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 2015  maggio 08 Venerdì calendario

QUEI BRAVI RAGAZZI RAPITI DALL’INDUSTRIA DELL’AMORE

Del desiderio sessuale represso, dei suoi sfoghi brutali tra i soldati al fronte parla buona parte della letteratura della Grande Guerra. Sono accenni spesso pudici, controllati. Ma anche racconti espliciti, a loro modo crudi, talvolta volutamente sciatti, come a riassumere le frustrazioni eccezionali di quei tempi ridondanti di paura, sporcizia, caldo, freddo, fame e morte. Più tardi, descrivendo le code dei militari ai bordelli in attesa del loro turno, qualche storico parlerà di «industrializzazione dell’amore».
Giovanni Comisso, nel suo stile per nulla convenzionale, in Giorni di guerra (pubblicato nel 1930) ricordava quei pomeriggi di voglie trascorsi con i soldati della sua compagnia a «parlare di donne, del nostro desiderio di fare all’amore e dell’impossibilità di appagare la nostra brama». Il riferimento a un artigliere di Parma che gli passa il foglietto con la pubblicità di una fabbrica francese di gomme potrebbe narrare un fatto accaduto non cento anni fa, bensì ieri tra soldati americani o italiani in Afghanistan. Scriveva Comisso: «Il foglietto di carta leggera offriva una donna di gomma a mezzo busto con mammelle, oppure solo il ventre avec poils e sempre con piccola pompa per poterla gonfiare. Altre spiegazioni garantivano che il godimento sarebbe stato sicuro e straordinario. Noi si rideva, ma la tentazione era grande». Nel 2004, chiacchierando negli stessi toni, i Marines americani seduti alla mensa di Camp Victory a Bagdad si passavano le istruzioni d’uso di una “portable pussy” ultimo modello con batteria incorporata che assicurava “sensazioni assolutamente fedeli alla realtà”.
Estremamente realista è poi la descrizione che Comisso faceva dell’“apertura di un nuovo postribolo” presso la sua base nel comune di Cormons, in Friuli, durante i primi mesi del 1916. Cominciava con le fantasie dei soldati: «Le voci ogni giorno si fecero più lusinghiere, c’era chi asseriva che le donne non sarebbero state solite prostitute, ma bellissime signore desiderose di farsi possedere in mancanza di uomini nelle città lontane dal fronte». Sino a che, un giorno caldo e luminoso di piena primavera, anche lui con un commilitone si recò alla «casa bianca e isolata coi suoi tre piani», tanto misteriosa quanto bramata con giovanile impazienza. Attraversa un orto dove razzolano «grasse galline» custodite da una vecchia. Nel cortile tanti soldati, «molti scesi dalle trincee col vestito pieno di croste di terra rossa». Tacevano, in attesa, con «lo sguardo implorante e i più giovani aridi e barbuti sembravano invecchiati dalla vita di trincea come da un vizio precoce». Lui a tratti sente gorgogliare acqua dalle tubature e capisce che, ogni volta che ciò accade, dalle stanze una donna chiama il prossimo con una frase sempre eguale: “Avanti a chi tocca, su da bravi ragazzi”. I soldati sono disciplinati, addossati al muro per lasciare passare quelli che hanno già consumato. «Parevano confusi come per aver compiuto qualcosa di proibito o qualcosa di cui non si sentivano destinati. Quella donna che avevano potuto avere, era apparsa come un essere tanto diverso da loro, più pulita, meglio nutrita e con vesti che davano solo godimento a guardare».
Qui Comisso tocca repentinamente uno degli elementi più peculiari e noti della rivoluzione che la guerra causa per tanti italiani arrivati dalle province più remote. Contadini, pastori, lavoratori abituati a fumare poche sigarette alla domenica, a mangiare carne solo a Natale, Pasqua e in qualche rara festa famigliare, all’improvviso entrano in un esercito complesso, in una vasta organizzazione militarizzata, che offre loro una razione quotidiana di fumo, caffè e vino, scatolette di cibi mai assaggiati prima, luce elettrica e trasporti a motore. Per molti di loro, forse la maggioranza, cittadini di un Paese nato solo mezzo secolo prima, è l’incontro con la modernità. Gente abituata ancora a seguire i ritmi delle stagioni, a mangiare castagne d’autunno e a conservare ciò che sta nelle cantine delle stalle, può adesso consumare carne e pesce in scatola in ogni periodo dell’anno, scopre il gusto delle pesche sciroppate. Chi mai avrebbe immaginato di mangiare tonno lontano dal mare? C’erano figli delle Alpi e dell’Appennino che non lo avevano mai neppure visto un pesce dal vero. Così come il sesso: permesso rigorosamente soltanto se santificato dal matrimonio. «Per loro il sesso era tabù, un peccato da nascondere, così come predicato dal prete del villaggio. E adesso lo Stato offre apertamente i casini di guerra, donne a basso prezzo da pagare con lo stipendio del soldato. È una rivoluzione di cui pochi ancora oggi si rendono conto. La guerra per tanti italiani rappresentò un’occasione di scoperta di modi di vivere sconosciuti e impensati», ricordava poche settimane fa Giovanni Callegari, conterraneo di Comisso nel trevisano, esperto di storia locale sulle rive del Piave, durante un incontro a Montello sul Piave.

