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 2015  aprile 26 Domenica calendario

IL MONDO GUARDA PRADA (E VICEVERSA) «ESSERE SOLO ITALIANI NON BASTA PIÙ»

La Fondazione Prada, a pochi giorni dall’inaugurazione, è ancora un cantiere. La vecchia distilleria ripensata dall’architetto olandese Rem Koolhaas si prepara a diventare un museo, uno spazio per mostre, una sala cinema, un bar anni Cinquanta disegnato dal regista americano Wes Anderson. Dalla torre, cui si lavorerà ancora per mesi, ci si affaccia su un panorama sironiano di ciminiere, con la centrale elettrica dipinta da Boccioni, sullo sfondo del Duomo e dei nuovi grattacieli. Nella Haunted House , la «Casa degli spiriti», andranno la Cell , la cella di Louise Bourgeois, e le installazioni permanenti di Robert Gober. Ma l’unico pezzo già esposto è uno studiolo intarsiato del Quattrocento. Dice Miuccia Prada che «è una metafora del pensiero. Ed è un omaggio al talento italiano per l’arte, l’artigianato, la tecnica, l’abilità».
Eppure, signora Prada, pare quasi che noi si pensi che essere italiani sia una sfortuna. All’estero sono convinti del contrario. Non trova?
«Io sono filo-italiana. Ed è vero che all’estero hanno una percezione dell’Italia migliore di quella che abbiamo noi. Ma non mi faccia teorizzare. La mia dimensione è fare. L’orgoglio nazionale è necessario come premessa al fare. Fare anche cose un po’ diverse. Come la mostra di arte antica curata da Salvatore Settis per l’inaugurazione».

Perché sull’arte antica?
«Perché l’arte contemporanea guarda molto all’arte classica. E anche per un gesto politico. Settis dimostra che l’originale assoluto non esiste, e la riproducibilità tecnica delle opere d’arte non inizia con Benjamin e con la modernità. Ai tempi dei romani, tutti i ricchi e tutte le città volevano le stesse cose, per valorizzare il patrimonio culturale comune, per rafforzare concetti rilevanti per la comunità. La mostra si chiama Serial Classic perché raccoglie copie dell’antichità. Ci sono pezzi importanti da grandi musei, il Louvre, il British e dal Museo nazionale di Teheran. All’ingresso ci sono cinque discoboli. È sempre più difficile: i musei non vogliono più prestare opere. E a Venezia, a Ca’ Corner della Regina, Settis ha raccolto le copie in miniatura — testine, soprammobili per gli studioli —, dall’antichità fino al Rinascimento».
Cosa succederà nella nuova Fondazione?
«Abbiamo voluto spazi diversi, piccoli e grandi, flessibili, per sperimentare. Sarà un gran divertimento. L’arte è lo strumento che abbiamo per esprimere le nostre idee, ma ne useremo anche altri. La Fondazione ha allargato le possibilità al cinema, ai dibattiti, a qualunque altro campo. Per l’inaugurazione Roman Polanski ha girato per noi un documentario di 24 minuti sulle sue fonti di ispirazione e sulle sue ossessioni, le scene alle quali si è ispirato e quelle che avrebbe potuto copiare. Con Alejandro Iñárritu realizzeremo il suo progetto di un film sui messicani che passano clandestinamente la frontiera con gli Usa, tutto in realtà virtuale. La cultura deve essere attrattiva. Non uno sfoggio, un orpello. Per me è così: mi appassiono alle cose che mi riguardano da vicino. E la cultura è profondamente, intimamente necessaria alla tua crescita. Ti aiuta a vivere, a capire il mondo».
Chi guiderà la Fondazione?
«Ci sarà una struttura aperta composta dal team curatoriale interno, dal sovrintendente Germano Celant e da un comitato di pensiero formato da curatori, architetti e teorici pensatori destinato a cambiare formazione nel corso del tempo, che contribuirà a elaborare i progetti» .
Come trova Milano?
«Spero molto nell’Expo. All’inizio ero un po’ negativa. Ora spero che faccia bene alla città».
Perché negativa?
«Perché queste manifestazioni “generaliste” mi sembravano un po’ inutili. Mi pareva ci fossero cose più urgenti per cui spendere tutti quei soldi. Ma il tema della nutrizione è importante. E ci sono tante persone mobilitate. Quale piega prenderà l’Expo, non lo so».
Intanto sembra proprio che in Italia non si possa fare una grande opera senza rubare.
«Ho appena finito un libro del 1973, Guida ai piaceri e misteri di Palermo , di Pietro Zullino. C’è tutto. Il malaffare, l’illegalità, la criminalità sono la grande questione italiana. Non accade solo da noi; ma da noi è un po’ peggio».
Lei rivendica l’orgoglio italiano. Perché allora avete voluto quotare Prada alla Borsa di Hong Kong?
«Perché se sei solo italiano sei tagliato fuori dal mondo. Se non sei internazionale, non esisti».
Cinque giorni dopo l’Expo c’è l’anteprima della Biennale. Venezia non rischia di diventare una città-vetrina, un gigantesco showroom?
«È vero. Ma almeno esiste. Noi italiani che ci siamo formati a sinistra dobbiamo accettare di mettere in discussione le nostre idee, anche quando sono giuste. Il dialogo ti fa crescere, ti obbliga al confronto, ti àncora alla realtà, più o meno piacevole, più o meno volgare. L’isolamento è sbagliato. Del vecchio Pci si diceva fosse “egemone”, perché le sue idee piacevano anche agli altri. Il Sessantotto degli hippy e dell’amore libero era attraente, e i giovani vi aderivano. Oggi per certa intellighenzia tutto è orribile. Ma criticare non è sufficiente. Se io faccio oggetti bellissimi ma troppo sofisticati, non li vuole nessuno. Parlando di Venezia, è importante che il turismo ci sia. È bieco consumismo? Allora costruiamo un’alternativa, che sia credibile però. Cerchiamo di proporre progetti interessanti» .
Come giudica l’operazione di Pinault, accusato di aver «privatizzato» di fatto la Punta della Dogana per esporre la sua collezione?
«Penso che Pinault ami sinceramente l’arte. E non penso che si possa criticare un privato che investe nell’arte. Semmai lo Stato, il pubblico, deve investire a sua volta. Per fortuna che Pinault c’è, ed espone a Venezia e non solo a Parigi, Londra, New York».

