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 2015  aprile 25 Sabato calendario

SONO JEAN PAUL


Stilista rivoluzionario degli anni 80, inventore della gonna da uomo, amante del kitsch, Jean-Paul Gaultier se la merita tutta, una retrospettiva come quella al Grand Palais di Parigi (fino al 3 agosto). Il diretto interessato non si sottrae a nessun tipo di commento e ricordo.
La mostra itinerante a lei dedicata coincide con l’annuncio, fatto lo scorso autunno, dell’interruzione della sua linea di prèt-à-porter.
Vive questa scelta, motivata probabilmente da questioni economiche, come un’amputazione?
Proprio per nulla! La chiusura è stata una necessità, è vero, ma anche una scelta, quella di dedicarmi esclusivamente all’haute couture. In fin dei conti, ho esordito in quello. Sono stato assunto da Cardin il giorno del mio diciottesimo compleanno. Ero in ritardo con gli studi, la mia passione era la moda. A Cardin mandai degli schizzi, peraltro non strepitosi, ma lui mi chiamò lo stesso, anche se non avevo frequentato scuole e non avevo una formazione. Fidarsi di me fu abbastanza coraggioso. Col passare del tempo, la mia generazione, quella anni 80, quella dei cosìddetti “creatori”, si è distinta nel prèt-à-porter voltando le spalle all’alta moda. Ma è pur sempre da lì che vengo, ed è ciò che da bambino mi faceva sognare. Nell’haute couture mi sono lanciato tardi, nel 1997. Fare solo quello, e i profumi, mi va benissimo. Per la cosiddetta generazione dei “creatori” (lei, Montana, Mugler...) non praticare l’haute couture sembrava una scelta militante...
In tutta sincerità, e anche a rischio di irritare i “guardiani del tempio”, verso la fine degli anni 70 l’haute couture aveva smesso di essere vitale. Di fatto, i veri stilisti di quel periodo eravamo appunto noi, i “creatori”. Quanti, all’epoca, sfoggiavano l’etichetta di “sarto”, facevano paradossalmente una moda molto più industriale della nostra. Per quanto mi riguarda, il grande shock di inizio anni 70 fu la mia prima sfilata di Kenzo. Mi sconvolse. Di colpo scoprii qualcosa che non aveva più niente a che vedere con lo chic parigino e l’universo dell’haute couture, qualcosa di incredibilmente creativo. Capace di ripensare l’abito come avevano fatto i grandi sarti ammirati da bambino e di introdurre in un altro mondo, quello della cultura giapponese, della quale Kenzo non offriva un’immagine minimalista e austera come Yamamoto o Comme des Garçons, ma allegra, colorata, festosa. Dopo la sfilata, andai subito nella sua boutique, che era buffa, come porta d’ingresso aveva l’anta di un armadio, era come entrare in un guardaroba! Comprai un maglione e capii che mi riconoscevo molto di più in quel tipo di moda che nell’haute couture.
Allora perché ha deciso di rinunciare al prét-à-porter? È così cambiato l’abbigliamento industriale?
Era uno spazio di libertà, oggi non è più così. Allora potevi debuttare con nulla, come ho fatto io. Inizialmente eravamo in due, io e il mio fidanzato Francis Menuge. Mia cugina mi dava una mano. Un’amica modella, che avevo incontrato da Patou e che poi era stata ingaggiata da Saint Laurent, fu così gentile da sfilare per me e da presentarmi qualche amica. Non erano pagate, si portarono giusto a casa un vestito a mo’ di rimborso spese. E non era nemmeno un gran regalo, perché all’epoca i miei abiti erano abbastanza bruttini! (ride). Oggi il sistema è cambiato. Le riviste patinate sono completamente controllate dagli inserzionisti, che sono marchi di moda. Negli anni 70 una cosa del genere sarebbe stata impensabile. Questo falsa tutto. I più visibili sono quelli che fanno più pubblicità, non c’è più spazio per la scoperta.
Che ricordo conserva di quei tardi anni 70 in cui lanciò il marchio Jean-Paul Gaultier?
