Edoardo Vigna, Sette 8/5/2015, 8 maggio 2015
IL RITORNO A CASA DI STING «DA QUI ERO SCAPPATO PER LO SGUARDO DELLA REGINA» IL RITORNO A CASA DI STING «DA QUI ERO SCAPPATO
PER LO SGUARDO DELLA REGINA» –
«Nella vita siamo tutti boat people, (profughi, come chi fugge su gommoni e carrette del mare, ndr). E la tragedia che sta avvenendo nel Mediterraneo ci riguarda tutti da vicino: non possiamo, non dobbiamo dimenticarlo. Andiamo verso il futuro nello stesso scafo. La regina d’Inghilterra, le rockstar come me, i giornalisti come lei, gli operai, gli insegnanti. E i migranti. A bordo insieme, uniti dallo stesso destino». Sting si accarezza per un attimo la lunga, lunghissima barba. «Guardo a queste persone che mettono se stessi e la propria famiglia in una situazione di assoluta mancanza di sicurezza. Di prospettive. Semplicemente, guardano all’Europa e pensano che la risposta ai loro problemi sia lì. Invece, si trovano sfruttati da questi pirati, e così la tragedia li attende. Una soluzione a questo problema enorme, io non ce l’ho. Esprimo però un’emozione. E di sicuro non è solo sull’Europa che dobbiamo scaricare il compito di trovare una strada... tutti dobbiamo cominciare a considerare questa questione una nostra responsabilità».
Imbarcazioni-gusci che trasportano la vita e il destino degli uomini. Un’immagine che è davvero nel centro del cuore dell’ex leader dei Police, che oggi torna qui, dov’è nato 63 anni fa. A Wallsend, un pugno di chilometri da Newcastle, Inghilterra del Nord-Est. Dove una volta pulsavano i grandi cantieri navali del regno di Sua Maestà. «La nave è un simbolo davvero potente per me. Quasi apocalittico. È uno dei miei primissimi ricordi: stavo in piedi, immobile, e guardavo la strada che scendeva giù ai cancelli. Davanti a me, enorme, si ergeva la prua di questa nave gigantesca. Gli uomini lavoravano per il suo varo, per farla scivolare nel fiume Tyne, e poi verso il Mare del Nord e l’oceano. C’era un rumore assurdo, l’aria era intossicata. Una sensazione incredibile. In fondo, la nave è anche un simbolo della mia vita. Sono salpato anch’io, andando lontano da qui, e non sono più tornato indietro».
Le navi, spiega la rockstar inglese, non rientrano nei cantieri che le hanno partorite. Lui, per molto tempo, ha seguito lunghe circumnavigazioni altrove. È approdato in molti porti. Londra (dove ha appena comprato un’altra casa alla Battersea Power Station, resa iconica dai Pink Floyd), New York, dove ormai vive. La Toscana, «luogo con cui ho una grande affinità caratteriale»: «Io e Trudie (la seconda moglie, sono insieme dall’82, ndr) abbiamo acquistato la tenuta di Figline Valdarno, il Palagio, 20 anni fa. Anche se, a dire il vero, non ci abbiamo passato moltissimo tempo: ero sempre in tour». Ha conquistato i mercati di tutto il mondo: più di 100 milioni di dischi venduti, da De Do Do Do De Da Da Da e Roxanne, con i Police, ai trionfi di 31 anni da solista. Sempre lontano dalla terra natia.
Certo, anche qui, a casa, ha già suonato. Ma stavolta è diverso: a 63 anni, davanti alla “sua” gente”, in un’unica tappa europea (finora) nel teatro avveniristico firmato dall’archistar Norman Foster (The Sage Gateshead, una specie di “grande balena” di acciaio e vetro inaugurata 10 anni fa dalla regina Elisabetta) porta il suo album, The Last Ship, l’ultima nave, appunto: quello con cui racconta le sue origini, gli uomini e le donne tra cui è cresciuto, «i cantieri dove lavoravano il nonno e i suoi fratelli». Queste canzoni sono nate per diventare un musical, a cui Sting ha fatto cercare successo altrove: a Broadway, dove è rimasto in cartellone 4 mesi, fino a gennaio, e che ha appena ricevuto tre nominations dal prestigioso Outer Critics Circle e 2 al Tony Awards: «Stiamo discutendo se portare il musical in Europa, e chissà, anche in Italia... Genova ha una grande tradizione di cantieri navali, anche se la metafora è universale», ci dice in una saletta, prima dello spettacolo.
