionale scozzese; e avrà bisogno di convincere i nostri 27 partner dell’Unione europea a riformare l’Ue abbastanza per consentirgli di vincere un referendum sull’adesione britannica che ora si terrà certamente al più tardi entro la fine del 2017.
Per ottenere questi risultati David Cameron dovrà mostrare un livello di leadership, anche nell’arte di governare, che non ha finora mostrato durante i suoi cinque anni come primo ministro della Gran Bretagna. Dal 2010, quando ha preso il governo in una coalizione con i centristi liberaldemocratici, il primo governo di coalizione britannico dal 1945, è stato più reattivo che veramente creativo, rispondendo ai mutevoli venti della politica interna e internazionale invece di riuscire a impostare una propria agenda.
Ora, non ha altra scelta che definire l’agenda e diventare un leader trasformazionale. L’alternativa è il fallimento lasciando come eredità politica la disgregazione del Regno Unito in tre o quattro Paesi diversi, e il ritiro di almeno una nazione britannica dall’Unione europea. E anche se in questo momento si sente forte e trionfante, deve fare tutto questo con una maggioranza parlamentare di soli 12 deputati, che è molto più stretta di qualsiasi delle tre maggioranze ottenute dall’ultimo leader conservatore trasformazionale britannico, Margaret Thatcher, negli anni ‘80.
La straordinarietà dei nostri risultati elettorali è dimostrata dal fatto che mentre uscivano, i leader di tre partiti politici sconfitti hanno tutti rassegnato le dimissioni a poche ore di distanza l’uno dall’altro: il laburista Ed Miliband principalmente perché il suo partito era stato cancellato completamente in Scozia, che per decenni era stata la sua roccaforte; Nick Clegg, leader dei centristi liberal democratici, perché mentre il suo partner di coalizione è stato ricompensato per i risultati del loro governo congiunto, il voto popolare ha penalizzato il suo partito che è crollato del 15% e ha perso oltre tre quarti dei parlamentari; e Nigel Farage, leader del movimento anti-Ue Uk Independence Party, perché non è riuscito a vincere le elezioni e il suo partito ha finito per trovarsi con un solo deputato.
Eppure, mentre i laburisti e i liberaldemocratici erano chiaramente perdenti, l’ Uk Independence Party in realtà ha in parte perso e in parte ha vinto. La sua quota di voti, il 12,6%, è molto inferiore a quanto il signor Farage sperava di ottenere appena sei mesi fa, ed è così sparpagliato in tanti collegi elettorali che il partito non è riuscito ad avere parlamentari eletti grazie al sistema in effetti piuttosto scorretto dell’uninominale maggioritario secco che vige nel Regno Unito. Tuttavia, attraverso la vittoria di David Cameron, l’Ukip ha raggiunto il suo principale obiettivo politico: assicurare che il Regno Unito tenga un referendum sull’adesione all’Ue.
La maggioranza parlamentare del partito conservatore è stata raggiunta con il 36,9% dei voti. Ma con essa va anche contato il 12,6% dell’ Ukip, perché insieme i voti dei due partiti significano che quasi il 50% degli elettori ha scelto partiti che promettevano un referendum sull’ Ue. Quindi, tenerne uno nei prossimi due anni non può essere considerato illegittimo. Anche così, è altamente rischioso.
È rischioso perché David Cameron non ha ancora fatto sapere, tanto all’opinione pubblica britannica come ai partner europei, quello che vuole ottenere in termini di riforma dell’Ue prima di indire il referendum. Questo gli dà tra un anno e 18 mesi per lanciare e completare la sua iniziativa di riforma. Che è un tempo molto breve considerato il ritmo lento del processo decisionale nell’Ue, ed è sicuramente troppo poco per realizzare qualsiasi cosa richieda un cambiamento nei Trattati dell’Unione europea.
Gli ultimi sondaggi mostrano una chiara maggioranza di cittadini britannici a favore della permanenza del Regno Unito nell’Ue, quindi forse lui non ritiene di correre rischi, dopo tutto. Ma tutti i risultati del voto hanno dimostrato quanto possano essere inaffidabili i sondaggi.
L’unico dato azzeccato era l’enorme vittoria nelle 59 circoscrizioni scozzesi dello Scottish National Party, un partito di sinistra e indipendentista - anche se pure lì i sondaggisti non hanno predetto che il leader carismatico del partito, Nicola Sturgeon, avrebbe vinto 56 di quei 59 seggi, trasformando il Paese in uno Stato quasi a partito unico. È come se lo Scottish National Party fosse diventato l’equivalente nel Regno Unito dell’African National Congress del Sudafrica, e la signora Sturgeon gode in Scozia, almeno per ora, di una sorta di status da rockstar.
Trattare con il suo successo e le richieste di maggiore autonomia della Scozia dovrebbe essere più semplice, in teoria, che il compito di mantenere la Gran Bretagna nell’Unione europea. Ma non sarà facile perché le altre nazioni del Regno Unito - Galles, Irlanda del Nord e la nazione dominante, l’Inghilterra - devono anche essere salvaguardate in qualsiasi nuovo assetto costituzionale venga negoziato.
Far fronte a uno solo di questi problemi sarebbe un compito difficile per qualsiasi primo ministro. Far fronte a entrambi contemporaneamente e in fretta, sarà straordinariamente difficile. Forse un giorno potrebbe capitare che David Cameron, guardandosi indietro, potrebbe desiderare di aver perso quell’8 maggio 2015.
(Traduzione di Carla Reschia).
Bill Emmott, La Stampa 9/5/2015