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 2015  maggio 03 Domenica calendario

COME PESANO LE BANDIERE


[Diego Perotti]

Diego Perotti andrebbe studiato nelle scuole. Spiegato ai ragazzi che non hanno voglia e non hanno sogni. Che si arrendono prima ancora di cominciare. Perché la sua è la storia di uno che ce l’ha fatta nonostante tutto. Nonostante un nome e un cognome che lo hanno zavorrato come macigni. I pregiudizi di chi, più lui cresceva, più si divertiva a buttarlo giù. Il calvario di infortuni muscolari, l’ultimo dei quali domenica scorsa contro il Cesena dopo l’ennesima partita da protagonista.
Oggi, a 26 anni, l’esterno argentino prova ancora a diventare quel che prometteva di essere. Un fantasista tutto agilità e tecnica: l’assist che si è fatto uomo. Il Genoa lo ha preso a scadenza di contratto col Siviglia per 300 mila euro e in Liguria Perotti ha tradotto la sua classe in numeri: 27 partite giocate su 32 di campionato (e 4 delle 5 assenze sono dovute a squalifica), ha una media voto Gazzetta ben oltre la sufficienza (6,4), ha segnato 4 gol e distribuito 6 assist (ma ha messo 44 volte un compagno in condizione di calciare in porta). Non solo: in base ai dati forniti da Opta, alla 31ª giornata era secondo al solo palermitano Vazquez (104 a 97) nella classifica dei dribbling riusciti, specialità della casa, e primo in quella dei cross azzeccati.
Sei anni fa Maradona, all’epoca commissario tecnico dell’Argentina, la convocò per la prima volta. Contro la Spagna entrò dando il cambio a Messi. Chi era Perotti allora?
«Un ventunenne che stava facendo bene in Spagna col Siviglia ma che certo non si aspettava di essere chiamato. Da Maradona, poi... È stato il momento più alto della mia carriera».
Papà Hugo fu compagno di Maradona. Che cosa le ha raccontato del Pibe?
«Hanno giocato insieme soltanto un anno, ma a lui è bastato per capire che era il migliore, non soltanto in campo. Era dotato di una personalità eccezionale. All’epoca aveva 18 o 19 anni, eppure mio padre mi raccontava che, per mentalità e atteggiamenti, sembrava ne avesse 30».
E oggi, chi è Diego Perotti?
«Quello che mi è successo mi ha insegnato a vedere la vita, non soltanto il calcio, in maniera diversa. Ora sono in una squadra che mi ha dato fiducia e l’opportunità di sentirmi di nuovo un calciatore. E questo infortunio, che arriva a fine stagione e non è così grave, non cambia le cose. Quando sono arrivato non pensavo che sarebbe andata così bene. Avrei messo la firma per giocare così tanto».
Cos’ha fatto la differenza?
«Al Genoa, dal primo giorno, mi hanno fatto sentire bene. Di testa prima che di gambe. Non è tanto per dire: mi sono sentito amato da compagni e tifosi».
In che modo le hanno dimostrato affetto?
«Io dall’autunno del 2011 al febbraio del 2013 non sono riuscito a giocare 7 partite di fila. Strappi, stiramenti: di tutto e dappertutto. E ancora l’anno scorso è stato più il tempo che sono rimasto fermo che quello che ho passato a giocare. Eppure arrivo qui e mi danno la maglia numero 10. Mi fanno sentire importante. La curva canta: “Diegooo... Diegooo...”. Non credevo che sarebbe successo tutto questo, al primo anno in A. E tutto così in fretta».
Cos’ha in più mister Gasperini?
«Al Siviglia ho cambiato 6 allenatori in 7 anni. Gasperini è diverso da tutti perché con lui lavoro di più. Io avevo bisogno di questo. Lavoro duro, fin dal primo giorno di ritiro estivo. Ho trovato uno staff di persone – tecnici, preparatori, medici, fisioterapisti – che sta insieme da 10 anni e ragiona come una persona sola. Mi sono fidato, cosa che non succedeva più al Siviglia, dove a ogni dolorino mi fermavo. Qui in allenamento ho continuato a lavorare sui dolori finché sono scomparsi».
Sia sincero: pensa di aver riacquistato la brillantezza atletica che aveva prima di farsi continuamente male?
«Penso di aver ritrovato quello che mi è mancato per troppo tempo. Non sono mai stato uno che fa troppi gol, ma il dribbling sì, sento che sta tornando quello che ho mostrato ai primi tempi al Siviglia. Mi viene naturale dribblare uno, due avversari. È il mio pezzo forte».
Suo padre invece che giocatore era?
«Giocava come me, sulla fascia. E come me amava dribblare. La differenza è che lui era mancino. E non difendeva».
L’ha chiamata Diego in segno di ammirazione e rispetto verso Maradona. È stato più pesante portare quel nome o il cognome?