Sopra l’accampamento romano. Il fatto è che Gordon Matthew Thomas Sumner, da qui, era scappato. Quasi 40 anni fa. «Sto ancora cercando di capire cosa significhi per me questo ritorno», dice con un sorriso tirato e sincero. Deve metabolizzarlo. Il figliol prodigo indossa jeans grigi strappati al ginocchio, t-shirt nera aderente, bicipiti stra-tonici e un sobrio braccialetto d’acciaio. «Sono nato e cresciuto a due passi dai cantieri: era qui che ero destinato a lavorare e vivere. La casa in cui stavo da bambino, in realtà, è stata abbattuta: durante i lavori, sono saltati fuori i resti di un accampamento militare romano. Wallsend (letteralmente, la fine del muro, ndr) è il luogo in cui terminava il Vallo di Adriano». Lo sbarramento voluto dall’imperatore che segnava la “fine della civiltà” a nord, contro i Pitti. «La mia famiglia viveva proprio sopra il presidio romano, sotto hanno trovato un tempio del dio Mitra: forse viene da lì la mia connessione con l’Italia… Traslocammo poco più su, sulla strada principale: ogni mattina, vedevo migliaia di uomini percorrerla per andare a lavorare nei cantieri. E alla sera, quello stesso fiume compatto di gente tornava a casa. Li guardavo, e pensavo che quello sarebbe stato il mio destino». Il padre – «ingegnere di formazione» – distribuiva il latte, la mamma era parrucchiera. «Non che mi sentissi migliore di nessuna delle persone di Wallsend: semplicemente, sognavo un futuro diverso. Lo volevo con tutte le mie forze… via da lì».
And yet, I’m back, canterà al concerto. E sì, eccolo qui, ora. I biglietti (il ricavato va in beneficenza) sono andati via in un attimo, nessuno show è stato esaurito più velocemente, a Newcastle. Sting prova con la band per più di quattro ore. Occhiali da vista con la montatura nera, sembra tranquillo, si accarezza il barbone. Ma ripete e riprova ogni brano, dispensa incoraggiamenti. «Very good». «Lovely». Però è inflessibile. «Da capo, per favore, tutti», chiede in italiano, seduto sul trespolo, al centro del palco. «Nice… Un pochino troppo veloce», corregge, sempre gentile. «Ripetiamo». C’è il suo chitarrista di sempre, Dominic Miller, la splendida cantante australiana Jo Lawry, la violinista Kathryn Tickell, «amica da una vita». Ma lo accompagnano anche il cantante Jimmy Nail, che del musical newyorkese è stato l’attore protagonista, e il fisarmonicista Julian Sutton: famosi, da queste parti. Nelle poche pause, Sting fa stretching, flessioni, si sdraia su un fianco e accenna esercizi di pilates. «Mi tengo in forma», ammette durante l’intervista. «Non voglio essere grasso. Sono molto vanitoso!», si schernisce. «Ma è anche utile, comunque». C’è Newcastle da sedurre, domani, comunque. Anche se ostenta di non tenerci poi troppo.
