Charlene (Charlie) Fern, Limes: U.S. Confidential 4/2015, 8 maggio 2015
HO SCRITTO I DISCORSI DEI BUSH
La Gran Bretagna aveva un cuor di leone. Io ebbi la fortuna di darle il ruggito.
Winston Churchill
1. LA MIA CARRIERA DI AUTRICE DI DISCORSI abbraccia quasi vent’anni e la quasi totalità dei miei venticinque anni di esperienza professionale nelle pubbliche relazioni. Iniziò nel luglio 1994, quando accettai un lavoro nell’ufficio dell’allora governatrice del Texas Ann Richards, impegnata nella campagna per la rielezione contro un esordiente di nome George W. Bush. L’impietoso caldo estivo fu niente in confronto al rovente clima di quell’elezione: i toni della campagna crebbero inesorabilmente e innescarono un caustico dibattito politico, ma a novembre era tutto finito e il politico che aveva da poco firmato la mia prima busta paga ne era uscito sconfitto.
Il Texas, 28° Stato dell’Unione, vanta una travagliata storia di altezzosità e decisioni scabrose con esiti controversi e ripercussioni in tutto il Nordamerica. Esso si è rivelato una spina nel fianco del continente americano più di quanto la storia spesso non dica. Ciò nonostante, si è guadagnato un posto nella storia moderna come il secondo Stato più prospero degli Stati Uniti e la 15ª economia mondiale, il cui pil (1.300 miliardi di dollari) è paragonabile a quello dell’India, del Canada, della Corea del Sud o dell’Olanda. Queste circostanze hanno reso il Texas un banco di prova ideale per i leader emergenti che ambiscono a una carriera nelle istituzioni federali e persino alla Casa Bianca, uno dei centri nevralgici della geopolitica mondiale.
Le pianure meridionali del Texas si sono dimostrate terreno fertile per la carriera di George W. Bush, le cui origini familiari affondano nello Stato, da Midland (sua città natale) a Dallas e a Houston, dove il 41° presidente, George H.W. Bush, e sua moglie Barbara, si sono ritirati a vita privata dopo aver lasciato Washington. La carriera politica del più giovane dei Bush iniziò con il giuramento da 46° governatore del Texas nel 1995. Egli fu il primo governatore dello Stato a restare in carica per due mandati consecutivi, dopo aver conquistato il 70% dei voti nelle elezioni del 1998. Un’ondata di consensi sospinse in seguito George W. nell’aspra campagna per le presidenziali del 2000, al termine della quale egli divenne il 43° presidente degli Stati Uniti.
Il quinquennale viaggio di Bush verso la Casa Bianca è stato anche il mio, in qualità di uno dei suoi speechwriters. Il mese di gennaio del 1995 segnò l’inizio di un futuro più roseo per la mia carriera, dopo il primo capitolo prematuramente terminato con la sconfitta di Ann Richards. Mi fu offerto di lavorare con il nuovo governatore: iniziai come addetta stampa e infine divenni primo speechwriter di Laura Bush, incarico che mantenni fino al 1999, quando la campagna per le presidenziali era già nel vivo.
Sono entrata nella squadra di autori della Casa Bianca un mese dopo il giuramento di Bush, avvenuto nel gennaio 2001. Lì ho lavorato con alcuni dei professionisti più talentuosi che abbia mai incontrato: uomini e donne intenti a tradurre le idee in parole capaci di spiccare il volo dal foglio su cui sono scritte, infondendo speranza e determinazione nel paese man mano che l’amministrazione plasmava le sue politiche. Affrontavamo insieme un futuro incognito.
Nove mesi dopo – un battito di ciglia in un’ottica storica – gli Stati Uniti affrontavano una doppia, tremenda sfida: gli attacchi terroristici e la prospettiva di una guerra globale. Una settimana dopo gli attentati dell’11 settembre, a Washington il personale della Casa Bianca dovette fronteggiare un’ulteriore minaccia: le lettere all’antrace recapitate a giornalisti e funzionari pubblici, che uccisero cinque persone e ne intossicarono 17. A tutto il personale fu ordinato di recarsi dal medico personale del presidente, il generale Richard Tubb, che ci diede scatole di ciprofloxacina, un antibiotico che dovevamo tenere sempre con noi per precauzione.
Ero parte di una squadra che includeva Mike Gerson, Peter Wehner, David Frum, Matthew Scully, John McConnell, John Gibson, Gail Randall-Aspinwall ed Ed Walsh. Eravamo supportati da consiglieri fantastici, competenti in qualsiasi materia immaginabile. La maggior parte di noi era ospitata in due blocchi di uffici situati nell’Old Executive Office Building, adiacente agli uffici della West Wing (l’ala Ovest). Lavoravamo a stretto contatto e abbiamo sviluppato salde amicizie che ci hanno sostenuto nei mesi bui tra il 2001 e il 2002, divenendo parte integrante delle nostre vite.