La moda stava diventando di moda. Bisognava essere creativi, sorprendenti. Si iniziava a concepire le sfilate come spettacoli deliranti, barocchi, non più come cerimonie rigide e compassate. Cominciavano anche a esplodere i mercatini delle pulci. Tutt’a un tratto i giovani avevano voglia di indossare i vestiti usati ereditati dai genitori e dai nonni. Il nuovo e il vecchio non erano più antagonisti. I confini diventavano sfocati. Stava sorgendo il Centre Pompidou, con le sue tubature a vista. Tutto ciò che prima era invisibile adesso si poteva mostrare, perciò anch’io potevo lanciare vestiti con le cuciture a vista – Sonia Rykiel lo faceva già – o gioielli contenuti in lattine di conserva. Era un momento molto euforico, circolava una grande energia.
Il suo esordio si mescolò con l’energia della scena punk...
Per me sfilò Edwige, che selezionava il pubblico sulla porta della discoteca Palace ed era considerata la regina dei punk di Parigi. Sfoggiava tatuaggi quando ancora fra le ragazze non usava. Aveva i peli, non somigliava per niente alle modelle. Le avevo fatto una giacca dall’aria vissuta, con sopra delle piume nere, da portare su calze a rete strappate. Cantava in playback My Way, nella versione di Sid Vicious. Per me ha sfilato anche Farida, che camminava masticando il chewing gum. Il Palace, i punk... il mio ambiente era quello. La sua infanzia sarà stata segnata dallo ye-ye...Sì, è stata una rivelazione. Anche se, detto sinceramente, non sono mai stato un grande fan di Sylvie Vartan. I miei idoli erano Sheila e Françoise Hardy. Di Françoise adoravo il fisico, il timbro vocale, gli impermeabili neri, quel suo mood così personale. Ma mi piaceva anche Sheila, così come alcune sue scelte di stile, per esempio il gusto per i kilt scozzesi. Poi mi innamorai di Julien Clerc, di Michel Polnareff... Quando ascoltai per la prima volta il riff di Satisfaction degli Stones, dalla radio di mia nonna, sentii una scarica elettrica. Gli Stones furono uno shock sessuale. Quando li vedevo, cominciavo a sudare. Ma questo non mi impediva di amare molto anche Mireille Mathieu.
A questo proposito, il suo apporto più decisivo alla moda e allo stile degli ultimi 40 anni è proprio l’aver rimesso in discussione il cattivo gusto. Partendo da Yvette Hornere negli anni 80, per arrivare a Nabilla oggi, entrambe apparse nelle sue sfilate (la prima è una musicista, la seconda una star dei reality francesi, ndr), non ha mai smesso di affermare che la volgarità è un’invenzione culturale, e che per renderla moderna basta solo osservarla in modo diverso. Malgrado ciò, esistono cose che lei trova davvero pacchiane?
Difficile risponderle. Ha ragione, per me “kitsch” è una parola che non ha mai significato nulla. Forse sono kitsch da tanto tempo e non me ne sono mai accorto (ride). Ma non m’importa. È una parola che non uso, o che uso con una connotazione molto positiva. Quando dico che una cosa è un po’ kitsch, voglio dire che la trovo commovente, bella.
Da dove le veniva l’audacia di sostenere fin dall’inizio che il kitsch, la volgarità, il cattivo gusto erano cose che lei, con la sua forza, poteva trasformare in fenomeni di tendenza ?
Dal fatto di non avere una formazione, di aver frequentato come unica scuola il mio gusto per le canzoni, per il rock, la cultura popolare. Un altro grande shock è stato il musical The Rocky Horror Picture Show. Vidi l’allestimento originale a teatro prima ancora che Jim Sharman ne facesse un film. Quell’autoironia, quella fantasia così abrasiva, quell’umorismo visionario... Mi piacque tutto da morire. A Londra mi ha sempre colpito la persistenza del gotico, che ho poi ritrovato tra il 1980 e il 1981 nel New Romantic, in Steve Strange del gruppo dei Visage, che è appena scomparso. Feci una collezione ispirata a quel movimento, con dei giubbotti da paracadutista rielaborati, indossati con gonne di piume. Ho conosciuto Siouxsie, Leigh Bowery, Marc Almond. Frequentavo parecchio King’s road, che era territorio dei punk, dove vedevi le creste più incredibili e demenziali. Faceva anche un po’ paura, perché era un contesto che poteva rapidamente degenerare nella violenza. Mi attirava, mi divertiva, ma allo stesso tempo vivevo tutto con un certo distacco.