I bambini come lui. La sua città, intanto, si prepara. «Loud and proud», ad alta voce e con orgoglio: così le insegnanti Claire, vestita di verde, e Sharon, in abito rosso, istruiscono i 400 ragazzi che riempiono la “balena”: il ritorno del figliol prodigo si festeggia anche al pomeriggio, con una matinée per i ragazzi delle scuole locali, che indossano le magliette bianche, nere, grigie, turchese dei vari istituti. È dalle vacanze di Pasqua che provano, a scuola e a casa: faranno da coro d’accompagnamento a cinque canzoni di The Last Ship; qui, prima di cantare con Sting e la sua band, si esercitano per un’altra mezz’ora. Loro non sanno nulla di quanto Sting volesse abbandonare la loro città. Lui è la grande celebrità cittadina. Quando entra, la rockstar è così poco loquace da sembrare davvero emozionata. «La prima volta che mi sono esibito in pubblico?», risponde alla domanda di un bambino. «Avevo 10 anni, andavo in giro a vendere i giornali: Comprate The Journal!!, The Journaaaaallll!!! E poi, accompagnavo con il furgone mio padre a distribuire le bottiglie di latte e mi inventavo canzoni».
Non racconta loro tutta la verità. «La realtà è che, a 9 anni, sono stato “infettato”», ci dice, a quattrocchi, spiegando la storiella che userà poi, anche durante il concerto, per dare conto del perché della sua fuga da Wallsend, da Newcastle, dalle navi e dal suo mondo. «Ci scherzo, ma c’è del vero: per il varo delle navi, invitavano personalità da Londra a fare un discorso e lanciare una magnum di champagne sullo scafo. Talvolta veniva addirittura un membro della famiglia reale». Due secoli fa, noi inglesi pensavamo che i reali avessero un potere di guarigione, ripeterà la sera, ai concittadini, che sghignazzeranno nel buio della sala: cercavamo quasi di toccare loro i vestiti per essere curati dalle malattie. «Nel 1961, venne la regina madre. Sbucò nella mia strada su una Rolls Royce, la macchina più grande che avessi mai visto, preceduta dalle moto-staffette. Salutava con la manina, e io, con il vestito della festa, agitavo la mia piccola Union Jack (la bandiera del Regno, ndr). Incrociò i miei occhi e ci guardammo. La mia mente esplose. Una persona famosa mi aveva notato. Non mi aveva curato, però: mi aveva infettato. Io non appartengo a questo posto, a questa casa, cominciai a pensare; non voglio finire a lavorare nei cantieri navali. Voglio essere in quella macchina, invece, voglio una vita più grande della mia città, in un mondo più grande. Non sapevo come arrivarci, non dicevo “voglio essere una rockstar”. Ma questo desiderio di scappare da quelle navi era più grande. Mio padre mi spingeva a studiare materie tecniche, mi vedeva lì: io volevo fare storia e filosofia, latino e poesia. Lui scuoteva la testa: “A che servono…”. Andai via, un giorno, senza dover spiegare niente neanche a lui. E senza garanzia di successo. Fu un rischio, m’è andata bene».
Noi orgogliosi Geordies. E così, Sting partì per Londra. Era la fine degli anni 70: vennero i Police e tutto il resto. Anche le navi, da qui, se ne sarebbero andate via per sempre, con i cantieri chiusi, travolti dalle crisi. Mentre Sting diventava un “Englishman in the world”, un inglese nel mondo, per parafrasare uno dei suoi successi più grandi. «I miei genitori non ci sono più da tanto (dall’inizio anni 90, ndr): qui non ho più legami. Il mio primo amore?». Esita, per un attimo, in un tuffo nel passato. «Avevo 16 anni. Non c’è più neanche lei. Qui però ci sono ancora dei fantasmi, per me». Che cosa ha raccontato ai quattro figli, delle sue origini? «Vuol sapere una cosa strana? Quando sono venuti a vedere The Last Ship, mi hanno lasciato di sasso: “Non ci avevi mai spiegato da dove venivi”. Non me n’ero mai reso conto. Per loro è tutto diverso, sono veri cittadini del mondo. Una delle mie figlie è nata a Pisa, uno a Parigi, uno a Londra e uno a New York, e ora vivono in America».