In un ufficio era facile imbattersi in Scully, McConnell e Frum che lavoravano insieme a uno dei principali discorsi del presidente. Di tanto in tanto li raggiungeva Mike Gerson, il capo degli speechwriters, ma quando Gerson lavorava a un discorso era più probabile vederlo aggirarsi per i corridoi dell’edificio con una matita masticata in mano, o seduto in un angolo tranquillo di un caffè vicino. Dall’altra parte dell’ingresso, io dividevo l’ufficio con il vice di Gerson, Rete Wehner, e il resto della squadra: Ed Walsh, la ricercatrice Michelle Brewer e Jen Reilly, la più meticolosa verificatrice di dati che abbia mai conosciuto. L’ufficio di Gerson e delle sue assistenti, Krista Ritacco e Anne Campbell, era l’unico fisicamente ubicato nella West Wing, data la mancanza di spazio nell’edificio storico.
Io ero uno degli autori con meno esperienza, ma avevo dalla mia il lavoro in Texas e la conoscenza diretta delle questioni politiche che il presidente Bush avrebbe posto al centro della sua agenda durante il primo mandato. Gail Randall-Aspinwall era un’altra autrice-texana» che aveva seguito Bush a Washington. Durante la nostra esperienza comune in Texas, avevamo collaborato ad alcuni dei migliori discorsi pronunciati dai Bush all’inizio del governatorato, con frasi memorabili che avevano deliziato l’uditorio e attratto l’attenzione del paese.
Generalmente parlando, scrivere discorsi è un’attività che richiede lunghe ore di sobria contemplazione e tediosa attenzione ai dettagli: infausta circostanza, dato che pochi dei grandi speechwriters della storia hanno mai tollerato il tedio o la sobrietà. Esistono gli scrittori, e poi ci sono i demiurghi della parola. Gli autori rientrano nella seconda categoria: a loro sono richieste disciplina e forza bruta, per forgiare parole dalla materia prima del pensiero nelle fiamme dell’estro e dell’immaginazione. Non uso il termine «immaginazione» a caso: lo scrivere discorsi è un po’ un’alchimia. I più grandi discorsi di sempre sono tenuti insieme dagli ovvi vincoli della grammatica e della sintassi, ma hanno anche qualcosa di indescrivibile, di quasi magico, qualità che sembrano conferire loro una vita propria, indipendente da quella di chi li scrive e li pronuncia. L’immaginazione, in questo mestiere, è ciò che eleva un esercizio professionale al rango di arte. Pochi autori riescono a creare opere d’arte da ingredienti prosaici e monotoni. A tal fine necessitano di varietà, di cambi di ritmo e di scenario, di equilibrio e di leggerezza.
Alcuni dei miei lavori più riusciti sono stati scritti per eventi in cui il mio capo e sua moglie condividevano il proscenio, il che lasciava ampio spazio all’umorismo. Un giorno la mia collega Gail emerse dal suo ufficio con una battuta di suo conio da far dire al presidente: «Quando ho incontrato Laura per la prima volta, era una timida bibliotecaria la cui idea dell’oratoria era: “Shhhh!”» La risposta che scrissi per Laura era: «La prima volta che ho incontrato George, era un socievole uomo d’affari la cui idea di letteratura erano le pagine sportive». Quando il siparietto riceveva l’imprimatur dei nostri capi, come spesso avveniva, i discorsi riscuotevano un gran successo. Alcuni dei nostri passaggi migliori sono stati ripresi da quotidiani e riviste e sono in qualche modo entrati nella storia.
2. Quando scrivi discorsi a qualcuno per molti anni, è inevitabile che si sviluppi una relazione personale. George e Laura sono state persone speciali per me e sempre lo saranno. Ricordo mentre sedevo nel retro del Suv nero della sicurezza con Laura Bush, diretta a uno dei suoi primi eventi pubblici come First lady del Texas (ruolo che all’inizio esitò un poco ad abbracciare). Stavo in silenzio sul sedile di fronte al suo mentre rileggeva gli appunti e apportava modifiche dell’ultimo minuto alla versione finale. Quando terminò, mi guardò da sopra i fogli e mi chiese con un sorriso ironico: «Sei nervosa per me?».
Se lo ero, era solo perché credeva in me e nelle parole che avevo scritto per lei. Io volevo che ogni discorso fosse un successo, perché volevo che Laura Bush avesse successo. Lei era il mio capo, ma era anche una donna che ho imparato a rispettare e ad ammirare come mentore.
