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 2015  maggio 03 Domenica calendario

SU UN TRAM SENZA META CHE SI CHIAMA SARAJEVO

Nelle immagini al rallentatore l’uomo in pantaloni scuri e camicia bianca corre. Davanti a lui una barriera di tram fermi, deragliati, scorticati. Sono il suo riparo. La scena è al rallentatore, ti fa percepire la sua angoscia: sa che da qualche parte, alla finestra di un edificio, un cecchino potrebbe tenerlo sotto tiro. I tram sono la sua speranza: corre a zig zag prima di raggiungerli e poi dritto quando pensa possano proteggerlo. Il montaggio stacca su un’altra scena prima che si possa sapere se l’uomo è arrivato in salvo, ma ti lascia confidare che sì: è andata. Da qualche parte lui è vivo e intanto i tram sono ripartiti.
Mi trovo nella sala buia di una galleria d’arte, al terzo piano di un edificio nel centro di Sarajevo. Intorno ho centinaia di fotografie, pareti intere occupate dai visi delle vittime del massacro di Srebrenica, dai loro reperti. Sullo schermo passano senza sosta due brevi documentari, uno su quella strage, l’altro, il più famoso, sull’assedio della città: Miss Sarajevo, di Bill Carter. È lì che vedo l’uomo in corsa e i tram. Quando esco, non potendo trovare l’uomo, vado a cercare i tram: per assicurarmi che davvero sia finita, che ora marcino regolarmente.
È una delle tre cose che faccio spesso, nelle città che non conosco. La prima è andare al cinema, un film qualunque, fosse anche in una lingua ignota e senza sottotitoli. La seconda è assistere a una santa messa, non perché sia credente, ma perché voleva farlo Pier Vittorio Tondelli, per scriverci un libro che non ha mai finito: lo proseguo in silenzio, senza aggiungere una riga. La terza è il tram. Lo prendo a un capolinea e ci torno, senza scendere, ascoltando e guardando. L’unico problema l’ho avuto a Trondheim, quando il 4 si è fermato definitivamente una domenica al tramonto in una campagna gelata, tra capannoni vuoti. Prova a fare l’autostop nel nulla.
A Sarajevo scelgo sulla cartina una circolare contrassegnata dal numero 1. Compro il biglietto all’edicola, aspetto sotto la pensilina, a pochi metri dalla fontana all’inizio della Bascarsija, il mercato diventato uno spaccio di souvenir e cibi, entrambi pessimi.
Il tram arriva e ci salgo sopra. È lungo e semivuoto. I sedili sono rossi e sfregiati, i sostegni rari, i vetri opachi. Va veloce, sembra sospinto da perdurante necessità. Fuori, scorre la città. Mi è bastato poco per innamorarmene. È successo prima ancora che la vedessi. Come nelle persone, nei luoghi amo le ferite, i trascorsi, il silenzio che li avvolge, i traumi rimossi, la futile cura del tempo e la benedizione della consapevolezza. Beirut, Rotterdam, New Orleans. Sarajevo. Scivolano via la sinagoga, la chiesa, la moschea. Fermata. Gli edifici scuri che nascondono le luci e il calore di un’ostinata allegria. Fermata. L’ambasciata americana dove hanno provato a rimettere in scena il dramma. Fermata. La torre Avaz, con i suoi centosettanta metri d’altezza, che contiene la redazione di un giornale costretta a pubblicare spesso la notizia: «Suicidio dalla cima della torre Avaz».
Il tram è il guscio. Allora come oggi protegge da tutto quel che accade fuori, dalla minacce provenienti dai palazzi, dagli orrori sulla strada, dall’indifferenza di qualunque divinità si stia pregando.
Poi succede una cosa: mentre la circolare si riannoda sul proprio percorso nella vettura ormai deserta sale il controllore. È un uomo sui cinquant’anni, alto e svelto. Indossa pantaloni scuri e camicia bianca. Passa in rassegna i pochi passeggeri, ciascuno dei quali esibisce il titolo di viaggio. Eseguo il loro stesso gesto e ottengo una risposta incomprensibile, prima di essere superato. Mi volto a guardarlo: non è certo l’uomo che correva, è la sua salvezza.
Le guerre non finiscono quando si riaccendono le luci nei bar, si stappano le bottiglie e parte la musica. Quelle cose non cessano mai, nei tempi difficili accadono dietro le serrande, negli scantinati, con una forma di allegria più pura perché disperata e funambolica. Quando i sopravvissuti ti raccontano le notti della paura a un certo punto rivelano senza pudore di non essersi sentiti mai così vivi, perché all’alba avrebbero potuto essere morti.
Le guerre non finiscono con le riconciliazioni, i perdoni, i mea culpa davanti alla storia, al popolo o al dio per destinazione, quelle si chiamano tregue, anche se a volte durano decenni.
Il segnale a cui puoi credere è il controllore. Lui porta le regole, le sanzioni per chi non le rispetta, il diritto, l’eguaglianza. In guerra vale tutto perché niente vale. Quando è finita esiste una riga: comportamenti ammissibili e riprovevoli, premi e pene. Prima era inferno o paradiso, adesso è soltanto vita sulla Terra, l’unica possibile, nell’unica forma plausibile. La tua ferita non si rimargina quando smette di sanguinare, ma quando castigano chi te l’ha inferta. Anche la pace pretende che si sia spietati. Il criminale di guerra Mladic è stato arrestato nel 2011 e si trova sotto processo all’Aja. È là il capolinea della linea 1.
Gabriele Romagnoli, la Repubblica 3/5/2015