Marcello Bussi e Matteo Radaelli, MilanoFinanza 1/5/2015, 1 maggio 2015
LA FED GONFIA L’EURO
Speriamo sia stata colpa del freddo. La brusca frenata del pil Usa, che nel primo trimestre è cresciuto solo dello 0,2%, ha dato un brutto scossone ai mercati. Ma se all’inizio della seduta di mercoledì 29 aprile Wall Street aveva subito il colpo, alla fine a rimetterci di più sono state le borse europee, con Piazza Affari in calo del 2,3% e Francoforte addirittura del 3,2%.
Mentre il Dow Jones ha chiuso con un calo minimo, dello 0,4%. Qualcuno ha cominciato a dire che finalmente una cattiva notizia sul fronte macro è stata accolta male dai mercati, mentre di solito, soprattutto da quando è cominciata l’era dei Qe, succede il contrario. Sono i sostenitori di un più o meno imminente scoppio della bolla gonfiata appunto dai Qe (prima quello della Fed, che però da qualche mese ha passato il testimone alla Bce), che allarga sempre di più la distanza tra le performance dei mercati azionari e quelle dell’economia reale. Ma l’andamento di Wall Street ha mandato in fumo le loro speranze. Il divario sembra quindi destinato ad ampliarsi ulteriormente. A fare tremare le borse europee è stata la constatazione che lo stop alla crescita dell’economia Usa è stato provocato anche, se non soprattutto, dal rafforzamento del dollaro, che ha avuto come conseguenza un crollo del 7,2% delle esportazioni Usa nel primo trimestre. Dato che ha fatto salire il biglietto verde perché i mercati sanno benissimo che Washington non se ne sta mai ad assistere inerte a un rafforzamento del dollaro capace di causare danni così grossi. La conseguenza è che a rafforzarsi è stato l’euro. E qui si capisce il motivo della caduta delle piazze di Eurolandia. Finora il Qe della Bce si è dimostrato inequivocabilmente efficace solo sul fronte valutario, provocando appunto la caduta dell’euro. Ma se questa comincia a infastidire troppo l’economia Usa, allora è molto probabile che la moneta unica inverta la rotta. La reazione dei mercati, con il ritorno dell’euro sopra quota 1,10 dollari, dice che in fondo nemmeno loro credono all’efficacia del bazooka di Mario Draghi e che l’indebolimento della moneta unica sia stato in misura consistente frutto dell’atteggiamento di benevola indifferenza da parte di Washington. Che ora sembrerebbe cambiare idea. C’è allora da sperare che abbia ragione la Federal Reserve ad attribuire a «fattori transitori», ovvero al freddo, la frenata del primo trimestre. Se infatti l’economia Usa si riprenderà in maniera baldanzosa, la Fed dovrebbe alzare i tassi d’interesse a settembre. Una vera benedizione per l’euro, che tornerebbe a indebolirsi in misura consistente, riavvicinandosi alla parità e spingendo così le esportazioni di Eurolandia. Sempre restando in un’ottica tradizionale, perché, come osserva Guido Salerno Aletta nell’articolo qui a fianco, sotto la presidenza di Janet Yellen la Fed è diventata più che mai attenta ai mutamenti strutturali dell’economia americana (gli stessi di Eurolandia perché sono il risultato del progresso tecnologico) e questo sta modificando i parametri su cui basare le proprie decisioni di politica monetaria. Seguendo questa logica il rialzo dei tassi Usa sarebbe comunque ben lontano, anche a fronte di una crescita del pil che un’Eurolandia intrappolata dalle politiche di austerità guarderebbe con invidia. Forse non è un caso che Citigroup consideri probabile un rinvio a dicembre dell’aumento del costo del denaro.
Restando alle interpretazioni dei dati macro secondo i parametri tradizionali (che la Yellen ha cambiato, ma la numero uno della Fed deve stare anche attenta a non disorientare troppo i mercati, che non sembrano molto consapevoli della rivoluzione in atto, comunque benvenuta perché potrebbe aprire le porte a una sorta di Qe eterno), gli ultimi dati economici e il comunicato del Fomc hanno ridotto praticamente a zero le possibilità di un rialzo dei tassi già nella prossima riunione di giugno. Lo scenario più probabile rimane comunque quello che, in caso di una ripresa dell’economia nei prossimi mesi, la Fed possa aumentare il costo del denaro nella riunione di settembre. Dai dati che saranno pubblicati nei primi 15 giorni di maggio si potrà capire se la frenata del primo trimestre è stata un fatto eccezionale o se invece gli Usa sono tornati sull’orlo della recessione. In particolare, sono due i dati su cui tutti avranno gli occhi puntati: la creazione di posti di lavoro nel mese di aprile, che dovrebbe essere ben sopra le 200 mila unità, con il tasso di disoccupazione in discesa dal 5,5% al 5,4% e le vendite al dettaglio, che dovrebbero registrare un buon rimbalzo, grazie agli effetti positivi del calo del prezzo del petrolio, che finora si è tradotto in un incremento del tasso di risparmio e non dei consumi. L’impatto negativo del calo degli investimenti nel settore petrolifero dovrebbe essere compensato dai maggiori investimenti in quello immobiliare, con il mercato che dovrebbe ulteriormente migliorare nei prossimi mesi sulla base delle indicazioni dell’indice di fiducia dei costruttori, ai massimi dal 2006. Resta il fatto, però, che l’aumento dei tassi rischia di rafforzare troppo il dollaro e la Fed terrà sicuramente conto di questo fattore. Queste sono le variabili in campo, con la constatazione che, nonostante il bazooka di Draghi, a menare la danza sui mercati è sempre Washington.
Marcello Bussi e Matteo Radaelli, MilanoFinanza 1/5/2015