Lei come conciliava la militanza nel Pci e l’amore libero del Sessantotto?
«Ero nel movimento femminile, ma rispetto alle femministe scelsi l’Udi, l’Unione donne italiane, vicina al Pci. Forse avevo un’anima più ordinata: meno ribelle, più pragmatica. Le femministe sostenevano la libertà assoluta. Il Pci si occupava degli asili nido, dei consultori».
Ha messo anche lei le gonne a fiori?
«Sì, ma firmate. Non ho mai negato me stessa e le mie idee, mi sono sempre presentata come quella che sono, a costo di sentirmi molto a disagio».
È vero che andava ai cortei vestita Yves Saint-Laurent?
«Sì, ma con gli zoccoli».
Lei ha smentito di aver conosciuto suo marito Patrizio Bertelli in tribunale, dopo averlo accusato di copiare le sue borse. Sul vostro incontro circola un’altra versione: un litigio in una fiera.
«Questa seconda versione si avvicina di più alla realtà. Ci siamo conosciuti in una fiera, e abbiamo deciso di lavorare insieme. Poi è arrivato l’amore».
Ma lui la copiava, sì o no?
«Diciamo che aveva attitudini simili alle mie».
È vero che litigate spesso?
«Sì, sulle cose poco importanti. Che so, preparare gli spaghetti o la pizza. Sulle cose molto importanti la pensiamo allo stesso modo. Abbiamo una formazione mentale molto simile. Anche se Bertelli è più anarchico che figlio del Pci».
Anche sulla Fondazione la pensate allo stesso modo?
«Sì. L’abbiamo creata nel 1993. Abbiamo cominciato a studiare, a conoscere gli artisti. Lui è toscano, ha la passione del Rinascimento, un senso più classico dell’estetica, un’idea della bellezza più tradizionale».
Tra gli artisti italiani chi vi piace?
«Abbiamo fatto un percorso con Vezzoli. Cattelan è un grande artista. Rosa Barba è interessante».
Bertelli, come lei chiama suo marito, apprezza molto Renzi. E lei?
«Io non voglio dare giudizi politici. Tutti speriamo che Renzi riesca, anche perché sembrano non esserci alternative. La mia posizione di stilista “ricca” è la peggiore per fare politica. Partecipo alla vita pubblica con la Fondazione».
Ma ha sempre detto che l’impegno politico la interessava.
«È vero, ma deve essere a tempo pieno. Non temo i compromessi, che poi sono l’essenza della democrazia. Temo il fango, la calunnia, le macchine elettorali. Vedremo cosa accadrà ora a Hillary Clinton. È un lavoro difficilissimo. E quando me la sentirò di farlo forse sarà troppo tardi».
«Il diavolo veste Prada»: quanto vi è servito quel film?
«Niente. Serve il duro lavoro. Non ci hanno neppure chiesto il permesso di usare il nostro marchio. Quando l’ho saputo ero terrorizzata: il libro era orrendo. Il film invece è divertente. Ora fanno pure il sequel…».