Ho passato anni a studiare e a scrivere per Laura di questioni importanti, che sarebbero diventate parte del dibattito pubblico: temi come lo sviluppo cognitivo dei bambini, la protezione dei minori, l’istruzione, l’alfabetizzazione, le biblioteche pubbliche, le arti, la salute e i diritti delle donne. Ho continuato a studiare queste materie e a scriverne una volta alla Casa Bianca.
Il ruolo della First lady è unico, in quanto se da un lato non ha voce in capitolo nelle politiche nazionali, dall’altro l’opinione pubblica non può contestarne le priorità. Sebbene non ricopra una carica elettiva, il suo ruolo in qualità di moglie del presidente le offre la rara opportunità non solo di promuovere il marito, ma anche di perorare le proprie cause presso il pubblico interno e internazionale. Il corpus giuridico degli Stati Uniti, compresa la costituzione, non contiene previsioni specifiche circa i doveri e le responsabilità della First lady. Di conseguenza, per lungo tempo il ruolo di questa figura è stato limitato, almeno ufficialmente, a quello di moglie nella sfera privata del 1600 di Pennsylvania Avenue (l’indirizzo della Casa Bianca) e, occasionalmente, di ospite ufficiale durante i ricevimenti nella residenza presidenziale.
La maggior parte delle First ladies erano a loro agio in questi discreti panni. Fu solo all’inizio del XX secolo, all’alba della cosiddetta donna moderna, che la moglie del presidente uscì dal tradizionale cono d’ombra. La mancanza di compiti codificati prese allora ad essere vista non come una limitazione, ma come un’opportunità di scegliere autonomamente doveri e responsabilità, che hanno assunto importanza, significato e visibilità crescenti a ogni nuova amministrazione.
Negli anni Settanta, la First lady era ormai divenuta la compagna del presidente nella vita e in politica. Grazie alla legge varata da Jimmy Carter nel 1978 le vennero finalmente assegnati uno staff e dei fondi. Il ruolo paradossale di questa figura ha retto alla prova del tempo e il suo ufficio nell’ala Ovest della Casa Bianca è un posto dove si plasmano politiche e si affrontano questioni di rilevanza nazionale e internazionale, sotto la guida di una donna che è ora considerata da molti la principale ambasciatrice della nazione, con un’ampia sfera d’influenza. Oggi da tutto il mondo arrivano alla Casa Bianca migliaia di inviti per la First lady a eventi pubblici o richieste di una sua opinione sulle questioni più varie.
I testi che ho scritto per Laura Bush hanno segnato molte occasioni importanti, come il primo discorso radiofonico presidenziale letto interamente da una First lady e l’appello a Radio Free Afghanistan dopo l’11 settembre. Laura Bush ha pronunciato energici discorsi all’Onu e all’Osce, al Congresso e al Club della stampa nazionale, oltre che in molte ambasciate statunitensi nel mondo. Ha informato il pubblico, introdotto nuove politiche e iniziative in conferenze alla Casa Bianca, ha officiato ogni tipo cerimonia: varo di navi militari, brindisi, feste di fine carriera, commemorazioni, innumerevoli ricevimenti formali per capi di Stato e altri ospiti internazionali.
3. Spesso mi viene chiesto come nasca un discorso alla Casa Bianca. Gli autori navigati spendono molto tempo a studiare gli argomenti su cui devono cimentarsi e gli oratori per cui devono scrivere: ne adottano gli orari di lavoro e ne imitano le routine giornaliere, collezionano storie e aneddoti tratti dalle loro vite. Quando possibile, ci parlano direttamente e condividono con loro eventi importanti, sia pubblici sia privati. Negli anni sono diventata un’esperta della psicologia di Laura Bush: sapevo esattamente cosa avrebbe detto su quasi tutti gli argomenti e come l’avrebbe detto. Idem dicasi per gli autori della West Wing rispetto al presidente.
Un esempio noto è la tendenza di George W. Bush a dire «nuculare» invece di «nucleare»: sapendolo, i suoi autori tendevano a evitare il più possibile di inserire quel termine nei discorsi pubblici. Al pari di suo marito, Laura Bush ha uno spiccato senso dell’umorismo e renderlo per iscritto non è cosa facile. La forma dev’essere altrettanto buona del contenuto. Dovevo conoscere perfettamente l’umorismo della signora Bush, in modo da modellarvi accuratamente un discorso che potesse pronunciare con disinvoltura. Preferiva scherzi tratti dalla vita reale; amava mettere alla berlina alcuni personaggi della famiglia Bush. Le piaceva anche leggere brani di lettere che i suoi figli le avevano scritto, sempre teneri e spesso arguti. Aveva la capacità di leggere una frase buffa scritta da un bambino con tempismo perfetto e grande efficacia, facendo puntualmente sbellicare il pubblico dalle risate.
