Gianfranco Plenizio, il venerdì 1/5/2015, 1 maggio 2015
QUANDO VERDI COMPONEVA CON LA MANO SINISTRA
«Il coro di Demoni che tentano di sedurre Giovanna (d’Arco) – un valzerino campagnolo con civettuole acciaccature – è pari alla goffaggine delle parole di Temistocle Solera: Tu sei bella, tu sei bella /pazzerella, che fai tu?/ Se d’amore perdi il fiore, / presto muore non vien più. E avanti di questo passo, raggiungendo il culmine della gagliofferia nel distico: Quando agli anta l’ora canta, /pur ti vanta di virtù». Questa curiosa e amena citazione viene da un libro pubblicato adesso dall’editore Manni (San Cesario di Lecce, 2015), Massimo Mila: Le opere «brutte» di Giuseppe Verdi, a cura di Tito M. Tonietti. L’evento è decisamente meritevole. Mila è ancora noto agli studenti per la sua Breve storia della musica, ma oltre che insigne storico e critico musicale è stato uno dei più significativi intellettuali del Novecento, cresciuto in quel consesso torinese che comprendeva Bobbio, Pavese, Calvino etc. Lo studio di Verdi è stata una costante della sua ricerca musicologica. Ricerca che ha prodotto diversi lavori fondamentali dalla tesi di laurea in poi.
L’opera che viene ora pubblicata risale al 1964 ed è la raccolta delle dispense di un corso tenuto all’Università di Torino. Nasceva in un momento particolare e con motivazioni pressanti. Verdi era sempre stato visto con ostile sufficienza dall’intelligentia italiana. I due anniversari verdiani, della nascita e della morte, che si erano susseguiti a pochi anni di distanza avevano provocato un vertiginoso cambio di rotta. «E quasi a riparazione del disprezzo in cui prima lo tenevano, ora vorrebbero persuaderci che l’arte sua è tanto più grande quanto più incolta e primitiva. Questo è lo snobismo di prima col segno cambiato, e ha la stessa origine: l’incomprensione dell’arte di Verdi».
Mila si accinge a mettere le cose a posto. Le opere prese in considerazione sono sei e vengono dopo i successi di Nabucco, Lombardi, Ernani. Coprono il periodo che va dal 1845 al ’49, interrotto nel ‘47 dal Macbeth, che si erge come un fiorente colle in una campagna brulla. Le cosiddette «brutte» sono: Giovanna d’Arco, Alzira, Attila, I masnadieri, Il Corsaro e La battaglia di Legnano. Tutti i grandi esponenti dell’arte (Michelangelo, Goethe, Mozart) hanno quelle che si suole definire «opere minori». Produzioni nelle quali sembrano affilare le armi per raggiungere i capolavori della maturità. È in particolare il caso di Verdi.
L’analisi di Mila è capillare e lucidissima. (E tanto più ammirevole se si pensa che allora non era possibile disporre della partitura – il noleggio costava cifre proibitive – e ci si doveva accontentare dello spartito per canto e piano).
L’analisi parte proprio dal perché di questo «affossamento». Il successo delle prime creazioni aveva fornito a Verdi numerose richieste di opere nuove dai più importanti teatri italiani e stranieri e la sua agenda era fitta di impegni: finita un’opera buttarsi sulla seconda, già pensando alla terza da fare subito dopo. Uno stress che ne minò anche la salute. Di qui il ricorso alle forme tradizionali: romanze seguite da brani virtuosistici (le caballette) per soddisfare le «prestazioni» dei cantanti e i gusti del pubblico (tornare al consueto è sempre una comodità perché non obbliga a pensare). E i testi – vedi sopra – anche se dovuti ai più illustri librettisti dell’epoca come Salvatore Cammarano e Andrea Maffei. Come sviluppare drammaturgicamente un’opera che infila tre arie di sortita una dietro l’altra? Certo, servono a presentare i personaggi, ma è quasi finito l’atto e non è successo niente – e Verdi dava il meglio di sé nelle «scene d’azione». Oppure certe chicche. Ne I Masnadieri (Maffei) Amalia e Carlo si sono amati alla follia. Si riincontrano dopo una lunga separazione. Lei chiede: Chi sei tu? Carlo: Non ravvisi nel mio volto abbronzato... Amalia, guardando bene e anticipando di un secolo Totò: Ei non m’è nuovo!
Mila non si perita di sottolineare le storture e le goffaggini di queste opere. Trascelgo alcune frasi illuminanti: «gli sbracati e convenzionali gorgheggi»; «la melodia si snoda sciocca e fatua»; «una sciagurata stretta cabalettistica»; «una scena letteralmente disgustosa». Ma rileva anche i momenti felici che anticipano il Verdi maturo: «In concertati come questo pare vedere la fantasia verdiana prendere fuoco a poco a poco finché l’incendio divampa su tutta la partitura». Cosicché il succo delle sue valutazioni si potrebbe riassumere così: «La questione della validità di queste opere minori finisce per porsi quasi in termini di contabilità, data la presenza e la giustapposizione di parti riuscite e di parti malamente tirate via».
Malgrado l’accuratezza delle analisi tecniche, la scrittura di Mila è limpida e non mancano momenti di sottile ironia: «La scatenata violenza del canto di Odabella riduce Attila a inserire soltanto dei brevi intermezzi melodici di piglio quasi galante: “Bella è quell’ira, o vergine, nel scintillante sguardo”, commenta il re degli unni, con aria da intenditore, di fronte a quel satanasso in gonnella».
A distanza di cinquant’anni questo saggio conserva tutta la sua attualità, anche ora che alcune di queste opere sono entrate nel repertorio. Riccardo Muti ne ha riesumate diverse e Riccardo Chailly si appresta a inaugurare la stagione 2015 de La Scala con l’Alzira.
Ovviamente questi grandi direttori sanno dare il giusto rilievo alle parti felici e ammorbidire o alleggerire gli accompagnamenti stereotipati, le strumentazioni bandistiche, le volute melodiche puramente decorative. Peraltro non si può che concordare con l’autore quando afferma che «le opere giovanili sono una miniera, no, un cimitero di procedimenti abbandonati a poco a poco attraverso l’assidua autocritica del genio. Rendersene conto vuol dire pervenire alle ragioni della sua grandezza».
E questo libro merita di diventare un imprescindibile riferimento per gli amanti e i praticanti dell’aquila di Busseto.