Ray Banhoff, Riders 4/2015, 29 aprile 2015
DA ZERO A HERO
Aprite Google Street view e cercate Aberdeen, cittadina nello stato di Washington, costa ovest, punta estrema a nord degli USA, più vicino al Canada che alle luci della ribalta. All’incrocio tra Chicago Avenue e 1st St. troverete la casa d’infanzia di Kurt Cobain. Una casetta verde a un piano con giardinetto asettico. Dice tanto di lui. Buttata lì in mezzo a delle strade scalcinate, tenuta ferma dai pali della luce, dalle staccionate bianche, pare fatta coi Lego, incastonata tra altre case tutte uguali, tipiche della provincia americana in cui non c’è niente, solo la ripetizione all’infinito di uno schema di vita piatto.
In quelle strade normali è cresciuto un individuo fuori dal normale, che ha fatto una fine tutt’altro che scontata. Si è esploso una fucilata in bocca a 27 anni, nel momento in cui era il cantate rock più famoso, più ricco, più fatto di eroina del mondo. Prima di premere il grilletto ha avuto un solo rimorso: lasciare la sua piccola bambina e sua moglie. Ma non ce l’avrebbe fatta ad affrontare un altro divorzio (il suo, dopo quello dei suoi genitori che visse a dieci anni e non superò mai). Lo aveva già scritto in un bigliettino due mesi prima, quando lo trovarono in coma, riverso nel suo vomito con un’overdose letale di eroina in corpo, in una camera d’albergo del centro di Roma. Lo presero per i capelli, era tipo l’ottava volta negli ultimi dodici mesi che affrontava il coma per overdose. Viveva in costante stato di trance. Il 1994 fu il suo anno peggiore, arrivò solo fino al 5 aprile. Entrava e scappava dalle comunità, ormai era ingestibile. Quando cantava No, I swear that I don’t have a gun in Come as u are parlava ai suoi cari, che all’epoca erano terrorizzati dal senso di autodistruzione che emanava. Chi lo conosceva sapeva che si voleva fare fuori da anni. Trovò la morte per mezzo del fucile che gli aveva regalato il suo amico Dylan Carlson, cantante degli Earth, causando in molti il sospetto di averlo indotto al gesto. Tutte balle. Le persone che aveva intorno lo amavano, era lui che non riusciva a sentirsi felice. Nella lettera di suicidio ritrovata dalla polizia in un vaso nella sua casa di Seattle parlava di questo. Pensava di continuo a Freddy Mercury, che era pazzo della folla, che la amava, mentre lui, quando sentiva il tuono del pubblico che lo acclamava, non provava niente. Nessuna emozione. Si sentiva di tradire i suoi fan, a fingere. «Devo essere uno di quei maledetti malinconici che si accorgono di cosa amano solo quando lo perdono» ha scritto con la mano ferma nel biglietto di addio intestato a Boddah, l’amico immaginario con cui parlava da bambino.
La dose d’eroina che aveva in circolo al momento della morte era talmente alta che in molti, per anni, hanno speculato su un suicidio inscenato, puntando sulla pista dell’omicidio commissionato dalla moglie per intascare milioni di dollari dall’assicurazione. Cazzate, Kurt ormai era immune all’effetto della roba. «Vivrete meglio senza di me» dice a chi lascia. Inutile, come qualunque biglietto di suicidio nella storia. Il successo gli era arrivato di colpo due anni prima, troppo veloce e troppo tutto, dopo una vita passata a non avere i soldi nemmeno per un panino. Un perfezionista come lui non sopportava di non essere padrone di se stesso. Entrato nella macchina della celebrità non fece che combatterla, in una lotta grottesca da militante intellettuale bastian contrario e da tardo adolescente ribelle. «Se i Nirvana registrassero un disco coi rumori delle loro scoregge sarebbero sempre primi in classifica. Il grunge è morto». Diceva queste cose qui, nelle interviste.
E intanto scriveva sempre meglio, i pezzi erano perfetti, i dischi che pubblicava facevano passare per robetta tutto il movimento punk, i Ramones, i Clash, i Sex Pistols, Zappa, Lou Reed, Iggy Pop, gli anni Ottanta, i Novanta e qualsiasi progresso culturale il rock avesse portato all’occidente fino a quel momento. Kurt Cobain era una tabula rasa per il mercato discografico, per la moda, per la tv, per i ragazzini. In televisione storpiava le parole e stonava apposta i pezzi. Odiava suonare Smells like teen spirits, un brano minore a sua detta. Era un perfezionista. C’è un videotape del1988, quando i Nirvana erano dei ragazzetti che vivevano in un furgone in tour per gli USA, senza soldi, senza contratto, felici come solo i giovani eroi alla conquista della propria identità possono essere, che mostra Kurt suonare con la faccia a cinque centimetri dal muro. Voleva imparare tutti i movimenti e i passaggi come un cieco, per essere perfetto su qualunque palco.
A scuola lo avevano emarginato, gli davano del frocio, non giocava a football, era rachitico, asmatico, basso e sottopeso. Erano tutti metallari all’epoca e lui era fuori tempo. Gli piacevano i Beatles e aveva barattato una chitarra super tecnica da Satriani per una vecchia Fender Jaguar da jazzista. Era un pioniere. Aveva voglia di rivalsa, riusciva solo a dipingere e a suonare. Visse a scrocco a casa di una fidanzata che lo amava come ci si ama da bambini, tra gli animaletti e la paccottiglia di ogni genere che collezionava. Era troppo debole per affrontare il mondo. Era stato un bambino fantastico, tutto sorrisi e gioia. La sua quiete era stata distrutta da un divorzio qualunque, il padre si fotteva una che lui non digeriva. Il sabato pomeriggio, nel tempo che passavano assieme, lo lasciava nel parcheggio dell’azienda in cui faceva il taglialegna. Kurt si chiudeva nel pick up con la cassetta dei Queen a tutto volume. Sempre i Queen. Sempre a tutto volume: più volte la batteria rimase a terra, con relative sgridate. Sgridate come quelle al tavolo del ristorante, dove era terrorizzato di macchiare la tovaglia. Un terrore che non lo abbandonò mai, nemmeno col successo e con i miliardi. Furono anni duri da ragazzino. Visse coi nonni, con la zia, con il pastore del paese. Raccontava di aver dormito anche sotto a un ponte (quello di cui parla in Something in the way). Passò vari anni di solitudine e emarginazione fino a che non imparò a sputare fuori nelle sue canzoni tutto il suo male. Divenne geniale, brillante, spiritoso, leader carismatico. Diventò bellissimo, biondo, forte, vero. Perfezionò un suono che nessuno ha mai saputo imitare. Lui che si sentiva solo uno zero. Nato il 20 febbraio 1967, morì il 5 aprile 1994. Nella lettera d’addio citava una frase di Neil Young: «È meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente».