Silvia Fumarola, la Repubblica 9/5/2015, 9 maggio 2015
FLAVIO INSINNA “IL PIÙ BEL REGALO CHE LA VITA MI HA FATTO È L’AMORE DEI GENITORI”
Sa trasformare la malinconia in risata, è ipercritico, si definisce Calimero. Quando le signore gli chiedono: «Perché non si sposa?», (la domanda più frequente preceduta da: «È fidanzato?»), Flavio Insinna sorride: «Non sono un grande affare, sono complicato». Lo scapolone che tutte le mamme vorrebbero come genero, la faccia antica e un’onda nei capelli, 50 anni a luglio, lo dice con pudore: «Devo tutto alla mia famiglia, continuo a pensare che il regalo più grande sia essere amati, ringrazio mio padre e mia madre. Ho avuto un grande esempio. Ma non sono una persona semplice». Va controcorrente, in tanti pensano che la famiglia sia una fabbrica di nevrosi: «Chissà che famiglie hanno», sorride l’attore, «spesso si vive insieme, ma ripiegati su stessi. Mia madre non l’ho mai sentita dire a papà: “Non mi sorprendi, parto con un maestro di tango”.
Anche papà, dopo una vita insieme, non sarà stato più sorpreso da mamma. Però erano uniti. Pensi che la chiudeva in macchina quando uscivano a fare le commissioni. Io e mia sorella lo prendevamo in giro. Un giorno leggendo il giornale trova una notizia: “Lascia la moglie in macchina, la buttano fuori in corsa”. Ci fissa: “Visto come ho prevenuto per anni incidenti del genere?”».
Ride come un ragazzino. «Tutte le volte che leggo di qualcuno che dimentica la moglie in autogrill penso a papà che blindava mamma in auto». Con Affari tuoi scherza in tv «facendo il tifo per chi ha perso il lavoro e non è più un gioco», attore (girerà il nuovo film di Leonardo Pieraccioni Il professore cenerentolo con Laura Chiatti e la fiction Rai La classe degli asini di Andrea Porporati con Vanessa Incontrada), showman, scrittore, un mix di autoironia cinismo romano e grande cuore, Insinna stupisce sempre.
Fa il tifo per il leader della Fiom Landini e Gino Strada («Pensi come funzionerebbe bene la sanità se a occuparsene fosse un uno come lui, sempre dalla parte degli ultimi»), ci tiene a chiarire, tra una battuta e l’altra che sì, i bambini gli vogliono bene, sì, ha avuto successo ma lui «non è niente di speciale». «L’imbroglio è sempre stato questo: sembrare una cosa e in parte esserlo — perché nella serata giusta sono passabilmente simpatico anch’io — ma nella vita sono un malinconico naturale. Invidio moltissimo chi dice: “Ce la faremo”, “Anche se piove lo tramuteremo in un giorno di sole”. Ecco, gli ottimisti li ammiro, complimenti. Sono arrivato a 49 anni e mi sforzo sempre di più a vederlo, il sole. Se fossi più impermeabile ai dolori vivrei meglio. Ma ognuno è fatto com’è fatto».
Quando il padre è morto, quattro anni fa, Insinna ha fatto un passo indietro «perché non avevo più voglia di fare nulla. Non avevo più niente da dire. Sono la prova che “the show must go on” è una balla, lo spettacolo si può fermare, non deve per forza andare avanti. Sono un privilegiato, perché se lavori in fabbrica non puoi fermarti. Il dolore mi ha schiacciato, ho sentito il bisogno di riprendere fiato, di occuparmi di me. Scrivere mi aiuta, scrivo da quando ho 13 anni. Il mio primo libro Neanche con un morso all’orecchio », racconta, «spiega tutto l’amore per mio padre, il vuoto che ho sentito. Quando mi dicono: “Dove l’hai presa la maniacalità per il lavoro?”. Da papà. L’ho visto solo lavorare, a casa, in clinica, fiero di essere medico di famiglia. Viveva la professione totalmente e per noi c’era sempre. Mi ha insegnato l’etica. L’ho visto ascoltare, parlare e sorridere. Mi diceva che i pazienti tornano tutti bambini perché hanno paura, per questo sorrideva sempre. Se non avessi avuto il terrore degli aghi forse avrei fatto il medico anch’io, ma svengo anche se vedo un ago in un’altra città».
La fede l’ha aiutato, la passione l’ha guidato: Gigi Proietti, suo maestro di recitazione, gli spiegava che è giusto seguire la passione, anche se non dà garanzie. «”Un conto è insegnare un mestiere” diceva Gigi “un altro garantirvi che la strada sarà in discesa”. Nella vita devi imparare a prenderti dei rischi. Ma se hai una certa mentalità è un disastro», osserva Insinna.
«Anche qui c’entra l’educazione. A casa mia si pagavano le bollette il giorno dopo che arrivavano. Però le passioni ti portano lontano, quando scrivo mi sento libero, ho i quaderni pieni di appunti. Mi siedo e butto giù i pensieri. Il primo libro l’ho scritto per mio padre, il dolore era troppo forte. Mia madre si ostina a rimanere viva per mia sorella e per me. Sono certo che se fosse in un romanzo volerebbe via per cercarlo. Dopo 57 anni insieme è complicato restare soli, è inaccettabile. Lo capisco. Con l’assenza di mio padre faccio i conti tutti giorni: il suo sguardo era la misura delle cose, capivo se avevo fatto bene o male».
Fa una pausa. «Per farle capire, le racconto una telefonata di mia madre. Mi chiama con un tono che non è da lei, penso subito a qualcosa di grave. “Flavio, non è che adesso che papà non c’è più, non paghi più le tasse?”. Mi sono messo a ridere: come ti viene in mente una cosa del genere? Non ricordo se l’abbia detto Montanelli o Biagi: “Alla fine nella vita le cose fondamentali sono quelle tre o quattro che t’insegna la tua famiglia”. Concordo pienamente».
Tagliare il cordone ombelicale non è stato facile, ha vissuto in famiglia fino a qualche anno fa, ora abita da solo. Nel romanzo La macchina della felicità (Mondadori) racconta la storia di un uomo solo che soffre d’insonnia, abitudinario, che a un certo punto scopre l’amore. «Anch’io soffro d’insonnia, cerchiamo tutti l’amore. Non è un’autobiografia ma rivela qualcosa di me, degli uomini», chiarisce Insinna. «Non ho il computer, uso carta e penna, mi sembra che tutto vada insieme, dalla testa alla mano appoggiata sul blocco. La scrittura ti aiuta a tirare fuori tante cose, anche il fatto di non sentirmi all’altezza. Dal libro è nato un piccolo tour, mi racconto in musica, un modo per stare a contatto con la gente».
Dice che nella vita privata «non ha rimpianti, chi è stato amato non deve averne», ma non s’immagina genitore: «Pensarti padre dopo aver avuto un padre come il mio è complicato. Se ripenso al rigore con cui mamma e papà si sono spesi per noi, alla presenza fisica, penso di essere un privilegiato. Quando vedo storie di assenze, divorzi, genitori presi da loro stessi, mi dico che il mondo non gira sempre come dovrebbe. Non avrei mai voluto sentirmi dire da un figlio: “Non ci sei mai”, so quanto i miei ci sono stati per me e mia sorella. Conosco la qualità di quel tempo, anche il privilegio di annoiarsi insieme. Ma mi sentivo al sicuro, questo — unito alla passione per il mestiere dell’attore che mi ha travolto — mi ha fatto fare scelte diverse nella vita privata. Perché replicare malamente una formula?». Coltiva la nostalgia e guarda avanti. «Oggi ho imparato a conoscermi, non a volermi più bene ma a voler bene alla vita. Sto bene così. Un giorno, chissà. È anche bello cambiare. Prima fumavo e ora non fumo, ma non è che chi fuma sia scemo. Sa che farò? Se arrivo a 70 anni mi rimetto a fumare e siccome non ho mai bevuto mi metto anche a bere».
Silvia Fumarola, la Repubblica 9/5/2015