Il suo gesto punk è stato introdurre l’ironia, lo sberleffo e una certa consapevolezza del grottesco nella moda?
Non credo di essermelo mai riproposto in questi termini, perché a me sembrava tutto naturale, per nulla strategico, ma sì, può darsi. La cosa si é tradotta nelle mie sfilate, che ho cominciato molto presto a concepire come spettacoli, teatro, in effetti, sì, con l’intento di divertire. Ma il divertimento derivava dal semplice fatto che mi divertivo io, a fare quello che facevo. Ricordo una sfilata di Mugler, che in generale ammiro molto, e che alla moda ha dato tantissimo, in cui come musica utilizzava i Carmina Burana. Pensai che mai e poi mai avrei fatto una cosa del genere. Che quel desiderio di seria grandiosità non faceva per me.
Più volte ha detto che il film fondamentale per la sua vocazione è stato Falbalas, del 1945, di Jacques Becker. Però ho l’impressione che quel personaggio di sarto folle e autodistruttivo sia il suo esatto opposto. Da Yves Saint Laurent a John Galliano, molti miti della moda sono percorsi dalla tragedia, da un romanticismo dell’eccesso. Lei invece sembra molto equilibrato, una persona relativamente tranquilla e allegra.
Credo c’entri la mia infanzia, piuttosto felice. A scuola i rapporti con i compagni non erano facili, ma dai miei genitori mi sono sentito molto amato. E anche accettato, pur essendo diverso e abbastanza effeminato.
Quando ha detto loro di essere omosessuale?
Ricordo che a 12 anni mi portarono a vedere Indovina chi viene a cena?, il film in cui la figlia di Katharine Hepbum e Spencer Tracy presenta ai genitori il fidanzato nero, Sidney Poitier. Uscendo dal cinema chiesi: «E se io portassi a casa una fidanzata nera, voi come la prendereste?». «Se vi amate, benissimo». Venivano da un ambiente modesto, ma molto tollerante. Quando poi, di lì a qualche anno, presentai loro Francis dicendo che convivevamo, mi diedero la stessa risposta, aggiungendo che l’avevano capito da un pezzo (ride). Non mi sono mai sentito rifiutato dalla mia famiglia perché omosessuale. A scuola mentivo. Ma quando a 18 anni cominciai a lavorare da Cardin, pensai che non avevo più il diritto di farlo, che non avrei mai più dovuto nascondere il fatto di essere omosessuale.
Il ribaltamento dei codici sessuali che lei ha operato, per esempio facendo indossare la gonna agli uomini, ha provocato uno shock?
Non più di tanto, perché non è piovuto dal nulla. Mi rendevo conto che l’uomo stava cambiando, cambiava il modo in cui guardavano le donne.
Il suo aspetto diventava molto importante, la società cominciava a erotizzarlo. Introdurre qualche elemento di vestiario femminile in quello maschile non fu poi una gran trasgressione. Se le donne già indossavano i pantaloni, perché gli uomini avrebbero dovuto privarsi delle gonne? Io, poi, ho barato un po’, disegnando pantaloni-grembiule che sembravano gonne lunghe. È un indumento un po’ ibrido, ma indossato con una camicia e una cravatta...
Effettivamente, i suoi uomini sono travestiti e virili, muscolosi e tatuati ma vestiti da pin-up...
Sì, ho sempre cercato un equilibrio. Non puntavo né all’uomo iperfemminile, né all’androginia. Più che altro, cercavo di evitare i tratti dell’ipervirilità. Mettendo in scena un uomo-oggetto, attraente sul piano sessuale.Viceversa, nelle giacche da donna inserivo delle tasche interne, storicamente appannaggio degli abiti maschili, perché l’uomo deve poter pagare. Mi piace ribaltare i codici.
