Piero Melati, il venerdì 8/5/2015, 8 maggio 2015
E LA SERA IO E FALCOLNE ANDAVAMO IN VIA VENETO
ROMA. Lo chiamavano Billy the Kid. Come il mitico bandito del West. Strano, per un carabiniere, portare il nome di un criminale. Anche la sua squadra: venne battezzata come il titolo di un film sui marsigliesi, «la Banda Pellegrini». Oggi Angiolo Pellegrini è un generale. Classe 1942, ha comandato a Palermo la leggendaria sezione antimafia dell’Arma dall’81 all’85. La stagione eroica. Quella che ha portato al Maxiprocesso contro Cosa Nostra (l’anno prossimo se ne celebrerà il trentennale), ma anche al cortocircuito dei nostri giorni (la Commissione antimafia che indaga sulle associazioni antimafia). Tutti i nodi irrisolti, aggrovigliatisi in quegli anni fatidici, ora sono venuti al pettine: i rapporti mafia-politica-corruzione, gli scontri senza quartiere sulla giustizia, i veleni tra professionisti dell’antimafia e crociati del garantismo. Questa materia entrò in ebollizione proprio nella fatidica estate dell’85. E da allora, come lava incandescente, non si è più fermata. «In Sicilia era in corso una guerra che ci impedirono di vincere» dice il generale Pellegrini. «Potevamo arrestarli tutti, mafiosi e pezzi infedeli dello Stato, ma qualcuno, in alto, si è tirato indietro sul più bello».
Per il generale è arrivato il momento di riavvolgere il film. E di rivederlo con occhi nuovi. Per tentare di sciogliere quei nodi ai quali l’Italia è rimasta impiccata. Lui ha dato il suo contributo con un libro coraggioso (Noi, gli uomini di Falcone, Sperling & Kupfer), potendosi permettere di affermare, senza tema di smentita, di essere stato uno dei più stretti collaboratori del giudice antimafia per eccellenza Pellegrini ha fatto parte del «cerchio magico» di Falcone, con i poliziotti Beppe Montana e Ninni Cassarà (uccisi in quell’85), Tonino De Luca e Gianni De Gennaro, gli ufficiali dei carabinieri Tito Baldo Honorati e Gennaro Scala. Un cerchio attorno cui gravitavano anche il generale Subranni, l’agente segreto Contrada, il colonnello Mori, l’investigatore D’Antone (questi ultimi investiti a vario titolo da inchieste e polemiche).
Il generale non prende nulla per scontato. Racconta fatti. Ritiene che per fotografare quella stagione sia molto utile ricordare un detto siciliano, che Falcone gli ripeteva spesso: Chiussai si vince e chiussai si perde.
Più si vince e più si perde. La mafia, dunque, ha vinto? No, dice Pellegrini. Anzi, è uscita indebolita dalla stagione delle stragi. Epperò «qualcuno ci ha fermato la mano, in quegli anni decisivi», impedendo la scalata verso l’alto. Un misto di cattiva fede, legata a centri segreti del potere, e scarsa professionalità, sostiene il generale. Che parla di «servizi deviati» ma senza schematismi. Anzi. Ben oltre vecchi, nuovi ed eventualmente ulteriori esiti giudiziari, a lui andrebbe bene rileggere a fondo e senza pregiudizi le storie dei funzionari bollati come «infedeli». Compresa la vicenda oscura del maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, suicidatosi il 4 marzo del ‘95 dopo due contatti con il boss Gaetano Badalamenti, detenuto in Usa, il quale si sarebbe detto disposto a rientrare in Italia per testimoniare al processo Andreotti, ribaltando le tesi accusatorie del re dei pentiti, Tommaso Buscetta.
Sono storie che fanno parte della serie «chi tocca i fili muore», una sorta di fiction immaginaria e segretissima, che ha sempre accompagnato sottotraccia le narrazioni retoriche e di maniera sulla guerra (a volte vera, a volte sceneggiata) tra Stato e mafia. Il generale non ha paura di affrontare queste pietre angolari. Dice di non poter credere ai sospetti sul generale Subranni. E afferma, a proposito della mancata perquisizione del covo di Totò Riina dopo il suo arresto, che il colonnello Mori forse sbagliò applicando alla mafia le vecchie regole della lotta al terrorismo, imparate a fianco del generale Dalla Chiesa. «E comunque, qualcuno più in alto deve pur essere stato messo al corrente di quel fatto» aggiunge Pellegrini.