Ma c’è un “thank you” che Sting può trovare, dentro di sé, da rivolgere a Newcastle «Per l’orgoglio fiero che c’è in questa città, in questa comunità. Qui non è più veramente Inghilterra e non è ancora Scozia. Siamo in mezzo. Ci chiamiamo “Geordies” (termine che dovrebbe venire dal fatto che i minatori usavano le lampade di sicurezza inventate da George Stephenson, ndr). Qui sono arrivati i vichinghi, i romani, i sassoni. Così alla fine abbiamo deciso che apparteniamo a noi stessi e a nessun altro. E questo luogo ha fatto di me ciò che sono. È una zona famosa per l’industria pesante. Navi, tank. Munizioni. Era potente, ricca. Finché l’evoluzione economica ha distrutto tutto. Ma l’orgoglio degli uomini che ci lavoravano è ancora qui».
The Last Ship racconta la storia di un gruppo di operai che, di fronte alla chiusura di società di costruzioni come The Swan Hunter, (dove nacque anche il Carpathia, la nave che salvò i superstiti del Titanic), decidono di costruirne una tutta loro con cui prendere il largo. «Uno dei miei temi, nello spettacolo, è l’importanza del lavoro. Dell’essere capaci di fare qualcosa di concreto, e dell’essere orgoglioso di ciò che fai. Io lavoro con le mie mani ogni giorno: suono. Gli uomini che lavoravano nei cantieri potevano guardare, alla sera, la nave e dire: ecco che cosa ho costruito oggi. Con orgoglio. Oggi lavoriamo con il computer, è tutto più effimero. Non si torna indietro, ovvio, ma penso che manchi qualcosa alla nostra società».
Questione di barba. Sting non ha portato molto, con sé, da Wallsend. «È vero, mi sveglio ancora alle 7 come un tempo; e mi taglio ancora i capelli (ancora biondi, con qualche accenno di grigio, ndr) da solo». Aveva imparato a farlo dalla madre. «Mica tutti i giorni: mi guardi, come sono spettinato», se la ride. La fierezza di Newcastle, però, c’è ancora. «E l’ho ritrovata in Toscana», uno dei luoghi in cui ha attraccato nel suo lungo viaggio della vita e dove produce vino e olio d’oliva. «È una terra che ha orgoglio della propria storia, della lingua. E dove ho imparato questo, degli italiani: qualunque sia il caos nel governo del Paese – e c’è una storia di caos, nei vostri governi, lunga decenni, lo so bene – la vita è sempre “La Bella Vita” (che pronuncia, ovviamente, in italiano, ndr). Sicuro. C’è un’attitudine verso il cibo, il vino, gli affetti familiari che va avanti e ammiro. Molte cose non vanno bene, in Italia: ma il senso di comunità resiste, e va ammirata», ripete. Qualcuno in particolare, degno di ammirazione? «Non mi viene un nome, così, su due piedi».
Parla con calma. Riflette. E continua ad accarezzarsi la barba. «L’ho fatta crescere l’anno scorso per lo spettacolo, rendeva l’idea del personaggio. Ora la tengo perché, quando vado in giro, nessuno mi riconosce al volo». Nemmeno il tempo di pensare “è lui o non è lui?” ed è già andato via. «Mi dà molta libertà». Anche di comporre. «Adoro passeggiare, il suo ritmo mi fa nascere in testa musica e canzoni. Anche questa mattina ho camminato un’ora e mezza sul fiume, qui a Newcastle». Con la barba fa venire in mente la “testa del filosofo” della scultura bronzea della Grecia classica al Museo di Reggio Calabria. E infatti, Sting adatta il rôle al phisique. «La mia infanzia non è stata veramente felice, la mia famiglia era un caos. Ma ho imparato a essere grato a ogni cosa. Tutto ciò che mi è capitato è diventato parte della mia storia. Buona o cattiva. Non vuol dire che non sia stato faticoso. Ma non ho nessuna rimostranza, nessun rimorso. E sono stato ferito, certo: ma una vita senza ferite è una vita a metà. Ho fallito? Poche volte, a dire il vero. Il mio primo matrimonio, quello sì, è stato un fallimento: ma mi ha dato due figli straordinari».
