Mario Luzzatto Fegiz, Corriere della Sera - La Lettura 26/4/2015, 26 aprile 2015
AMOR AMORE LOVE. E LA CANZONE È FATTA
Quando Lucio Dalla ascoltò il provino di Attenti al lupo così si rivolse al suo amico Ron che della canzone aveva scritto testo e musica: «Se la fai cantare a me vendiamo qualche milione di copie». E così fu. I versi, apparentemente infantili, ammiccanti alla favola di Cappuccetto Rosso, avevano conquistato Dalla.
Le parole (soprattutto amore) sono i mattoni dell’edificio canzone, la musica è l’impalcatura che regge la struttura, la personalità di chi canta e l’arrangiamento sono la fiamma ossidrica che salda quei tre minuti e mezzo con la coscienza collettiva. Affinché una canzone arrivi al cuore della gente non è indispensabile che abbia un testo cretino, però a volte aiuta. «Non vado mai a un appuntamento senza un fiore/ ma non confondo il sesso con l’amore» cantava Iglesias su versi di Giovanni Belfiore. Che appaiono profondi e impegnati se confrontati con alcuni testi stranieri come Waterloo che lanciò gli Abba in tutto il pianeta: «Mio caro, Napoleone si arrese a Waterloo, oh sì, e ho incontrato la mia sorte in un modo abbastanza simile, il libro di storia sul ripiano continua a ripetersi» (una rima baciata straordinaria: The history book on the shelf/ It’s always repeating itself ).
Molti grandi autori di canzoni, come Paolo Conte, hanno un rapporto difficile con la parola. E quando ( quando : altro vocabolo chiave) questa si rivela insufficiente a lumeggiare situazioni complesse, si preferisce sublimare il non detto (perché non dicibile), nell’irruzione di un’esuberante sezione di fiati o nel gracchiare irriverente di un kazoo (trombetta a vibrazione).
Mogol sostiene che una grande musica nasconde già in sé le parole giuste. Lui pretende però che l’artista che ha scritto la musica o canterà il brano sia fisicamente presente, meglio con la chitarra. Così Mogol ascolta e riascolta, poi si rannicchia sul primo pezzo di carta disponibile e compita, velocissimo come in trance.
Può uscirne un capolavoro o anche no. «La differenza fra me e Mogol — diceva il compianto Giancarlo Bigazzi — è che entrambi, talvolta, scriviamo qualcosa che passerà alla storia. Solo che lui ci mette tre minuti, io tre mesi».