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 2015  maggio 01 Venerdì calendario

DAL TESSILE AL PALLONE L’INARRESTABILE RINASCITA DI CARPI


CARPI (Modena). Che rovina, che disastro se il Carpi sale in A, si lamentava a gennaio Claudio Lotito, e mai profezia fu più azzeccata, protesta più giustificata; e infatti increduli sono ancora tutti, qui nella Bassa carpigiana, dove il tifo nel corso dei mesi si è gonfiato lento, prima quattro pensionati a bordo campo con le bici, poi un entusiasmo sempre poco gridato e però diffuso, che negli ultimi giorni si è condensato in un rovello febbrile, una domanda rimbalzata di bar in bar, di casa in casa, e infine piombata sulla scrivania del sindaco; come si farà, in una città di 70 mila abitanti, a gestire una squadra di serie A? Cosa ne facciamo di questo stadio piccolotto e imprigionato, fra strade e stradine, a cento metri dal centro, che è già tanto se ha avuto i permessi per ospitare le partite della B?
Il primo cittadino Alberto Bellelli, 38 anni, con la sua faccia da ragazzo ripete come un mantra che si stanno esplorando tutte le possibilità, dall’allargamento dello stadio al trasferimento coatto della squadra in altra città – forse Parma, forse Modena – scenario questo che ha messo in allarme l’ardente tifoseria del gruppo ultras Guidati dal Lambnisco: «Siamo la favola da raccontare ai bambini, Davide che ha sconfitto Golia, una soluzione in casa va trovata».
Avercene, comunque, di grattacapi così. La verità è che, dopo anni funesti, Carpi sembra benedetta da un’aura vincente; le sue tessiture sono tornate a produrre lavoro e a generare profitti, i marchi delle sue aziende sono famosi nel mondo e la promozione della squadra locale di calcio è il fiocco regalo sulla grande scatola piena di energia che è il distretto economico dell’abbigliamento. Se ne è accollo anche Nouvel Observateur, che qualche settimana fa alla città ha dedicato un lungo articolo, anche se l’averla definita un laboratorio del renzismo e del Jobs Act qui a tutti è sembrato, se non funambolico, poco realistico. «Il cambiamento è cominciato anni fa» spiega Florio Magnanini, che dirige il settimanale La Voce e anche il periodico Carpi Distretto Moda («il nostro piccolo Vogue» scherza), dove si trovano le novità del settore, con articoli in inglese e in russo. Come poi, in piena crisi globale, siano riusciti a non farsi travolgere dai carrarmati cinesi, lo si spiega con la formula della tre erre: rimboccarsi le maniche, riconvertirsi e resistere.
I carpigiani hanno resistito e ricominciato molte volte, per cui ricordano con rispetto ma senza rimpianti il tempo glorioso dei cappelli di paglia – e l’inventore del truciolo Nicolò Biondo, con il quale tutto ebbe inizio cinque secoli fa, è onorato con una lapide. Poi c’è stata la città-fabbrica. In ogni cucina, in ogni garage, ronzavano le macchine da maglieria e le famiglie tagliavano e cucivano senza sosta, le madri con le figlie, sempre conto terzi: a ben vedere, una specie di Cina anche questa, laboriosa e prospera e persino felice, finché non è arrivata la Cina quella vera, con il suo tessile senza pretese e a buon mercato, un’onda d’urto che ha spazzato via modelli, persone, fabbriche e aziendine, proprio mentre Carpi cominciava timidamente a produrre per sé e a lanciare i primi marchi propri.
Nel 1990, l’ultimo degli anni d’oro, il settore dava lavoro a 14 mila persone; sul campo, nel 2014 ne erano rimaste settemila. Le imprese erano 2258; se ne contano 879. Chi è sopravvissuto? Chi ha puntato sul marchio e ha messo il naso fuori, andando a cercare mercati all’estero e aprendo negozi e vetrine ovunque, dal Canada agli Emirati Arabi, e magari producendo proprio in Cina, in Pakistan o in Bangladesh. Chiuse le micro imprese, oggi volano i big globali: Blumarine, LiuJo, Champion, Twin Set, Gaudì... Nel 2014, il fatturato ha ricominciato a correre e le esportazioni sono esplose. Dietro c’è una generazione di imprenditori venuti dal niente, come Stefano Bonacini, 43 anni, ex operaio, poi rappresentante di prontomoda, che prima di mettersi in proprio girava con la macchina piena di capi da piazzare. Oggi guida il marchio Gaudì ed è l’orgoglioso amministratore delegato del Carpi Calcio.