Porto con me “America”. La navigazione è stata lunga, da Newcastle a Newcastle. «Non riesco a dire quale sia, fra le mie canzoni, quella che mi porterei dietro in questo viaggio: è come chiedere di scegliere tra i miei figli, sono diversi ma li amo tutti allo stesso modo. Certo, quella che lo rappresenta di più è proprio The Last Ship. Se dovessi pescare fra le canzoni degli altri, invece, porterei senz’altro America, di quel genio di Paul Simon (la lanciò come singolo nel ’72 con Art Garfunkel. Ed è in tour quest’anno con Sting, ndr). Mi ricorda parte della mia vita: soprattutto quando sono partito verso la grande avventura. Ha un senso di rischio, di pericolo. Di nostalgia…». Neppure un rimpianto… «È come nella navigazione. Ogni momento può cambiare tutto. Andare in una direzione, o in un’altra, trasforma la tua vita, la rende diversa da ciò che è». Non si pente nemmeno di quella dichiarazione sulle sette ore di sesso tantrico con la moglie (poi presentata come una boutade parlando alla Bbc…), per cui, certe volte, viene ricordato più che per canzoni come Every breath you take o Fragile? «E perché? Contiene una verità: il sesso ha un aspetto spirituale. Può portare la vita, il piacere, il divertimento, significa dare e ricevere gioia. L’idea che sia qualcosa di sporco è stupido».
Dove ha lanciato l’àncora, invece, per ripararsi? «La famiglia è stata il mio porto, e una donna meravigliosa, Trudie, che è sempre presente, anche se siamo sempre in giro per il mondo». Una relazione straordinariamente lunga, oggi: come si resiste alle tempeste? «Non conosco la risposta. Quello che so è che ogni giorno è una negoziazione. Un compromesso, ma anche un’evoluzione. Non puoi stare in una relazione e pensare di essere lo stesso che eri ieri, di avere di fronte qualcuno che conoscevi com’era ieri. Le persone sono diverse, bisogna rinegoziare sempre».
Il concerto si avvicina. Newcastle, con le giacche eleganti, le signore bionde di parrucchiere, cominciano a riempire la sala. «Ne sono orgoglioso. Ma sono ancora più orgoglioso del mio viaggio», ammette Sting. Quest’anno saranno 64 anni, il prossimo 65. Che cosa lo mantiene così carico? «La mia curiosità. Per la musica, per la vita. È ancora la stessa di un ragazzo. Questo è l’unico segreto. Voglio ancora imparare. Anche se, lavorando con la musica classica (l’album del 2009 If on a winter’s night era ispirato anche a Henry Purcell e Bach, ndr), ho capito che non abbiamo tempo abbastanza nella nostra vita per apprendere tutto ciò che ci varrebbe la pena imparare. Ho ricominciato anche a rileggere libri che avevo letto da ragazzo. Come Moby Dick, che ho compreso molto di più oggi». Sting è più balena bianca o capitano Achab, che le dà la caccia senza tregua? «È la storia di un’ossessione distruttiva. Anch’io ho un’ossessione, un disordine compulsivo che ti fa passare ore a fare scale, a cercare le note giuste… Ma la mia balena è più benigna: la musica».
Idee, per la prossima rotta? Scuote la testa. «Per ora, nessuna». Intanto c’è da salire sul palco. Il pubblico l’aspetta. Mentre canta The Last Ship, la prima canzone, la voce ha quasi un’esitazione. «Io non volevo vivere qui, volevo andare via», racconta, spietato, alla gente di Newcastle. Che invece non ha esitazioni: applaude. Il figliol prodigo è tornato, carico di onori. Lo spettacolo è lungo, due ore e mezzo: sfiancante, certo. Forse per questo, quando le luci si spengono, Sting non tornerà in scena a cantare tutti i bis suonati nelle prove. Forse deve ancora metabolizzare.