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 2015  maggio 03 Domenica calendario

DALLA NEBBIA DI BELGRADO, B. UCCISE CALCIO E SPORT

Tutto poteva finire prima di cominciare. Il 9 novembre 1988 si giocava a Belgrado la partita di ritorno del primo turno di Coppa dei Campioni (allora si chiamava ancora così) fra Stella Rossa e Milan. La squadra rossonera aveva vinto il suo primo campionato gestione Berlusconi, ma per avviare un ciclo veramente significativo aveva assoluto bisogno di vincere la Coppa o quantomeno arrivare in finale. Per questo la società aveva allestito una squadra stellare con i tre olandesi Gullit, Van Basten, Rijkaard. Per la verità in questa operazione era stata un tantino fortunata. Berlusconi, che si era innamorato di Gullit, lo aveva voluto a tutti i costi pagandolo dieci miliardi, però aveva dovuto prendere anche Van Basten per un miliardo e mezzo, l’Ajax glielo aveva praticamente tirato dietro. Ma l’autentico campione, come il tempo dimostrerà, non era “treccina d’oro” ma proprio Van Basten, pur se il nuovo allenatore del Milan, Arrigo Sacchi, non lo vedeva di buon occhio perché poco inquadrabile nei suoi ferrei schemi.
LA FOSCHIA CHE CAMBIÒ LA STORIA SUA, DEL MILAN E DELL’ITALIA
Da quella Coppa dei Campioni, però, il Milan stava per esser sbattuto fuori. Nella partita di andata, a San Siro, lo squadrone rossonero aveva infatti sottovalutato gli slavi, non potendo sapere che nella Stella Rossa c’erano due giovanissimi, poco più che ventenni, il capitano Dragan Stojkovic e Dejan Savicevic, che erano destinati a diventare degli astri del calcio mondiale. Così aveva impattato a fatica 1-1 (gol di Stojkovic, replica, due minuti dopo, di Virdis). E ora a Belgrado, al 57°, era sotto di un gol, segnato da Savicevic al 50°, e con un uomo in meno perché quattro minuti dopo era stato espulso Virdis. Partita chiusa, Milan fuori dalla Coppa. Ma, improvvisamente, sul campo calò un nebbione fittissimo e l’arbitro dovette prima sospendere, poi annullare la partita. Che fu rigiocata il giorno dopo. Gli uomini della Stella Rossa, ovviamente, erano psicologicamente stanchi, i milanisti, al contrario, euforici per lo scampato pericolo. Nonostante questo gli slavi, fortissimi (avrebbero formato l’ossatura di una grande e sfortunata Jugoslavia, penalizzata dalla guerra nei Balcani e dalle sanzioni), riuscirono a pareggiare (gol di Van Basten, replica di Stojkovic). Ma ai rigori vennero battuti. La nebbia a Belgrado c’è una volta ogni dieci anni: se quel giorno non fosse calata, eccezionalmente, su un campo di calcio, probabilmente non ci sarebbe mai stato il trionfale ciclo del Milan e diversa sarebbe stata la storia recente non solo del calcio italiano, ma anche una parte della storia del nostro Paese.
LI COMPRA TUTTI LUI (PER METTERLI IN PANCHINA)
Berlusconi infatti ha strumentalizzato fin dall’inizio una passione collettiva, come il calcio, e il Milan, in funzione delle proprie fortune aziendali, economiche e, in seguito, politiche. Dopo i primi successi Berlusconi disse: “Il Milan vince perché adotta la filosofia della Fininvest”. Era un cambiamento di prospettiva radicale. Gli Agnelli ci avevano sempre tenuto a marcare le distanze fra Juventus e Fiat, per questioni di opportunità sociale e, credo, di buon gusto. Berlusconi imboccò la strada opposta. La vittoria del Milan doveva servire come ricaduta d’immagine sulla sua azienda, oltre che su di lui personalmente. Per anni, gli anni dei grandi successi, il Milan non è stato più una squadra di calcio di Milano, ma il settore pubblicitario trainante della Fininvest. Se lo cercavate sulla guida del telefono trovavate: vedi voce Fininvest. Naturalmente in quest’ottica vincere diventa una necessità assoluta, perché di mezzo non ci sono più semplicemente le sorti di una squadra, ma quelle di un’azienda e, soprattutto, del suo padrone. Tanto più se questi vuol dare di sé l’immagine del vincente e dell’onnipotente. Vincere dunque a tutti i costi e con tutti i mezzi, violando ogni codice di sportività, usando il denaro a piene mani e potendolo fare, in quanto non si tratta di rispettare i bilanci di una società di calcio, ma di un investimento pubblicitario molto remunerativo.
