Ilaria Bernardini, GQ 5/2015, 7 maggio 2015
LA RICERCA DELLA FELICIT
[Gigi Buffon]
Gigi Buffon nel 2006 è stato campione del mondo e l’IFFHS lo ha nominato portiere più forte del secolo. È il capitano della Nazionale e il capitano della Juventus. L’obiettivo sportivo è disputare il suo sesto mondiale: non esistono nella storia calciatori che abbiano giocato sei mondiali. Il suo epiteto, nel mondo, è il Leggendario Portiere Italiano. L’incontro si svolge a Torino. Buffon arriva dagli allenamenti, saluta, si veste, fa le foto, l’intervista, altre foto. È gentile e dolce con tutti. Le domande che ci sono state durante la chiacchierata sono state poi eliminate nella scrittura. Il senso di ognuna era sempre quello di una presa di temperatura, della vita, del tempo, di quello che sente ora. A vederlo come un flusso di coscienza, restava forse l’essenziale.
«Quando si può dire di essere adulti?». Abbiamo cominciato così.
Secondo me si comincia a essere adulti nel momento in cui ci si fa carico delle responsabilità. Per me, ora, questo vuole dire diverse cose: la famiglia, la squadra, essere un cittadino. E quindi un tema sia intimo, personale, sia pubblico e quello che è difficile è mantenerne la coerenza. Per me la coerenza è un tema fondante.Un passaggio importante nella mia maturazione è stata la depressione. Dopo è arrivata la consapevolezza, una sorta di consacrazione e di rivoluzione. Fino a quel momento mi sentivo ragazzo a tutti gli effetti. Avevo un entusiasmo e un’energia incredibili, una spensieratezza nel fare le cose che dopo non ho più avuto: era inevitabile, credo. Il cambiamento, quindi, per quanto mi riguarda ha a che vedere con la presa di coscienza. Il motivo per cui fai le cose e il senso della tua presenza iniziano a svelarsi, a essere un tema. Il perché arriva prima delle azioni, mentre nella vita precedente era tutto l’opposto. Spostarsi in quell’altro posto dell’esistenza ti fotte anche una certa bellezza della vita e per esempio vivere senza regole, senza un’idea precisa di sé, tutto questo svanisce. Però i ruoli comportano obblighi e idee, e tutto quello che sei e quello che avresti desiderato non lo puoi più cercare alla stessa maniera.Anche il pensiero della paura cambia. Il pensiero della paura ora è sempre e soltanto legato ai miei figli: è a loro che penso se mi sveglio di notte. Quello che mi turba è per esempio l’idea di poterli deludere o dar loro, anche inconsapevolmente, degli insegnamenti sbagliati. Ogni tanto penso davvero e nella mia testa lo immagino precisamente: ah, se passasse un treno e, buttandomi, potessi, salvare i miei figli. Non ho la minima esitazione. Darei la vita per loro, proprio come si usa dire. Così come diventa vero il bisogno reale di trasmettere i propri valori.Credo molto nel rispetto, nella gentilezza e nell’educazione. Nei gesti semplici e puri si racchiude l’essenza di chi sei e di chi puoi diventare. Se hai la sensibilità di capire che l’autobus è stracolmo e una vecchina ha bisogno, se sai guardare e ascoltare chi ha bisogno, non potrai fare male volontariamente nella vita.
Gioco molto con i miei bambini. Posso essere libero e cazzone, ma cerco di trasferire loro l’attenzione, la cura così come la sensibilità verso gli altri e verso gli amici, gli adulti, la scuola, la città. Ma i bambini, che sono atomi del mio corpo, mi incuriosiscono parecchio e dunque li lascio anche andare a briglie sciolte per vedere chi sono realmente: quando non gli imponi nulla, la loro essenza si rivela.
È strano ma avevo un’idea molto chiara anche di che padre sarei stato. Fra le milioni di confusioni che posso avere anche tuttora, ho infatti anche molte certezze su chi sono. Essere così introspettivo, in qualche modo, mi ha aiutato. Anche quando sono stato pubblicamente aggredito, per esempio, non come calciatore ma come persona, non mi sono lasciato fagocitare. Sapevo di non meritarlo e non ho vacillato perché quando mi guardavo allo specchio sapevo chi ero.
Non ho in questo senso paura del giudizio degli altri perché il giudizio che mi do è di uno che ha sempre voluto tantissimo da se stesso e quindi sono passato da tutte le debolezze e dalle preoccupazioni.
Non credo che, se non mi fosse accaduto di essere il portiere che sono, sarei stato molto diverso. E questo lo capisco profondamente quando torno a casa e parlo con mio padre o con mia madre e sempre mi ritrovo: sono molto simile a loro. Siamo così affini di carattere, per come ci sentiamo o per il nostro approccio alla vita.
Da qui in poi, da dove sono ora, la mia ambizione è un miraggio, un’utopia e il mio miraggio e la mia utopia sono la felicità totale, ventiquattro ore al giorno. Questo è il mio progetto e mi sembra niente male. La felicità è una ricerca continua, comporta anche sofferenze e sacrifici: essere accompagnato in questa ricerca dalla persona che amo è il traguardo. Condividerlo con lei mi appaga e trovare chi crede a quello che si fa insieme, anche alle cazzate che si dicono, proprio come quando si dice voglio essere felice 24 ore al giorno, è meraviglioso.
