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 2015  aprile 28 Martedì calendario

JOSEPH ROTH, COMUNISTA IN GIOVENTÙ, NON ATTESE GLI ANNI 70 PER CAPIRE CHE L’URSS OPPRIMEVA IL SUO POPOLO, MA LO SCOPRÌ (E LO SCRISSE) NEL 1926

Grande romanziere, autore di classici del Novecento come La Marcia di Radetzky, Fuga senza fine, La cripta dei cappuccini e Il profeta muto, Joseph Roth fu anche un grandissimo giornalista, un principe tra gl’inviati del suo tempo. Raccontò la Krisis austroungarica e tedesca, e più in generale la crisi dell’identità europea, oltre che con le sue opere letterarie, anche con i suoi reportage, saggi e feuilleton, tra cui le recensioni cinematografiche e le riflessioni sul cinema nascente che escono da Adelphi col titolo L’avventuriera di Montecarlo. Scritti sul cinema 1919-1935 (pp. 285, euro 12,00, ebook euro 6,99).
Cittadino, dopo una guerra apocalittica, d’un dopoguerra europeo messo a ferro e fuoco da leader politici invasati e da traumatizzati di guerra, Roth fu uno dei più lucidi cronisti della marcia dell’Europa verso la catastrofe. «Repubblica senza repubblicani», come scrive Katharina Ochse nell’introduzione a un’altra antologia di scritti giornalistici di Roth, Al bistrot dopo mezzanotte, Adelphi 2009, la Germania fu lo speciale laboratorio nel quale si sperimentarono tutte le dinamiche distruttive del Ventesimo secolo, dal tentativo d’organizzare una repubblica dei consigli sul modello sovietico all’ultrafascismo degli hitleriani. Fu anche la Germania di Weimar, la Germania del cabaret e della rivoluzione dei costumi, celebrata dai grandi poeti omosessuali inglesi, da Christopher Isherwood a Wystan Hugh Auden. Krisis e «moral insanity postbellica» (come Roth chiama il dopoguerra in un dei feuilleton raccolti in Caffè dell’undicesima Musa, Adelphi 2005) vi furono modulate in tutte le possibili forme.
Monarchico, più per disperazione che per convinzione, Roth era guarito dall’infatuazione giovanile per il socialismo rivoluzionario dopo il suo reportage dall’Urss del 1926 (Viaggio in Russia, Adelphi 1981). Del socialismo, di cui Roth s’era invaghito nelle trincee, dove aveva combattuto (strano ma veridico caso) da volontario e da pacifista insieme, non restavano, a suo giudizio, che le riprese macabre del cadavere di Lenin in un cinegiornale sovietico: «In questo possente cranio senza vita sembra esserci ancora un cervello indagatore, che sorveglia criticamente il grandioso effetto propagandistico della propria morte».
Non diffidava della modernità (come fanno oggi i guru della decrescita, reazionari new wave adottati dalla sinistra dernier cri). Amava il cinema, per esempio, al quale non si sognava nemmeno di fare la morale, a differenza dei moderni parrucconi progressisti, sempre lì a fare smorfiette quando sentono parlare di streaming o di app, o anche solo di Coca Cola o di McDonald’s. Ma rimpiangeva l’Europa colta, aristocratica, sobria e pacifica che era sprofondata nei gorghi della guerra mondiale e che era stata sostituita dalla sua caricatura plebea: l’Europa dei dittatori carismatici, dei partiti armati e delle adunate di massa.
Per spiegare questo nuovo mondo, Roth ricorre a metafore cinematografiche: «Gli eventi si incalzano con tale velocità da far credere che la storia contemporanea sia uno spettacolo cinematografico. E proprio come al cinema, la tragedia più profonda si alterna alla comicità più travolgente. La vita inventa intrecci, climax, peripezie e catastrofi che la più ardita fantasia di un drammaturgo cinematografico non saprebbe escogitare». Con largo anticipo sugli opinionisti post factum, Roth capì l’essenziale dei tempi che si preparavano: «È come se le personalità storiche volassero a guisa di falene verso il cono luminoso degli apparecchi da ripresa, davanti ai quali (in una sorta di pubblica vertigine) si trasformano, si mascherano e si dissimulano».
Diego Gabutti, ItaliaOggi 28/4/2015