Berlusconi acquistò Savicevic, che allora era uno dei primi tre giocatori del mondo, pur sapendo benissimo di non poterlo utilizzare perché aveva già tre olandesi, solo per sottrarlo alle altre squadre. Lo tenne per quasi due anni a palleggiare nel suo parco di Arcore, semi-rovinandolo. Prese, per una barca di quattrini, il nazionale De Napoli che in due stagioni giocò in tutto sette minuti. Idem, o quasi, per il nazionale Eranio. Arrivò ad avere nove stranieri (Van Basten, Rijkaard, Gullit, Savicevic, Boban, Desailly, Papin, Laudrup, Raducioiu, Elber) quando ancora se ne potevano schierare solo tre. Nessun presidente di una squadra di calcio, per quanto strapotente, si era mai comportato con tanta palese arroganza. Gli Agnelli avevano certo fatto valere il loro peso, per così dire, apolitico, ma Giampiero Boniperti, il presidente, si era sempre attenuto a una gestione economica rigorosa, per non dire sparagnina. Il caso forse più clamoroso, anche per il suo valore emblematico, fu quello di Gigi Lentini. Lentini era l’astro nascente del Torino, il gioiello del suo grande vivaio. Berlusconi fece al giocatore e alla società granata un’offerta enorme: 22 miliardi. Lo voleva perché era il miglior giovane talento in circolazione e per togliere definitivamente di mezzo il Torino, che quell’anno era arrivato terzo. Per quattro mesi il Cavaliere aveva fatto una corte spietata a Lentini aumentando progressivamente la posta. Ma il giocatore aveva sempre detto di no. Una scelta singolare e coraggiosa che Lentini aveva motivato dicendo pubblicamente che il denaro non è tutto e che per lui contavano anche altri valori: la qualità della vita, migliore in una squadra che non aveva le ambizioni parossistiche del Milan, l’amicizia con i compagni, l’attaccamento a una maglia gloriosa e sfortunata e a una società in cui era entrato bambino. E questo il Cavaliere non lo poteva proprio sopportare. Portò l’offerta alla sbalorditiva cifra complessiva di 64 miliardi e il giocatore, figlio di un operaio delle Banchigliette, cedette.
Berlusconi non aveva fatto un acquisto, ma uno stupro. Non aveva comprato le gambe di Lentini, che non valevano 64 miliardi, né 30, né 20, ma la sua anima, dimostrando al ragazzo che i suoi ingenui sentimenti nulla valevano e potevano contro il denaro. La prepotenza, come ogni violenza, non portò fortuna né a Lentini, che si rovinò quasi subito con uno stupido incidente d’auto che denotava che il ragazzo, nel nuovo ambiente, non era tranquillo, né al Milan dove non giocò quasi mai. Fu uno dei tipici atti “a distruggere” del Cavaliere, come quello che perpetrò con l’Indipendente. Era un giornale giovane, in ascesa, libero e felice. Sua Emittenza ne comprò il direttore, Vittorio Feltri, e metà della redazione.
Berlusconi cercò di usare la stessa tattica del “compro tutto” anche nell’hockey, in cui era entrato alla fine degli anni Ottanta con una squadra cui diede il nome di Milan. Alla fine del campionato ’91-’92 comprò infatti i sei migliori giocatori, praticamente tutti, della migliore squadra in circolazione, la rivale cittadina dell’Hockey Milano. Per capirci: è come se uno avesse comprato tutti i giocatori dell’Inter e li avesse chiamati Milan. Ma poiché l’hockey non è il calcio, per un’intera stagione si assistette allo straordinario spettacolo di una città intera, Milano, che faceva il tifo contro la propria squadra. Berlusconi dovette mollare la presa, lasciando peraltro dietro di sé un settore devastato dalla sua intrusione. (…)
Naturalmente una pressione psicologica come quella che esercita Berlusconi ha inevitabili ripercussioni sul comportamento e l’atteggiamento della squadra e dei giocatori rossoneri che dimostrano la stessa incapacità patologica ad accettare la sconfitta che è propria, in tutti i campi, del loro padrone. Nella primavera del 1992 si giocava a Bergamo Atalanta-Milan di Coppa Italia. Massaro cadde in area atalantina e restò a terra. Stromberg, correttamente, calciò la palla in fallo laterale per permettere al milanista di essere assistito. Essendo svedese la buttò fuori dove si trovava, all’altezza dell’area di rigore, mai pensando che gli avversari non la restituissero. Invece un giocatore del Milan, mi pare l’ottimo Maldini, la passò a Massaro, Borgonovo cadde e fu rigore. Tra lo stupore degli spettatori, Baresi trasformò.
Ma Berlusconi, col suo atteggiamento, si attira gli odi più profondi.
MARSIGLIA LO SAI, MARSIGLIA È MARSIGLIA
A Bergamo il gol del Verona fu accolto con un boato di gioia nonostante volesse dire che lo scudetto andava al Napoli che – si era già in epoca leghista – non poteva certo essere molto simpatico da quelle parti. Nella tranquilla Ascoli Piceno gli tirarono le monetine: è un caso unico nella storia del calcio italiano. Ma l’episodio più significativo avvenne a Marsiglia, il 20 marzo 1991. Si giocava una semifinale di Coppa dei Campioni, che il Milan aveva vinto per due anni di fila, e a cinque minuti dalla fine l’Olimpique stava vincendo 1 a 0 con un gol di Waddle, il che voleva dire per la squadra rossonera l’uscita dalla competizione. La società, sperando di ripetere il colpo di Belgrado di quattro anni prima, prese a pretesto il black out di uno dei quattro riflettori dello stadio per cercare di invalidare la partita. Si videro scene penose: celebrati campioni come Baresi e Gullit che, incitati da Galliani, cioè da Berlusconi, indicavano all’arbitro, con ampi e sconsolati gesti, il riflettore spento scuotendo la testa, mentre sul campo si potevano vedere persino le monetine che vi stavano buttando gli inferociti tifosi del Marsiglia. Ma Baresi e Gullit continuavano a vagare per il campo a tentoni ciechi come Edipo dopo l’incesto. L’arbitro fece cenno che la smettessero con quella manfrina, allora la società rossonera ritirò la squadra esponendosi alla più squallida figura che si sia mai vista non solo su un campo europeo ma di campionato interregionale. Si può aver vinto anche cento scudetti, ma l’episodio di Marsiglia è di una vergogna tale, per la mentalità antisportiva e sleale che denuncia, da cancellarli tutti. Non è naturalmente, che i giocatori del Milan siano in sé più sleali degli altri. È che il peso che grava su di loro non è semplicemente quello di una partita di calcio o della vittoria in una competizione, e nemmeno quello dei consueti interessi economici che vi gravitano attorno, è il peso degli interessi ben più colossali della Fininvest, ora Mediaset, e della necessità di corrispondere all’immagine vincente che il loro padrone ha e dà di sé. Il bello è che Berlusconi, da me intervistato ad Arcore nel giugno del 1989, dopo il trionfo nella finale di Coppa dei Campioni sullo Steaua (4-0), mi aveva detto: “Non è un’altra, è la vittoria di un sistema di valori in cui io personalmente credo e in cui credono anche le persone che sono felici di lavorare con me”. E fra questi valori aveva messo “la lealtà dei comportamenti” (Europeo, giugno 1989).
METODO FININVEST, LA REGOLA DEL CLAN
Una delle parole più usate da Berlusconi è “tradimento” (traditore fu Bossi, traditore fu Scalfaro, traditore fu Dini, traditore è stato Freccero perché, pur avendo lavorato nel gruppo Fininvest, si è permesso di mandare in onda, senza censurarla, la trasmissione di Luttazzi). È il concetto del clan: se sei ligio ne fai parte, se non lo sei diventi un traditore. E per appartenere al clan bisogna adeguarsi anche nelle passioni più personali e private. Fra le quali, in primo piano, c’è il tifo per il Milan. Nell’entourage di Berlusconi anche se ci si occupa di tutt’altra cosa che il calcio non parteggiare per il Milan è rischioso. Dopo quell’intervista ad Arcore il Cavaliere mi offrì, gentilmente, di farmi riportare a casa con una sua macchina. Sulla strada cominciai a chiacchierare col giovane autista, un ragazzo piuttosto simpatico. Incoraggiato, gli chiesi a che squadra tenesse. “Guardi”, mi rispose, “io tengo all’Inter, ma faccio finta di tenere al Milan. Tutta la servitù si comporta così”.
Quando, giovane convittore, Berlusconi giocava sul campetto dei salesiani di via Copernico a Milano, da centravanti, inguardabile (ho avuto il privilegio di vederlo perché ci andavo a giocare anch’io), era bollato come “un Venezia”, uno che non passa mai la palla. È un bambino goloso, narcisone e bulimico che, in qualsiasi settore, vuole appropriarsi in esclusiva dei giochi che sono di tutti. È un “faso tuto mi”. Non contento di essere già tutto, si impancò commissario tecnico della Nazionale dando del “dilettante” a Dino Zoff che, secondo lui, non aveva fatto marcare bene Zidane e ci aveva fatto perdere gli Europei.
