Salvatore Bragantini, CorrierEconomia 11/5/2015, 11 maggio 2015
QUELLA PERICOLOSA MANIA DEI BUY-BACK
Gli Usa sono il «Paese guida» del capitalismo, ma si spera che non dilaghi da noi la corsa delle grandi imprese americane a restituire capitale agli azionisti. Nel 2014 il riacquisto di azioni, o buy-back, ha superato i 550 miliardi di dollari; se si aggiungono 350 miliardi di dividendi, le quotate han sborsato 900 miliardi, contro i soli 85 miliardi che han ricevuto dal mercato (fonte Bloomberg). Nel 2015 dividendi e riacquisti supereranno i 1.000 miliardi, il 6% del Pil Usa!
Così tutto il margine operativo delle quotate Usa tornerà agli azionisti! È il contrario di quanto accadeva da noi negli anni Novanta, quando un’impresa poteva vendere l’attività e non dar nulla agli azionisti, lasciando ai gestori, magari in cima a una catena di finanziarie,
la cassa da impiegare ad libitum. Se in quei casi gli azionisti erano espropriati, oggi negli Usa essi spolpano le imprese; accomuna i due casi il conflitto fra l’interesse delle imprese e quello di alcuni azionisti collusi con i dirigenti.
Cosa c’è di male, si può dire: le società sono degli azionisti, è logico ricompensarli. Anzitutto non è detto che usare tutti i margini per ricomprare i titoli faccia l’interesse degli azionisti.
Per continuare a dar loro soddisfazioni, le imprese devono investire, per sviluppare nuovi prodotti e sostituire il capitale fisso consumato. Se anziché a preparare il domani, i margini servono ai buy-back, il mercato perfetto sognato dagli iperliberisti dovrebbe dedurne che l’impresa non ha progetti interessanti, deprezzando quindi l’azione. Con ugual fon-
damento, lo stesso astratto mercato potrebbe sostenere che se l’impresa (conoscendosi come nessun altro) ricompra le azioni, lungi dal vendergliele, conviene accodarsi e comprarle.
La verità è più banale: per le imprese decidono le persone, guardiamo alle loro motivazioni. Esse ricevono compensi in piccola parte fissi e in gran parte variabili, per lo più opzioni legate al corso dell’azione, in diverse forme. Una corrente in acquisto, tanto possente da prosciugare tutti i margini aziendali, crea una pressione al rialzo del prezzo che gonfia i compensi dei manager. È fatto di questa materia l’infinito rialzo di Wall Street, che trova nella (obbligata) politica monetaria del Federal Reserve System un carburante a basso prezzo; ciò permetterà ancora per un po’ alle imprese di rimandare il momento della verità, indebitandosi per ricomprare le azioni!
Va anche ricordato che le imprese Usa hanno ammassato all’estero oltre 1.000 miliardi, per non pagare le tasse a quello Zio Sam che difende letteralmente a spada tratta i loro interessi in giro per il mondo. È la rottura dell’alleanza fra lo Stato e le sue imprese; in gran parte d’Europa essa ancora regge, ma i «disertori societari» accomunano la più debole delle grandi nazioni europee, la nostra Italia, alla superpotenza Usa.
Il buy-back conviene agli azionisti «mordi e fuggi», ma danneggia tutti gli altri: gli azionisti «normali», i cui orizzonti temporali superano la mezz’ora, ma soprattutto l’impresa, tutto un mondo che intorno a questa vive (creditori, fornitori, dipendenti), la società nel suo insieme. Dall’impresa viene l’occupazione solo se investe, così le si nega il futuro; a sue spese si realizza una perversa alleanza fra manager (che con il buy-back moltiplicano i compensi) e azionisti (che incassano in diretta). L’impresa diventa
quasi un minore incapace, della cui ricchezza si appropriano, in combutta, il tutore e il gestore di patrimoni prescelto.
Essa non è una fonte che per un po’ butta fuori soldi e poi si dissecca, né un fascio di contratti come taluno sostiene, ma un corpo vivo, però senza proprio cervello: questo è «appaltato» ad amministratori e manager, che devono decidere nell’interesse suo, non dei soci. Da loro presa in ostaggio, si muta da motore di sviluppo, anche civile, in Robin Hood alla rovescia. Avviene quando il rapporto fra guadagni dei capi e dei dipendenti passa da 30/1 a 300/1; s’impoveriscono le classi medie per dare sempre più ricchezza a chi l’ha già, e potere. Perciò tali privilegiati dettano l’agenda; teleguidano la politica, alimentano il mito del big boss, dipingono un’impresa frutto del suo titanico sforzo solitario. Dietro lo schermo di tale mito, questi agisce in conflitto d’interesse; ad esempio quando comunica operazioni che muovono sensibilmente il corso dell’azione poco prima della scadenza delle opzioni. Eppure, anziché ai segnali distorti sui mercati e ai superprofitti che ne derivano, i regolatori dedicano occhiute attenzioni a un day trader della grigia periferia londinese.
Che succede all’economia di mercato? Essa ha perso negli ultimi 30 anni, per la sconfitta del suo storico nemico, la capacità di autoregolarsi che aveva finché questi faceva paura. L’89 ha avviato una mutazione genetica che si stenta a vedere benigna. All’Ovest, il sistema che portava al benessere strati larghi della popolazione si volge ad arricchire chi già sta bene, impoverendo la classe media. All’Est emerge il capitalismo di Stato, il peggio dei due mondi: il capitalismo senza briglie e l’assenza di garanzie di libertà. L’economia di mercato, quella vera, è un’altra cosa.