Masolino D’amico, La Stampa 1/5/2015, 1 maggio 2015
NON SPARATE SU OSCAR WILDE UN ESTETA FA QUEL CHE PUÒ
Dopo il debutto al Savoy di Londra le operette di Gilbert e Sullivan, capolavori dell’umorismo vittoriano, venivano esportate anche negli Stati Uniti. Benché concepiti per il pubblico di casa, i loro argomenti erano condivisibili, facessero giocosamente la satira del sistema giudiziario o della Marina di Sua Maestà. Parve tuttavia fare eccezione Patience, che metteva in burletta la recente mania per i valori supremi dell’arte, che il cosiddetto movimento estetico opponeva all’utilitarismo vigente.
Nell’Inghilterra dei primi anni 1880 la lotta tra l’esteta incompreso e la società che lo respinge era diventata quasi un luogo comune, e tra coloro che la portavano avanti c’erano giovani poeti usciti da Oxford che si facevano crescere i capelli, ostentavano di adorare la loro porcellana cinese e adottavano il girasole come simbolo del fiore che non guarda le brutture della terra. Nella loro operetta Gilbert e Sullivan canzonano tali svenevoli efebi, cui peraltro vanno gli affetti di alcune sensibilissime giovani donne che li preferiscono a gagliardi ufficiali in divisa. Di questo movimento quasi nulla era giunto a New York, e pertanto l’impresario di Patience pensò bene di farla precedere da una ben pubblicizzata serie di esibizioni in carne e ossa di un bersaglio della medesima. A tal uopo adocchiò un poeta irlandese di 26 anni che sgomitava per mettersi in luce proprio con atteggiamenti del tipo di quelli presi di mira nell’operetta; e gli offrì condizioni allettanti perché andasse in America sostanzialmente a farsi prendere in giro.
Il poeta, che si chiamava Oscar Wilde, stette al gioco. Si ordinò indumenti «estetici» – settecentesche brache al ginocchio, scarpe di seta e pantofoline – in quanto nelle sue conferenze avrebbe proposto di recuperare il bello in molti aspetti della vita quotidiana tra cui l’abbigliamento; e si dispose a recitare la parte. Gli americani abboccarono, anche se nelle numerose interviste i giornalisti si mostrarono indecisi se trattarlo come una celebrità o prenderlo in giro come un freak. Quasi tutti però si smontarono ben presto, perché il giovane era estremamente intelligente e spiritoso, pomposo quando parlava in pubblico, ma cordiale nei colloqui.
Una raccolta fin troppo generosa degli incontri di Oscar con la stampa americana è ora proposta in questo libro curato da Edoardo Rialti, Interviste americane, interessante più per l’epoca e per l’itinerario che per gli argomenti - spesso i cronisti erano culturalmente inadeguati (tipicamente, uno di loro confuse il Partenone col Pantheon), e ancora più spesso il campionario delle loro domande non variava. Il giro dell’esteta si rivelò un successo e durò un anno, coprendo il vasto paese; ma l’effetto a seguirlo così risulta assai ripetitivo. Tutti descrivono l’imponente fisico dello straniero, alto un metro e novanta; il suo abbigliamento stravagante, compreso il cappottone verde scuro bordato di lontra che sarebbe poi scomparso all’asta giudiziaria quando Wilde finì in carcere, appena tredici anni dopo, e che l’esteta tanto avrebbe rimpianto; tutti gli chiedono opinioni sul Nuovo Mondo, che peraltro l’ospite conosce appena quanto basta per apprezzare qualche paesaggio o per condannare la monotonia di qualche città.
Tutti gli danno modo di vantarsi dell’intimità con qualche celebrità letteraria inglese ovvero di manifestare stima per qualche confrère americano (Whitman per primo); tutti ascoltano con qualche scetticismo le sue lamentele sulla stampa e le sue reiterate dichiarazioni sul bisogno per un Paese giovane di istruirsi coltivando il disegno e la scultura. Lo sfondo varia, da Boston e Chicago al Midwest, alla California, ma la situazione rimane la stessa. Attraverso i goffi pennivendoli provinciali Oscar ha poche occasioni di far brillare il suo «wit», e a cancellare quasi 250 pagine di prosa altrui bastano le poche con la conferenza data in appendice, dove Wilde di ritorno racconta agli inglesi la «sua» America. Da questa vengono parecchie battute e parecchi aneddoti del mitico viaggio poi rimasti memorabili, compreso quello del cartello letto in un saloon di frontiera, «non sparate al pianista - fa quello che può»
Masolino D’amico, La Stampa 1/5/2015