IL SUPERCAMPIONATO EUROPEO DIVENTATO “CHAMPIONS”
Ma spadroneggiare a casa sua, nel Milan, non gli bastava. Era appena approdato nel mondo del calcio che mitragliò una serie di proposte “innovative” in cui frullava il suo elementare americanismo con i propri interessi di imprenditore televisivo: (…) Il suo pallino era soprattutto il Supercampionato europeo riservato ai grandi club (…). I “parrucconi dell’Uefa” gli risero in faccia. (…)
Alla fine però il trend berlusconiano ha prevalso su tutta la linea. Il campionato europeo non si è ancora fatto ufficialmente, ma lo si è introdotto surrettiziamente con la vecchia e cara Coppa dei Campioni trasformata in Champions League aperta alle prime quattro squadre dei campionati più importanti e organizzata in gironi.
Sua Emittenza lo aveva detto in un’intervista al suo Giornale nell’estate del 1988: “I grandi club come il Milan e il Real Madrid non possono correre il rischio di essere eliminati al primo turno. È un casinò, una roulette, non una competizione internazionale”. Peccato che il fascino della Coppa dei Campioni stesse proprio nell’eliminazione diretta e nel brivido che anche dei ragazzotti finlandesi, eroi per caso e per un giorno, potessero sbattere fuori squadre titolate. Ma naturalmente i gironi vogliono dire più partite (anche se molte, specie le ultime, sono spesso insignificanti), più riprese televisive, più diritti, più sponsor, eccetera eccetera. Eppoi ci sono le partite spalmate su tutta la settimana di giorno e di notte, sempre pro tv, con la fine della sacralità della domenica e della regolarità delle competizioni, match criptati per i benestanti, tourbillon dei giocatori, non solo da una stagione all’altra ma durante lo stesso campionato, sempre meno tifosi allo stadio (30 per cento in meno negli ultimi dieci anni) e calcio sempre più ridotto a spettacolino televisivo da assumersi solipsisticamente come una qualsiasi Domenica In. Fine insomma della grande festa nazionalpopolare che aveva fin qui avuto la caratteristica, di inestimabile valore sociale, di attraversare tutti i ceti e di mischiarli, per un giorno, allo stadio. (…) Silvio Berlusconi è stato il più grande picconatore del castello fatato del calcio: lo ha ridotto a una pura partita economica. E quando gli appassionati si accorgeranno, se già non l’hanno fatto, che non vanno allo stadio a tifare Milan, Juve, Parma e Lazio, ma Fininvest, Fiat, Parmalat e la Cragnotti spa sarà finita. Berlusconi è un costruttore. E come tutti i veri costruttori è un distruttore. È il prototipo assoluto dell’ultima fase di una modernità immemore, si realizza nel puro fare. Quindi distrugge per costruire. Il guaio è che tutto ciò che ha costruito è peggiore di quello che ha distrutto. Così è stato nell’edilizia, nella televisione, nel calcio.
FINE DELLA POESIA ARRIVA LA POLITICA
(…) Perché a queste commistioni mortali si aggiungesse l’ultima definitiva, quella con la politica, bisognerà aspettare ancora Silvio Berlusconi. La linea era già tracciata dall’inizio con la simbologia della “discesa in campo” di “Forza Italia”, degli “Azzurri”. Ma fu in una demenziale trasmissione di Milano Italia, subito dopo il difficile ma trionfale passaggio del governo Berlusconi al Senato e la travolgente vittoria del Milan ad Atene nella finale di Coppa, che in mezzo a un pubblico da stadio, che urlava, fischiava e zittiva i pochi dissidenti, che si consumò la definitiva identificazione fra presidente del Milan e presidente del Consiglio, fra la squadra rossonera e quella di governo, e, insomma, fra Italia e Milan. Berlusconi lo disse: “Voglio fare l’Italia come il Milan”. E poche ore prima, nel discorso di investitura al Senato, aveva salutato “i ragazzi del Milan che scende in campo per difendere i suoi colori, quelli di Milano, ma anche quelli dell’Italia”. E questo melange ci ha seguito fino a oggi. (…) Peraltro il vizietto volgare di mischiare calcio e politica, Berlusconi lo aveva anche quando era solo un imprenditore. Nel maggio del 1989, dopo il successo a Barcellona sullo Steaua di Bucarest in uno stadio dove a fronte di 70 mila milanisti c’erano 200 sfigati rumeni, Berlusconi disse che era “una vittoria dei valori dell’Occidente sul socialismo reale”. Il calcio, come ogni gioco, come il prato e la terra battuta dell’ippodromo e il tavolo verde del casinò e del poker, è un “cerchio magico” e un tempo sospeso in cui uno entra per lasciarsi alle spalle e dimenticare, per qualche ora, gli affanni della vita quotidiana. Se deve ritrovarvi la politica e l’economia, la razionalizzazione, Mediaset, la Fiat, la Parmalat, la Borsa, Berlusconi, Fini e Rutelli, il comunismo, Marx e von Mises, prima o poi ne farà a meno. (…)
Massimo Fini, il Fatto Quotidiano 3/5/2015