Il rispetto delle norme d’igiene. “Il coito sia breve”, ingiunge perentorio il cartello affisso sul muro del bordello. Le donne qui controllano la situazione come fossero austeri vigili urbani. Ancora Comisso: «Ogni tanto una porta si apriva, subito avveniva un ondeggiamento come tutti fossero attratti da una fortissima corrente d’aria e gli occhi si facevano accaniti». Il prezzo è tre lire. Alcuni sono talmente emozionati che non sanno più quanto devono pagare. La donna è impaziente. «Ma, sacramento, siete proprio bambini. Non sapete neanche contare!», sibila nervosa. «Com’è?»”, chiede Comisso al biondino che lo ha appena preceduto nella camera dove lui sta entrando. «Bona assaie»”, gli risponde questi in napoletano, ma «l’ultima parola gli si travolse stonata». C’è paura, timore, curiosità e ribrezzo e disperazione per l’intimità negata in questa casa del sesso in grigioverde dove in fin dei conti prima si finisce meglio si respira.
Nello studio sui Casini di guerra (edizioni Gaspari, 1999) lo storico Emilio Franzina ricorda che già nell’estate 1915 il governo italiano istituzionalizza i postriboli. Il tema è delicato. In Africa sin nel 1855 praticamente ogni ufficiale dell’esercito coloniale aveva un’amante nera. Durante la Grande guerra però la Chiesa e le istituzioni cattoliche cercarono di opporsi alla diffusione su larga scala dei casini di guerra nel territorio nazionale. Ma senza successo, i Patti Lateranensi sarebbero arrivati solo un quindicennio dopo. E gli alti comandi erano allora più preoccupati per la diffusione delle “malattie celtiche”, preferivano regolare i postriboli, piuttosto che subire le epidemie. Occorreva nel contempo che a casa mogli e fidanzate non ne venissero a conoscenza. Il morale nazionale ne avrebbe sofferto e così anche la sacra istituzione della famiglia, fondamento della Patria nata dal Risorgimento. Una precauzione questa che d’altronde investì anche gli altri eserciti europei. Da qui la carenza di dati completi. Gli studiosi si concentrano tutt’oggi su quelli parziali che emergono dalle regioni che furono allora coinvolte nei combattimenti. Franzina cita ad esempio un rapporto della prefettura di Udine al ministero degli Interni del 13 novembre 1916, dove viene notificata «l’apertura di nuove case di meretrici, delle quali due a San Giorgio di Nogaro e una a Latisana». La prefettura si premura quindi di sottolineare il suo impegno per garantire “il rispetto delle norme dell’igiene” con tre visite settimanali dell’ufficiale sanitario locale e la richiesta al Terzo Corpo d’Armata affinché a sua volta invii un medico militare specializzato nella cura delle “malattie celtiche”.

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