Gian Arturo Ferrari, Sette 8/5/2015, 8 maggio 2015
L’AMORE AI TEMPI DI JAMES È LA CONQUISTA DELL’INFELICITÀ
Quasi sempre le vicende amorose narrate nei romanzi hanno una durata temporale breve. O, per meglio dire, è breve la loro arcata risolutiva, il percorso che va dalla conoscenza reciproca, all’irrompere del sentimento, all’esito su cui finisce per stabilizzarsi, o per non stabilizzarsi, la relazione. Quasi sempre, ma non sempre. Nell’Amore ai tempi del colera, forse il più bel romanzo di Gabriel Garcia Marquez, il protagonista attende l’amata dalla primissima giovinezza fino alla maturità avanzata quando — in una memorabile scena — morto il marito di lei, la sera stessa dei funerali si presenta nella casa ancora addobbata dai paramenti funebri e tra i fiori sfatti delle corone viene a riscuotere il suo credito amoroso, finalmente attuabile e realizzabile. Anche in Washington Square l’arco sentimentale si estende per quasi una ventina d’anni, da quando Catherine Sloper, la protagonista, è giovanissima fino a quando ha ormai raggiunto i quarant’anni. Molte cose sono cambiate in questo lungo tratto di tempo. Alcune più esteriori e ovvie. La figura fisica di Catherine, peraltro mai esilissima, si è appesantita avvicinandosi a un profilo matronale, accentuato dalla sua incauta predilezione per un abbigliamento piuttosto greve, fatto di rasi, velluti, frange dorate. Ma anche il suo bellissimo innamorato, l’elastico e sciolto Morris Townsend, è divenuto più massiccio, con qualche tendenza alla calvizie e con una barba certo ben curata e profumata, ma con un tocco di prolissità. Altre, tra le cose cambiate, sono invece più profonde e decisive, più strategiche per così dire. È mutato l’atteggiamento della sorella di lui, che vent’anni prima non era certo stato benevolo nei confronti del fratello e del suo stile di vita. Soprattutto è morto il dottor Sloper, il padre di Catherine, l’uomo che sapeva tutto, compreso quel che i suoi interlocutori stavano per dire, l’uomo che con i suoi freddi occhi azzurri vedeva tutto, l’uomo che con la stessa naturalezza con cui si abbottonava i guanti pretendeva di tenere sotto controllo tutto e tutti. Scomparso lui, il vero ostacolo sulla via della piena realizzazione dell’amore (amore?) tra Morris e Catherine, ossia del matrimonio, la trama avviata vent’anni prima potrà arrivare a compimento? Questo è l’amo con cui Henry James ci ha preso e con cui ci trascina irresistibilmente verso la fine. Nel frattempo l’unica a non essere cambiata nell’arco del ventennio è la signora Penniman, sorella del dottore e dunque zia di Catherine la quale, vedova di un reverendo, vive con loro nella bellissima e borghesissima casa di Washington Square. La signora Penniman, figura hegeliana e prototipo della lettrice di romanzi femminili, è anche l’unica figura che James sbeffeggia apertamente. Lei crede nell’amore romantico, nelle fughe, nei piccoli appartamenti dove gli innamorati possono trovar rifugio, nella povertà sopportata con letizia, soprattutto nel lieto fine. E ancor di più nella parte di chi, disinteressatamente, nobilmente si prodiga a favore degli innamorati. E cioè nella propria. Passano gli anni, tutto cambia ma la signora Penniman resta sempre uguale a se stessa, ormai quasi grottesca, con un che di rinsecchito e metallico. Il mutamento, la torsione del tempo è un transito doloroso. Ma il non mutamento, sembra dire James, è molto peggio.
La legge mosaica del genere romance, ossia delle storie d’amore, si trova scolpita nella frase di apertura del romanzo capostipite, Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, del 1813. «È una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo (a single man) in possesso di un buon patrimonio (a good fortune) debba essere in cerca di una moglie». A quest’assioma principe si potrebbe aggiungere, ma in posizione di molto minore importanza, la cosiddetta “Legge di Lubbock”, dal nome del critico letterario Percy Lubbock, il quale stabilì che la storia d’amore deve a) essere raccontata dal punto di vista dell’eroina e b) avere sempre un lieto fine. Basta una scorsa rapida a Washington Square per rendersi immediatamente conto di quel che James ha voluto fare. E cioè raccontare una storia d’amore che capovolgesse le regole del genere. Il proprietario della good fortune non è lui, ma lei. Di conseguenza il single man non è in cerca di una moglie, ma di un patrimonio. Di conseguenza ancora a cercare il coniuge non è il lui, ma la lei. La storia non solo non è narrata dal punto di vista dell’eroina, ma, propriamente parlando, di quel che avviene nel suo intimo, di come lei vede e soprattutto sente quel che accade, non sappiamo fino all’ultima pagina rigorosamente nulla. La vediamo dall’esterno e ascoltiamo le sue dichiarazioni ma comprendiamo benissimo che questo è solo l’involucro esteriore che nasconde una realtà che ci sfugge. E, a mo’ di conclusione, il lieto fine non è lieto. Anzi.