Un altro è Maurizio Setti, 51 anni, già magazziniere e «fotografo deluso». Suo padre faceva l’elettricista, sua madre l’addetta al controllo qualità di una tessitura, «devo loro la cultura del lavoro». Guida il gruppo Antress (quello dei marchi Manila Grace e Sonia De Nisco) e pure lui è proprietario di una squadra di calcio, il Verona. «Il pallone per questi imprenditori è stata una scelta obbligata per ottenere visibilità» dicono a Carpi. «Per me è cominciato un po’ come fanno gli amici al bar, una passione. Oggi se gioco mi sbriciolo, ma una volta ero bravino» racconta l’ex centrocampista Setti. È convinto che il successo del distretto, in particolare di Carpi, sia scritto nel Dna degli abitanti: «Nel 2012, l’estate del terremoto, la gente dormiva in tenda ma si dava da fare». Lui stesso ne sa qualcosa: «La botta forte, quella del 29 giugno ci aveva messo fuori uso gli stabilimenti. Eravamo al picco dell’attività, stretti fra produzione e consegne. Per settimane, ogni mattina abbiamo trasportato in cortile i computer. Di giorno lavoravamo e la sera li rimettevamo al coperto pregando che non venisse giù tutto. Quanto alla produzione, non si è quasi fermata, l’abbiamo affidata ad aziende che non avevano subito danni». Confessa di lavorare 16-17 ore al giorno. Nello stabilimento di Setti, appena fuori città, Cinzia Bartoli, la caporeparto della tessitura, accarezza stoffe e macchinari come figli suoi, e ne parla con lo stesso entusiasmo. Ai suoi ordini ci sono anche alcuni operai pachistani. Racconta: «All’inizio erano diffidenti, poi vedono che anche se sei una donna lavori sempre, che sulle braccia ti è rimasta la mocia, il grasso delle macchine, e tutto passa». Quante ore? «Domanda non pervenuta» ride. La comunità straniera più numerosa è proprio quella pachistana; seguono i rumeni e, in terza posizione, i cinesi. Che sono meno di mille, niente rispetto a Prato. E confinati nella filiera, a fare confezioni. Pechino alla moda non si è mai interessata.
Non che tutto fili liscio. Le vite parallele di marchi e imprenditori hanno il loro rovescio di invidie e gelosie. Sarà per questo che inaugurano negozi ovunque nel mondo, ma qui non riescono ad accordarsi per aprire un outlet. E, comunque, per vedere in casa i frutti di tanta effervescenza ci vorrà tempo. Il fondo anticrisi della Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi aiuta sempre più italiani, non solo gli stranieri, a pagare conti e bollette.
La speranza è che i marchi portino a Chèrp posti di lavoro; il sindaco punta a dialogare con gli imprenditori, i progetti sono tanti, inclusi quelli per sostenere le start up e per aprire un archivio del tessile, con foto, vestiti e telai. Un terzo della macchina comunale però è ancora impegnata sul post terremoto. «Non per dire, ma abbiamo avuto anche noi i nostri disastri» si infervora Bellelli, indicando il Duomo imbracato. Comunque, rispetto ad altri paesi, a Carpi è andata di lusso. Pochi chilometri più in là, a Novi di Modena, c’è una strada dove l’onda del sisma ha sconquassato una casa sì e una no, con precisione chirurgica. Il paese sembra che si stia rialzando dopo i bombardamenti, il campanile è inavvicinabile, interi isolati sono stati ricostruiti e altri aspettano di essere rasi al suolo. Settanta famiglie vivono nei container. Ma Novi non si dispera: sono le ultime.
Claudia Arletti