Franco La Torre, il Fatto Quotidiano 1/5/2015, 1 maggio 2015
HO 58 ANNI E SONO PIÙ VECCHIO DI LUI. ORA POSSO RACCONTARE LA STORIA DI PIO LA TORRE, MIO PADRE
In occasione del 33esimo anniversario dell’omicidio di Pio La Torre, pubblichiamo un estratto del primo capitolo di “Sulle ginocchia. Pio La Torre, un storia” (Melampo) scritto dal figlio Franco.
Ho compiuto 55 anni il 25 giugno 2011. L’età che mio padre non ha raggiunto. Mio padre, nato il 24 dicembre 1927, è stato ucciso il 30 aprile 1982; ne aveva, da pochi mesi, compiuti 54.
I figli devono fare i conti con l’idea della morte dei loro genitori ed è naturale che chi li ha messi al mondo muoia prima di loro. Non sempre ci si arriva preparati. Eppure, che la vita di mio padre fosse in pericolo – da quando era tornato a Palermo, nell’autunno del 1981 – era evidente, a lui per primo. Questa evidenza non gli aveva impedito di respingere tutti gli affettuosi o autorevoli tentativi opposti alla sua decisione di tornare in Sicilia a combattere, in prima linea, la battaglia politica per il riscatto della sua terra. L’occasione fu il congresso regionale del Pci, nel quale era candidato alla segreteria. Mia madre non l’aveva presa affatto bene. Sapeva che non avrebbe potuto fargli cambiare idea. Si sarebbe divisa tra Roma e Palermo, per stare il più possibile accanto a lui.
Così avevo iniziato a scrivere, circa tre anni fa, era l’autunno del 2011, sotto la spinta dell’approssimarsi del trentesimo anniversario dell’omicidio di Rosario Di Salvo e di mio padre.
In genere, gli anniversari cosiddetti tondi stimolano i sentimenti e la voglia di ricordare. Per me si trattava di vincere le mie stesse resistenze, alimentate da un senso di riservatezza, che mi avevano impedito, per lungo tempo, di prendere carta e penna e raccontare come avevo vissuto l’omicidio, elaborato il lutto, vissuto l’assenza e cercato di raccogliere l’eredità di mio padre. Un’eredità pari alla sua storia, al suo impegno e a quanto questo impegno avesse prodotto in termini politici e, per quanto mi riguarda, si fosse riflesso nella mia educazione.
Ero attratto dall’idea di mettere alla prova la mia capacità di ricostruire una presenza, di misurarmi con l’immagine di mio padre e, cosa più importante, di rendere evidente il senso della sua esistenza, dal mio punto di vista. Obiettivi ambiziosi, che farebbero tremare le vene e i polsi, ma a me bastava molto meno per rendermi conto che passione ed entusiasmo non sarebbero stati sufficienti. Dovevo essere in grado di guardare, senza cadere nell’illusione degli specchi, e per riuscirci dovevo sapere dove guardare.
Pur conscio che ogni paragone con mio padre sarebbe stato, oltreché fuorviante, sicuramente fuori luogo, in trent’anni non ero riuscito a trovare la chiave di lettura che mi avrebbe consentito di scrivere di lui. Ogni volta che ho provato, mi rendevo conto di volerci, soltanto, provare ma non mi sentivo pronto e, dopo aver abbozzato un indice, annotato qualche spunto, cancellato un’idea che non mi convinceva più, insoddisfatto, mi bloccavo. Non credo fosse la paura di riaprire vecchie ferite, di rinnovare il dolore, visto che ogni volta ero felice di ricominciare, convinto che fosse la volta buona e che quella che volevo raccontare era una bella storia, anche se conclusasi tragicamente. Avvertivo la vertigine di cadere vittima di me stesso.
Preda di un’incontrollabile autostima, che potesse condurmi a raccontare una storia utile a me e basta. Immaginare tutto ciò, mi ha fatto fare un passo indietro, con un senso di sollievo. (…) Le persone a me care, in varie occasioni, mi avevano stimolato, ritenendo che avessi qualcosa da dire, di più e di diverso, secondo l’ottica del figlio, non sottoposta a rigide letture di tipo politico o storico. Anche se a politica e storia non si poteva sfuggire, visti il personaggio e l’argomento. Ma ogni volta si erano scontrate contro il muro che avevo eretto intorno a me, a salvaguardia dei miei privati sentimenti. Questo, d’altronde, era stato l’approccio condiviso in famiglia per evitare che, come era accaduto in casi analoghi, la vita privata di una vittima di mafia fosse gettata nel grande frullatore mediatico, diventasse oggetto di strumentalizzazioni, spettacolo utile a esercizi voyeuristici, e finisse per prevalere sull’intera storia delle persone, fatta di valori civili e di impegno democratico.
Mi rendevo conto che questa ritrosia non sempre fosse ben compresa e potesse essere interpretata come il venir meno al compito filiale di onorare il padre. Quindi, dovevo sforzarmi di spiegare che per me non era semplice misurarmi con un’impresa, che consideravo ardua e, forse, al di sopra delle mie possibilità. Mi domandavo: e se mio padre leggesse? Mio padre, spesso, mi faceva leggere gli articoli e i discorsi che scriveva, e mi sollecitava pareri sinceri, che gli fornivo orgoglioso, e che offrivano lo spunto per discutere. Lo stesso facevo io, quando capitava, e ricevevo da lui utili suggerimenti, anche critici, e mai giudizi definitivi o inviti a lasciar perdere. Non suggeriva di togliere questo o cancellare quello. Non mi proponeva la sua versione. Diceva che non lo convinceva il ragionamento, in tutto o in parte, o lo trovava debolmente argomentato, rispetto alle tesi che volevo sostenere o alle conclusioni cui ero giunto. (…) Tra le tante, una difficoltà che non sono riuscito a risolvere: scrivo mio padre, papà o Pio La Torre? Per cui, li troverete tutti.
Franco La Torre, il Fatto Quotidiano 1/5/2015