È una frase di un bambino, di tre anni però credo che bisogna salvaguardare la possibilità di stupirsi e credere nei sogni. Senza questo tipo di movimento, non esiste nulla. L’idea di felicità è quindi per me fondata su una grande serenità interiore, data dai rapporti che ho come amico, come figlio e padre, fratello, come compagno: questo è quello che mi fa stare bene. Non è però sempre così e allora quella che per me è l’apoteosi reale è ricavarmi il tempo per i libri o gli articoli che tengo da parte. È una cosa che ho imparato tardi. Per esempio studiare la storia, mi fa proprio godere.
Il senso di pienezza dato dalla cultura è assoluto ed è un cerotto per le ferite dell’anima. Per questo sono geloso dei miei spazi, posso essere di compagnia ma ho davvero bisogno di stare isolato parecchio. Credo che la solitudine sia anche un modo per rivelarci veramente a noi stessi. Quando parli con te stesso più o meno ti poni le stesse domande di quando si parla o si pensa di parlare con un’entità superiore. Quindi, visto che mi piace chiedermi perché esistiamo, mi piace anche chiedermi se quello che ho fatto era giusto.
Anche questa inclinazione mi è stata tramandata: guardare, contemplare. Una delle cose che noto continuamente, al di là di tutti i problemi che creiamo noi uomini, è sicuramente l’incredibile perfezione del mondo, di un albero, una foglia o un fiume. Siamo arrivati a questo, abbiamo ereditato tutto questo e notarlo, per me, è il senso.
Questo tipo di vita ti consuma da un punto di vista fisico e nervoso, ma ti regala qualcosa che non ti dà nient’altro al mondo. L’emozione di essere il protagonista di una competizione importante è qualcosa di inspiegabile. Poi, quando in maniera anche brutale e da un momento all’altro, si chiude la saracinesca e il circo se ne va, di certo il contraccolpo psicologico ti può abbattere.
Non credo però di voler fare l’allenatore perché l’idea di ricominciare di nuovo questa vita, ogni giorno, non mi fa impazzire. Ma essere il ct di una qualche nazionale, fare esperienza altrove, quello sì, mi piacerebbe. Mi immagino anche di poter desiderare un ruolo dirigenziale e, dopo un buon percorso di formazione, quello che potrei dare al movimento calcistico. Potrebbe essere un patrimonio anche per gli altri. Dopo venti e passa anni di Nazionale e di Serie A e centosettanta partite in Nazionale, qualcosa di mio, in termini di esperienza e conoscenze, potrebbe tornare utile. Nella società in cui sono c’è unità di intenti e i meriti sono di chi sta a capo. Gli input arrivano sempre da lì e gli altri devono essere bravi a eseguire. Il capo deve avere fame e desiderio di stupire perché quando si sente appagato, su questa soddisfazione ci si crogiola e si decade.
Sono gli altri che possono riconoscere in una persona la leadership ma imporla non potrà mai funzionare. Io ci tengo a portare anche ai miei compagni e alla mia squadra i valori in cui credo. Per esempio credo che si vinca sempre col gruppo, con le venticinque persone che giocano e anche quelle che non giocano. Il rispetto per ognuno deve essere identico.
Essere capitano della Nazionale per me è bellissimo. Come cittadino posso lamentarmi, ma non c’è mai stato un momento in cui io non sia stato orgoglioso di essere italiano. Il mio senso di appartenenza a questa nazione è spiccato ed è qualcosa in cui credo molto. E se anche, ovviamente, vedo gli incredibili limiti che tutti noi conosciamo, questo è un Paese che non si può non amare, fosse anche solo per tutte le eccellenze, nell’arte, nella cultura, nello sport, che riusciamo ad avere pur essendo una nazione piccolissima. Siamo un popolo speciale, ma non abbiamo più la consapevolezza di esserlo: la nostra terra e la nostra storia non lo meritano.
Manca in questo momento la curiosità che ci aiuterebbe a ritrovare le nostre potenzialità. Ma se non si è curiosi di sapere dove viviamo, cosa cazzo viviamo a fare? Per conoscere e innamorarsi, delle cose come delle persone, bisogna andare in profondità. Dovremmo quindi conoscere il Medio Evo, il Risorgimento, la Prima guerra mondiale, la Seconda, Mazzini, Garibaldi: i sacrifici e le vittorie, le unità perché esistono e insomma, noi stessi. Bisognerebbe approfondire anche con i bambini perché è così che si comincia, creando un legame profondo e consapevole con la loro storia. Per me tornare a casa è dunque sempre tornare in Italia. Niente su questa terra somiglia a questo Paese e mi accorgo, quando vado fuori, e io vado spesso fuori, che ho sempre bisogno di tornare al mio villaggio. Sono le radici. Ma è anche che quando faccio il paragone con le altre nazioni, ringrazio sempre la vita per avermi fatto nascere proprio qui. È la casa di gran lunga più bella del mondo. Ma forse quando si ricevono certe meraviglie in maniera facile, senza avere lottato, senza essersi domandati chi siamo, non si riesce più a sentire, a vedere.