Gli speechwriters devono valutare attentamente i punti di forza e di debolezza dei loro oratori, puntando su quei tratti che conferiscono credibilità al messaggio e al modo in cui è veicolato, aggirando invece quelli che potrebbero limitare l’efficacia del discorso o di una strategia comunicativa. Una delle abilità meno note di un autore di discorsi è la diplomazia. Detto francamente, i discorsi presidenziali sono inni di battaglia; ma sono anche capolavori di riflessione e di equilibrio, di prosa e poesia. Un discorso è il prodotto di complesse analisi e noiose verifiche, di duri negoziati e a volte di sudati compromessi. E questo difficile processo è condotto dall’autore.
George e Laura Bush si incontravano regolarmente con i loro autori per passare in rassegna le proposte e discuterne impostazione e contenuti. Il capo degli speechwriters, Mike Gerson, assegnava i discorsi da comporre in base a diversi criteri, tra cui l’importanza, le scadenze e le competenze specifiche di ciascuno. Frum, ad esempio, si occupava soprattutto di temi economici; Gibson della difesa; Scully era bravo a mostrare il lato più umano e gentile del presidente; Wehner dava voce alle idee di Bush in materia di fede, religione e valori conservatori. Per quanto mi riguarda, oltre a comporre i discorsi di Laura, ho scritto per il presidente i discorsi cerimoniali e quelli pronunciati nel giardino delle rose alla Casa Bianca, oltre ad alcune considerazioni per eventi in Texas.
4. La stesura di un discorso comincia mettendo insieme una vasta gamma di idee, fatti, dati, interviste e brani di precedenti interventi. Si consultano anche i membri del governo e si interpellano consiglieri ed esperti per avere indicazioni sulle tematiche in questione, sul messaggio chiave da veicolare e sul tenore dello stesso. Dopo, ci si mette a scrivere. Obiettivo principale dell’autore è cogliere la vera essenza di un oratore e comunicarla efficacemente mediante parole significative e pertinenti – le sue stesse parole! – in un insieme di considerazioni che condensano montagne di dati e informazioni. Una volta stesa la prima bozza, la si invia in revisione ai vari gradi della catena di comando ed è qui che iniziano i problemi. Molte persone hanno voce in capitolo e spetta all’autore assicurare che la voce del presidente, le sue idee e il modo di esprimerle non vadano perse nel processo. Dalle noiose tornate di revisione emerge una bozza finale.
Prima che questa giungesse sulla scrivania del presidente, dovevo passare un’ultima ispezione da parte di Jen Reilly, la verificatrice dei dati: una delle persone più giovani, brillanti e tremendamente pignole che lavorassero lì dentro. Era una gran lavoratrice ed era ben voluta, sebbene il suo lavoro consistesse nel confutare dati e asserzioni dei discorsi che le passavano sotto il naso. Con un singolo tratto di penna rossa, Reilly poteva demolire una frase, rendere inutili cifre complesse e minare la tenuta di interi brani. Era un’intemerata guardiana dell’interesse del presidente e non esitava a suscitare accese polemiche tra gli autori chiedendo di chiarire una statistica, emendare un numero o cancellare una frase contraddittoria. Lavoro non semplice per una ventiseienne, che tuttavia lei svolgeva con grazia e pazienza. Solo una volta Reilly indispettì l’intera squadra: il 7 dicembre 2003, il giorno in cui a 27 anni perse la sua battaglia contro il cancro. Così se ne andò una ragazza amata dal suo team, rispettata dai suoi pari e stimata dai suoi capi.
Gli speechwriters della Casa Bianca scelgono con cura le loro battaglie: un principio valido in politica come nella vita. Per alcune parole vale la pena combattere; altre sono meri orpelli. I discorsi che raggiungono la gloria lo fanno spesso senza una ragione, in modo casuale e preterintenzionale. Le loro parole si librano dalla pagina con il potere di cambiare un ideale o una dottrina, di sradicare antiquate credenze dal duro suolo dell’ingiustizia, di trasformare una comunità o un paese e di modificare il corso della storia.
Ho lasciato la Casa Bianca dopo 18 mesi di servizio: un periodo breve, ma non inusuale in quell’ambiente, anzi abbondantemente nella media. Per alcuni anni dopo quell’esperienza ho scelto di non indugiarvi, in gran parte a causa dei tragici eventi accaduti in quei mesi: eventi che hanno alterato in permanenza l’identità, le prospettive e la traiettoria degli Stati Uniti rispetto ai loro partner e alleati nel mondo.
Guardandomi indietro, non ricordo più con esattezza chi scrisse alcune delle frasi più celebri pronunciate in quel periodo e che parte ebbi nella loro genesi. Ma è giusto così, perché quelle parole non mi sono mai appartenute; esse erano di chi le pronunciava. In ultima analisi, il discorso appartiene all’oratore e, dopo di lui, alla storia.
(traduzione di Fabrizio Maronta)