L’uomo diventa una pin-up e la donna, con quei bustier che paiono corazze, si trasforma in guerriera?
Sì, esattamente. Il personaggio più rappresentativo del mio lavoro in quegli anni é Madonna. Lei già portava i miei vestiti nella vita di tutti giorni, sul set in Cercasi Susan disperatamente, o nei video come Open Your Heart, quando mi chiese di disegnarle i costumi di scena per il Blond Ambition Tour nel 1990. In lei, l’iperfemminilità diventa armatura. Le disegnai un abito da uomo perforato da cui spuntavano due seni conici. La sua femminilità fa esplodere un simbolo del potere maschile come il completo da uomo.
Quali altre star sono riuscite a incarnare lo stile Gaultier, dopo Madonna?
Rossy de Palma, Josiane Balasko... E ho vestito molto spesso anche Catherine Deneuve. Fin da quand’ero bambino, lei ha sempre incarnato l’immagine della parigina superchic, tant’è che, all’inizio, non avrei mai pensato di lavorare con lei. Aveva una bellezza piuttosto classica, mentre io cercavo tipi fisici diversi. Eppure c’erano immagini di lei che mi ossessionavano. All’inizio della mia carriera la incrociai in un sottopassaggio vicino agli Champs-Elysées. Indossava dei pantaloni da uomo color kaki, una giacca quasi militare, tutto era di Saint Laurent, e vedendola dal vivo per la prima volta pensai: “Wow, emana davvero qualcosa!». Qualche mese dopo, nel 1973, vidi alla tivù il cast della
Grande abbuffata che scendeva i gradini di Cannes dopo la proiezione. Il film era stato fischiato, la gente intorno gridava: “È uno scandalo! Vergogna!”. Piccoli, Ferreri e Mastroianni erano un po’ tesi, mentre al loro fianco la Deneuve, radiosa, da vera diva, fumava una sigaretta, ridendo accanto al compagno, con l’aria di chi quello scandalo se lo gustava moltissimo. Quella sera capii che non era affatto un’altoborghese, stava dalla parte della provocazione. Molto tempo dopo l’ho conosciuta e tutto ha trovato una conferma.
Le piace anche quando, in un video che ha fatto furore in rete, la si vede alzare gli occhi al cielo esasperata, mentre siede accanto a Carla Bruni durante una sua sfilata?
(Un breve silenzio). Ehm... ma lei crede davvero che fosse esasperata da Carla? Io non l’avevo capito, ho pensato semplicemente che le fosse finito qualcosa in un occhio, o che fosse abbagliata dai miei vestiti (ride).
Il “matrimonio per tutti” è una conquista sociale importante?
Sì, perché io sono omosessuale, e dunque in materia di pari diritti trovo legittimo che chi vuole sposare un partner dello stesso stesso possa farlo. Detto questo, l’idea di farlo a mia volta è un’altra faccenda. Però ho conosciuto coppie omosessuali dove, quando uno dei due è morto, con la famiglia dello scomparso sono successe cose spaventose. E non soltanto per questioni di eredità, anche per il semplice fatto di riconoscere il dolore e il lutto.
Riesce a immaginare che il suo marchio le sopravviva?
Non credo. Ma non mi interessa. Io faccio questo mestiere per divertirmi. Una volta morto, non mi importerà più di nulla.
Se il marchio proseguisse senza di lei sarebbe un incubo?
Il marchio non mi appartiene già più completamente. In parte l’ho già venduto. Se Jean-Paul Gaultier continuasse a esistere senza di me, dovrebbe farlo in mia totale assenza. Non mi va di diventare il rompipalle di turno, quello che viene consultato e ogni volta risponde: “No, io non l’avrei fatto così”. Ma è pur vero che fatico a immaginare di condividere il mio giocattolo. Ho sempre avuto la fortuna di godere di una grande libertà, di cui sono sempre stato io a stabilire i limiti.
(Traduzione di Matteo Colombo)