Paola Zanuttini, il venerdì 8/5/2015, 8 maggio 2015
IL SENSO DELLA VITA È SERVITO
Gianni Mura è angustiato. «Mi preoccupa la sparizione dei piatti fondi, usati soprattutto per alcuni dessert. I primi, se non sono minestre, sempre in piatti piani. Non c’è una spiegazione logica». Vabbè, gioco facile ai limiti della slealtà decontestualizzare una frase da un libro, però una ragione c’è. Partiamo dal titolo: Non c’è gusto. E dal sottotitolo: Tutto quello che dovresti sapere prima di scegliere un ristorante. Se il secondo (inteso non come piatto di portata) si spiega da solo, sul primo (idem) bisogna spendere qualche parola: Mura istruisce il lettore su come evitare le fregature usando la vista, l’udito, l’olfatto e sorvola sul gusto, che è un affare molto personale e quindi meno ammaestrabile. Fin qui siamo alle prese con i sensi. Ma poi c’è anche il senso, il buon senso, il senso della vita, la perdita di senso: tutte categorie dello spirito che entrano in ballo quando si parla di cibo, ristorazione, chef stellati o meno, tradizioni gloriose e derive illogiche e modaiole come, appunto, la scomparsa della scodella.
Mura, da piccolo, segnava in un quadernino i film visti e i piatti assaggiati, quindi la propensione compilatoria è un dato del carattere. Che gli ha fatto comodo, in termini di sopravvivenza, quando ha cominciato a fare il giornalista sportivo. Durante il suo primo Tour de France, il battesimo del fuoco (o del cuoco) è stata un’ostrica in coma del plateau royal, piatto forte del ristorante La Reine Anne a Saint-Malo: il naso lo aveva sconsigliato, ma un altro senso, quello di emulazione per i colleghi più grandi ed esperti tanto impazienti di addentare il plateau, lo indusse a conformarsi. E mandò giù l’ostrica, con intuibili quanto repentine conseguenze gastriche. Siccome i giornalisti di ciclismo «si dividono in due categorie: con la gastrite e senza», un po’ per gola e un po’ per prevenzione, Mura ha sviluppato una curiosità e una memoria capaci di stanare e annotare le buone tavole, di non dimenticare quelle cattive, e di interpretare quel complesso sistema dei segni che permette di giudicare un ristorante, un oste, uno chef, un piatto senza farsi infinocchiare da recensioni cartacee e online, passaparola di circostanza, scenografie et alia. A questa esperienza personale va aggiunta quella accumulata in oltre un quarto di secolo con la rubrica Mangia e bevi che tiene con la moglie Paola sul Venerdì. (Gossip desunto dal testo: la signora Mura, che si occupa di vini, è allergica all’aglio).
Dunque, per capire che aria tira: la prima stoccata è sulla discutibile abitudine di stendere un filetto o una spigola su un letto d’insalata. L’insalata si offende e poi si ammoscia e il cliente pure. Vero, verissimo, anche se uno potrebbe obiettare: basta scansarla l’insalata, sta lì solo per bellezza. Macché, la scelta di un ristorante è scienza pura, bisogna partire dai dettagli, anche più insignificanti.
Dovendo organizzare una cena importante (anche importante è una variabile categoria dello spirito: corteggiamento, rimpatriata, celebrazione, esplorazione, affari...) Mura consiglia di visitare precedentemente il locale. Appurato che non abbia insegne al neon «diffidare, vanno bene per i bar e i night», si entra millantando l’intenzione di organizzare un convito per sei sette colleghi venuti da fuori e chiedendo se c’è una saletta riservata. Richiesta strategica che fornisce l’opportunità di intrufolarsi meglio e controllare tutto, ma proprio tutto.
Anche i quadri e decori: quando in sala trionfa il cattivo gusto può darsi che anche in cucina accada lo stesso, e son guai. Nelle trattorie fuori porta sono invece un buon segnale – se non si eccede con i lumicini cimiteriali – le vecchie foto di nonni e bisnonni, e dei dintorni «quando qui era tutta campagna»: testimoniano un attaccamento al passato. Tuttavia va messo in conto che i dagherrotipi non siano degli ari ma di illustri sconosciuti, recuperati dal rigattiere.
Mura è preoccupato anche per la dipartita di tovaglie e tovagliette: adesso va molto la tavola nuda. Ma la puliranno bene fra un avventore e l’altro? E i fiori secchi al centro della tavola? Bocciati: squallidi e antigenici (attirano la polvere). Fondamentale, poi, il controllo dei bagni. Devono essere specchiati, ma soprattutto privi di illuminazione temporizzata, che si spegne sempre nei momenti inopportuni, e forniti di catenaccio o chiave (c’era una volta ma non c’è più: l’autore ipotizza che una banda di collezionisti di chiavi dei cessi sia responsabile della sparizione).
Tutto questo, elencato nero su bianco, potrebbe risultare lievemente maniacale, ma in realtà è la summa di quel pregusto che tutti esercitiamo entrando in un locale. La differenza sta nella reazione: l’autore considera questi dettagli il presagio di un’esperienza che ha molte probabilità di rivelarsi negativa. E alza i tacchi. Molti di noi, invece subiscono.
Per evitarsi tutte queste indagini si può ricorrere alle segnalazioni. Nella sua lunga esperienza di gastronomo, Mura ha elaborato un suo metro di affidabilità: ne attribuisce il 55 per cento all’esame comparato delle guide, 40 alle dritte che gli arrivano dai lettori, 5 alla consultazione dei siti dei ristoranti e relativi commenti. Va detto che sui menù, in genere quelli pretenziosi, c’è una lista di aggettivi (a volte sostantivati) che lo mette di cattivo umore: «Croccante, morbido, tiepido, cremoso, goloso. Il più superfluo». E che di guida viene segnalato anche il minaccioso anagramma, Giuda (mentre è storia è quello di osteria, e chi vuole capire capisce).
Ultima notazione su TripAdvisor, di cui nel libro si parla e sparla lungamente: una locanda veronese specializzata in quinto quarto, ovvero interiora, coda & C., che esponeva in vetrina la scritta Aderiamo a Trippadvisor si è meritata «un piccolo applauso interno» di Gianni Mura. E anche questa è storia.