«Più pesante essere il figlio di Hugo Perotti. Nel calcio argentino se sei “il figlio di” è dura. Io sono arrivato nell’ex club di mio padre, il Boca, a 12-13 anni. Non giocavo tanto e sentivo la gente dire: quello resta lì solo perché è il figlio di Hugo. Per questo non mi piace che mi chiamino El Monita, La Scimmietta. Non per il paragone con l’animale, ma per quello con mio padre, El Mono, La Scimmia».
E suo padre cosa le diceva?
«Mi ricordava che ero entrato nel Boca per le mie capacità, non dietro a una sua raccomandazione. E mi chiedeva se volevo continuare o andar via. La mia famiglia mi ha sempre lasciato libero di decidere. Per 8 anni ho giocato anche a basket, ma il calcio mi piaceva di più. In casa stavo sempre con un pallone tra i piedi. Ne ho spaccate di lampade».
Invece, i suoi allenatori nelle giovanili del Boca come la trattavano?
«Nei 2 anni lì ho giocato poco o niente senza che mi venisse data una spiegazione. Sentivo dire in giro che non avevo garra, cattiveria. Che ero piccolo e magro. Può darsi, ma a me, direttamente, nessuno ha mai rimproverato niente. E questo non è giusto nei confronti di un ragazzino qual ero. Oggi posso accettare in silenzio una panchina, allora avevo soltanto 12 anni: avevo bisogno di sentirmi dire perché non giocavo. Non l’hanno fatto. E per questo dico che non sono stati dei bravi educatori».E poi?
«Poi dopo 2 anni lasciai il Boca e provai col San Lorenzo, il Velez... Niente. Allora decisi di lasciar perdere e dedicarmi alla scuola. Poi a 16 anni un compagno mi portò al Deportivo Moron, un club vicino a casa. Feci una stagione nelle giovanili, quella dopo passai in prima squadra. E quella dopo ancora mi prese il Siviglia».E durante il periodo dei continui in fortuni ha mai pensato di mollare?
«Una volta, proprio l’anno scorso. Ero tornato al Boca in prestito dal Siviglia, convinto che l’aria di casa mi avrebbe restituito tranquillità. Niente: continuavo a farmi male. L’ultima volta al polpaccio, subito prima del ritorno in campo. Alla sera chiamai mia madre e le dissi: “Basta, non ce la faccio più”. Avevo fatto mesi di terapie, rieducazione in piscina, ghiaccio. Sentivo la testa scoppiare».E sua madre?
«Rispose: “Se vuoi lasciare, fallo”. Era la prima volta che uno della mia famiglia si esprimeva così. Forse loro stavano peggio di me: sapevano quanto soffrissi e non potevano aiutarmi. Ma la verità è che io non volevo lasciare il calcio, volevo solo star bene. Mi avevano operato alla schiena perché convinti che lì fosse l’origine dei miei guai muscolari, tutti i test cui mi ero sottoposto al Siviglia avevano dato esito negativo. Clinicamente ero sano, ma continuavo a farmi male. C’era da impazzire. Poi in estate il mio procuratore, Alvaro Torres, mi propose il Genoa. Mi disse che qui si erano rilanciati tanti sudamericani: Thiago Motta, Palacio... Ho pensato che in un ambiente nuovo avrei azzerato tutto. Così è stato. Prima la testa, poi il resto: è come se il mio corpo si fosse riadattato al lavoro».
Lei è stato acquistato dal Genoa per 300 mila euro: una cifra risibile per un giocatore della sua classe. Quanto pensa di valere oggi?
«So solo che 3 anni fa, pur di avermi, la Juve era disposta a pagare 14 milioni al Siviglia. È chiaro che, non giocando, il mio prezzo sia calato. Complimenti al Genoa per l’affare che ha fatto» (ride).
Lei ha origini italiane, ma di dove?
«Non lo so. Una mia bisnonna sposò un brasiliano e da quel momento si sono perse le tracce precedenti della famiglia. Tanto che quando mi trasferii in Spagna non potei fare subito il passaporto comunitario. Ho cambiato status solo 3 anni fa».
Suo padre segnò 2 gol in finale regalando al Boca la Copa Libertadores. Lei in quale competizione sogna di realizzare un gol decisivo?
«In campionato, per portare il Genoa in Europa League».
Cosa ha imparato dal nostro calcio?
«La tattica. Io non ho mai avuto un grande senso della posizione».
Ha una squadra dei suoi sogni?
«Mi piacerebbe tornare un giorno al Boca per dimostrare che non sono il giocatore che hanno visto. In Europa ammiro il Chelsea».
Perotti, Gasperini la rimprovera per i pochi sorrisi che dispensa.
«È il secondo o terzo mister che mi dice questo. Per la verità ho sempre sorriso poco, anche quando stavo bene. Ma con i compagni sono diverso, rido e scherzo. È con gli allenatori, che cambio faccia».