Emanuela Audisio, la Repubblica 9/5/2015, 9 maggio 2015
LE MANI D’ORO DI ALLISON “FERRARI, FINE DEI LAMENTI PRENDIAMO LE MERCEDES”
[Intervista a James Shakespeare Allison] –
BARCELLONA
«Non leggo Shakespeare, ma mi chiamo Shakespeare di secondo nome. Forse la confusione è nata da qui. Però è vero che i libri di sera mi fanno compagnia. C’è un’aerodinamica dei corpi e una della mente. Ognuna a suo modo nutre ». L’ingegnere James Allison, inglese, 47 anni, dt della Ferrari si presenta così. È l’uomo del rilancio, con pieni poteri sulla gestione tecnica. Quello del risparmio gomme, dell’aerodinamica gentile, del tentato sorpasso. Figlio di un comandante della Raf, sposato, tre figli. Una piccola cicatrice sul mento. «Da ragazzo in macchina ho fatto una stupidata, ma mi è andata bene».
«Mio padre con la Nato ha partecipato a missioni in Kosovo. Per hobby restaurava macchine e vecchi aerei. Mia madre era insegnante. I miei genitori hanno contato molto. Perché ci hanno impedito di stare davanti alla tv fino ai 17 anni. Volevano che noi leggessimo, parlassimo a tavola. Soprattutto ci invogliavano ad ampliare il nostro vocabolario, ad esprimerci in maniera creativa. Non solo bianco e nero, ma anche grigi. Toni e mezzi toni. E molto dialogo».
Allora Shakespeare c’entra.
«Ma io mi addormento con i romanzi di fantascienza, non con La Tempesta. Ora sto leggendo “Heretics of Dune”. E da ragazzo ho giocato a rugby, hockey, cricket. Facevo sport, non lo guardavo. Sono nato nel Lincolnshire, paese rurale, contea della signora Thatcher, ma ogni due anni mio padre veniva trasferito altrove. La mia prima gara di Formula Uno l’ho vista tardi, una domenica, e Nigel Mansell mi piacque subito. Avevo anche la passione degli aerei, volevo da figlio essere all’altezza di papà, così feci gli esami medici. E lì me lo dissero ».
Era daltonico?
«Sì. Non me ne ero mai accorto. Il volo restò un’illusione. Ero bravo in matematica e scienze. Così mi iscrissi ad ingegneria spaziale all’università di Cambridge. Non pensavo di andare a lavorare in Formula Uno, invece nel ‘91 sono finito alla Benetton e nel 2000 alla Ferrari. Sono arrivato a Maranello con tutta la famiglia, con mia moglie Rebecca, e con i figli Emily, Matthew, Jonathan. In Italia ho ritrovato il valore dello stare insieme, sono riuscito ad essere un padre non frettoloso, ma capace di ascoltare. A Castelvetro nessuno parlava inglese, per noi è stata una bella avventura, ci ha cementati come famiglia. Mia moglie ha fatto il resto, aiutandomi con l’italiano. È una cantante d’opera, mezzosoprano, e conosceva la lingua».
Nel 2005 però se n’è andato.
«È stata una decisione privata, non tecnica. Mia figlia grande a 11 anni doveva iscriversi alla scuola superiore, quella scelta avrebbe determinato il suo futuro ».
E anche ritornato alla Ferrari con Montezemolo e Mattiacci.
«Sì, nel 2013. E sono anche restato dopo il cambio di gestione. E ora non chieda cosa ho inventato di buono rispetto a prima. Il mio ruolo è accertarmi che le due aree, quella del telaio e quella del motore, lavorino in sinergia. Le macchine di Formula Uno sono un orologio di precisione, ma tutti i meccanismi devono funzionare allo stesso tempo e le lancette girare nello stesso verso».
Sta dicendo che in Ferrari c’erano forze opposte e contrarie.
«No. Ma c’era molto squilibrio, un inutile e costoso dispendio di energie. La Ferrari era in un circolo vizioso, la macchina era sbagliata, aveva handicap mostruosi, eppure tutti insistevano su quella, applicandosi anche di notte, cercando una soluzione a breve termine per contrastare un’evidente inefficacia. Ma quando sei in un vortice negativo cosa fai?».
Lasci.
«Be’ è evidente che non potevamo. Però la cosa da fare era il non accanirsi a fare andare una macchina che non andava, il trasferire le forze, che c’erano e ci sono, di ottima qualità, su un altro progetto. Cercare di razionalizzare il tempo, senza sfinirci e spremerci su un’ipotesi perdente. C’era la voglia di non dichiararsi sconfitti e in fretta si lavora anche peggio. In una notte non nasce niente, ma può morire tutto. La Ferrari alla fine si è troppo distratta nel cercare di risolvere il problema. C’erano capacità e abilità, ma bisognava cambiare campo, riaccenderle, mettere in moto, e farle andare nella stessa direzione. Quelle lunghe sere da ragazzo passate in famiglia a raccontarci fatti e ad esaminarli alla fine mi sono servite».
Però non ha convinto Alonso.
«No. Non ci sono riuscito nemmeno io. Gli ho spiegato che le cose sarebbero cambiate, che la nuova macchina funzionava, che il gap era diminuito, che avrebbe avuto ancora possibilità di giocarsela, restare con noi aveva un senso e anche un futuro. Ma era troppo disperato e disilluso. Ero la decima persona che gli faceva quel tipo di discorsi, li sentiva da anni, non credeva più possibile una luna di miele. Bisogna anche un po’ capirlo. Tutti i piloti vogliono vincere».
Le Mercedes restano avanti.
«Sì, hanno più potenza. Il gap si è ridotto, ma c’è ancora. Però ci lavoriamo, è finito il tempo dei lamenti e delle mani nei capelli. Dobbiamo ottimizzare le risorse e sfruttare di più la meccanica. Non siamo solo buoni in qualità, ma anche aggressivi».
Gira con auto elettrica.
«Assolutamente no. In Inghilterra con una Bmw. E in Italia mi tengo in forma con la bici. La mia camera con vista: cento chilometri di Appennini all’anno. Pedalo, pedalo».
Emanuela Audisio, la Repubblica 9/5/2015