Vicende contorte, passaggi complicati. Beati coloro che riescono a risolverli a colpi di rassicuranti slogan. «Già in quegli anni pensavo con angoscia che, ogni volta che noi si faceva un passo avanti. Roma ne faceva cento indietro» ricorda il generale riaccendendo il sigaro. Siamo seduti al tavolo di un bar. «Eppure, ci fu un momento...» dice Billy the Kid. Gira intorno a un cerchio di fatti, quel «magico momento» cui si riferisce. L’asse portante furono le reazioni agli omicidi del generale Dalla Chiesa prima (1982) e del consigliere istruttore Chinnici dopo (1983). Sembrò che lo Stato volesse fare sul serio: si redasse il rapporto dei 162, elaborato insieme dai carabinieri di Pellegrini e dalla squadra Mobile di Cassarà (prima vera inchiesta sulla mafia). I potenti esattori Nino e Ignazio Salvo finirono sotto indagine e poi arrestati. Manette all’ex sindaco Vito Ciancimino. Al setaccio l’impero dei potentissimi Cavalieri del lavoro di Catania (i Graci, i Rendo, i Costanzo). I blitz contro i clan di Cosa Nostra più misteriosi (Madonia, Riccobono), i 366 ordini di cattura del 29 settembre ‘84. Tutte cose che porteranno, l’8 novembre dell’85, al deposito dei 40 volumi dell’ordinanza del Maxiprocesso: a giudizio 475 degli originari 841 imputati.
Due uomini trovarono la pace nell’occhio del ciclone. Buscetta si era già pentito. Avrebbe riempito in 60 giorni 329 pagine di verbali, la spina dorsale del Processone alla mafia. Dopo gli interrogatori, lasciate le scorte sotto l’albergo, il giudice e il generale se ne andavano da soli a passeggiare dentro la Roma notturna. A piedi. Era stato proprio a Pellegrini (era andato a prenderlo in Brasile, dopo l’estradizione) che don Masino aveva confidato per primo le sue intenzioni, durante undici ore di volo. Il 16 luglio dell’84 scattò l’operazione segreta. «Venga con calma, anche nel pomeriggio» disse Falcone al telefono a Pellegrini. Era un messaggio in codice. Significava: precipitati. Un aereo del Sismi a disposizione per il volo Palermo-Roma e primo colloquio con Buscetta il 21 luglio. Il solo Pellegrini, responsabile della tutela del giudice, era registrato nell’albergo al centro di Roma dove soggiornava anche Falcone. «L’ufficio amministrativo della Legione fece storie sui costi. Dissi: bene, si vede che vado a dormire a casa e lascio il giudice da solo». Si arresero.
Confida il generale: «La sera uscivamo a fare lunghe passeggiate. Falcone non vedeva l’ora di lasciare le scorte. Ci recavamo ai Fori Imperiali, in via del Corso, via del Tritone, via Veneto, qualche volta persino a Prati, in via Cola di Rienzo. Liberi, come semplici cittadini, a camminare per ore, senza meta, impegni, gente intorno. Lui respirava a pieni polmoni, lo vedevo chiudere gli occhi e immergersi in quella sensazione liberatoria. Mi diceva: lei non può capire che cosa significhi per me, sono quattro anni che non posso permettermi di fare due passi a piedi. A Palermo, la mia città, non mi è concesso». Billy the Kid precisa: «Anche in quelle camminate lui restava il “dottore” e io il “capitano”. Falcone era così. Ma sapevamo essere uomini prima che investigatori, lui prima ancora che giudice, io prima ancora che sbirro».
«No, questa tregua non può durare». Così scrive il generale, rievocando la maledetta estate dell’85. E infatti, il 28 luglio venne ucciso il capo della squadra Catturandi Beppe Montana. Subito dopo morì per le torture in Questura un giovane sospettato, Salvatore Marino («Quel giorno ritirai i miei uomini, c’era troppa tensione tra i poliziotti» ricorda). La città si spaccò, alla vigilia del Maxiprocesso. Il caso Marino accelerò l’omicidio del commissario Cassarà. Intanto, dopo le torture, il ministro dell’Interno Scalfaro rimosse i vertici investigativi. «Chi tocca i Salvo muore o viene trasferito» disse il generale a Falcone. Una sera, in piazza Politeama, fermo nella sua auto, Pellegrini si vide arrivare addosso una moto. Alla guida Mario Prestifilippo, dietro di lui Pino Greco Sparpuzzedda, il «generale» del gruppo di fuoco, il killer che aveva azionato il Kalashnikov per uccidere Dalla Chiesa. Era il sicario che, dopo la pioggia di piombo rovesciata su Cassarà, con l’Ak 47 ancora incandescente, aveva urlato: A vulistivu a’ guerra? Ora l’avete avuta. Billy the Kid riuscì a sfuggire all’agguato. Però l’Arma lo trasferì in fretta. Il Maxi si aprì ma, disse Falcone, c’era «un notevole calo di tensione». Seguiranno gli anni dei veleni, le stragi del ‘92, il crollo della Prima Repubblica. Da allora, più si vince e più si perde. O viceversa.
Piero Melati