Mancanza di carattere. Certo, le regole del genere vengono capovolte, ma la sostanza ultima del principio enunciato con tanta lucidità dalla Austen viene non solo mantenuta, ma ribadita. E cioè l’associazione, lei sì indissolubile, tra amore e denaro. È intorno al denaro, alla good fortune di Catherine, che tutto ruota. Lo vede subito il dottor Sloper, con i suoi freddi occhi crudeli che osservano la goffaggine di Catherine, la sua scarsa avvenenza, la sua mansuetudine che lui interpreta come mancanza di carattere. La più grande sorpresa che gli dà Morris, l’inaffidabile pretendente, è quando definisce Catherine “affascinante”. Le possibili virtù di Morris, il bellissimo aspetto, il controllo mondano, l’intelligenza acuta si trasformano in altrettante prove della sua doppiezza. Perché mai un uomo così dovrebbe interessarsi, addirittura innamorarsi di Catherine? Se non, naturalmente, per il suo patrimonio. Più Morris si prodiga, più, agli occhi del dottore, stringe intorno al proprio collo il cappio dell’inganno teso alla mite e un po’ stolida Catherine. Morris — pensa il dottore — ha molti pregi, ma non ha carattere, è un profittatore, mira alla dote. Lo è davvero? In parte, in gran parte, sì, ci fa capire James. Cerca di sistemarsi, indubbiamente, ma forse non intende scialacquare, dissipare, sperperare il patrimonio di Catherine come ha fatto nella prima giovinezza e in molto minori proporzioni con il proprio e come il dottore sospetta voglia fare di nuovo ora. Forse vuole solo vivere agiatamente e serenamente, accanto a una moglie ricca, buona e docile, ma non sciocca. Lei Catherine, è tanto consapevole della propria condizione sociale ed economica (ampiamente sottolineata dal padre) quanto diffidente dalle romanticherie della signora Penniman. Ma è innamorata, sinceramente e, verrebbe da dire, onestamente. Si fida di Morris e crede all’identità dei loro sentimenti, non vuole dispiacere al padre e insieme non vuole rinunciare alla propria vita. Non è lacerata, vede con chiarezza quel che deve fare. Dimentica — ed è questa la sua unica colpa — la forza tutta maschile, nel padre e in Morris, del denaro.
Il dottor Sloper, mente calcolante che prevede le mosse, mente da giocatore di scacchi, stringe all’angolo Morris, lo obbliga a scoprire le proprie reali intenzioni. Annuncia che se Catherine sposerà Morris, contro il suo volere, verrà diseredata. Non per questo Catherine diventerebbe povera perché le resta sempre una discreta eredità della madre, ma non sarebbe più quella ricchissima ereditiera che è. Catherine non si turba e persevera, ma Morris cede e rompe il fidanzamento dimostrando così che il senso del matrimonio era il denaro. Non ha neppure il coraggio di presentarsi di persona, scrive una lettera. Il dottore trionfa, l’incorreggibile signora Penniman difende il comportamento di Morris e cerca di consolare Catherine esortandola ad attendere la morte del padre. Catherine si chiude nella dignità, nella compostezza, nel silenzio.
Un silenzio ostinato, che dura diciassette anni. Nei quali si succedono viaggi in Europa, cerimoniose mondanità nuovayorkesi, la vita di una signora ormai di mezz’età. E la morte del padre, che muore com’era vissuto, prevedendo le circostanze, la malattia, la terapia e l’inutilità della medesima. Circondato da una scrupolosa osservanza dei doveri e da una totale mancanza di affetto. Ricompare Morris, ormai avviato alla cinquantina, con occhi più duri e strani. La situazione si è capovolta, si trovano nelle posizioni di quel tempo ormai lontano ma a parti invertite. «Quanto tempo era passato — pensa Catherine — quanto era invecchiata, quanto aveva vissuto! Aveva vissuto di qualcosa legata a lui, e aveva consumato quel qualcosa…». La sofferenza è stata troppo lunga, come Morris l’aveva lasciata così adesso lei congeda lui. L’essenza del romance è l’attesa, la conquista della felicità. In Washington Square Henry James costruisce una simmetria rigorosa, dà un impianto geometrico all’infelicità. Tutti attivamente lavorano a rendersi infelici. Il dottor Sloper, che non vuole rinunciare a un poco della sua intelligenza per rendere felice sua figlia. Morris che antepone il denaro alla felicità di Catherine. Catherine stessa che umiliata non rinuncia a umiliare e sacrifica al puntiglio e all’orgoglio una modesta ma possibile felicità, di Morris e sua propria. Un capolavoro crudele.
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