Luigi Ippolito, Corriere della Sera 26/4/2015, 26 aprile 2015
IL GRIDO DI KIEV: «CI INVADONO SCHIERATE I CASCHI BLU AL CONFINE»
KIEV Sventola sul pennone più alto, nel gelido mattino di aprile: è la bandiera rossa e nera del Pravy Sektor , il Settore di Destra, la formazione neofascista protagonista degli scontri più violenti nei giorni della rivoluzione ucraina del 2014 e ancor oggi ombra scura della fragile democrazia di Kiev. Siamo a una ventina di chilometri dalla capitale, alla Mezhyhirya, la residenza di Viktor Yanukovich, l’ex presidente filorusso cacciato a furor di popolo. Centoquaranta ettari di tenuta fra parchi, ruscelli, zoo, eliporti e magioni dai rubinetti d’oro arredate nel più pacchiano stile dittatorial-hollywoodiano. A montare la guardia a saloni, saune e palestre ci sono i militanti dell’ultradestra, avvolti nelle bandiere a mo’ di mantelli: perché questo è un luogo di nessuno, che lo Stato non è riuscito a confiscare. La proprietà è intestata a un prestanome, che non è possibile ricollegare a Yanukovich: il quale un giorno, chissà, potrebbe pure rifarsi vivo.
Ecco, la Mezhyhirya è la metafora di un Paese rimasto anch’esso in un limbo, terra di nessuno fra Russia ed Europa: una nazione né in pace né in guerra, vittima di una «guerra ibrida» che si sta trasformando in «pace ibrida», uno Stato economicamente fallito ma che non può permettersi di dichiarare il default, un sistema postsovietico in via di epurazione ma in cui le mille riforme si accavallano e si arenano.
Qui atterrerà domani la più importante delegazione europea mai presentatasi dallo scoppio della crisi con la Russia: la guidano il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e la responsabile della politica estera Federica Mogherini. Un supervertice con i leader ucraini che ha l’obiettivo di riaccendere la fiducia tra Bruxelles e Kiev, in un momento in cui gli europei temono un rallentamento delle riforme e gli ucraini paventano un allentamento delle sanzioni alla Russia.
A Kiev in questi giorni l’allerta sulle intenzioni del Cremlino è tornata a livelli di guardia. Nella sede dei servizi segreti, una palazzina senza insegne nel centro di Kiev, illustrano con una serie di slides quello che si starebbe preparando: «Secondo le nostre informazioni le truppe russe schierate lungo i confini hanno raggiunto il massimo livello di capacità dallo scoppio della crisi: sono in grado di sferrare un’offensiva in qualsiasi momento». Affermazioni corroborate anche dall’ intelligence americana, secondo cui i soldati di Mosca si stanno ammassando nell’area a ridosso del Donbass.
Ancora più esplicito l’allarme che lancia Andriy Parubiy, l’uomo che fu responsabile dell’organizzazione militare dei dimostranti sulla Maidan, la piazza della rivoluzione, e che ora siede come vicepresidente del Parlamento: «Ci aspettiamo un’azione di destabilizzazione da parte della Russia a ridosso delle celebrazioni del 9 maggio, per l’anniversario della Seconda guerra mondiale». Parubiy non si fa illusioni sul futuro: «Putin può essere fermato solo con la forza: non è possibile convincerlo con argomenti razionali, lui scambia i negoziati per debolezza».
Più prudente si atteggia Arseniy Yatseniuk, il dinamico primo ministro quarantenne che ha un filo diretto con gli americani: «Penso che Putin aspetterà fino alla fine di giugno — ci dice nella sua residenza —. Intanto ha cambiato tattica e toni, si mostra più accomodante perché pensa che le sanzioni possano essere allentate fra un paio di mesi». Ma anche il premier non azzarda scommesse sul domani, neppure a lungo termine: «Putin non vuole nulla di buono per il mio Paese. Vuole che l’Ucraina diventi uno Stato fallito, perché altrimenti sarà lui a fallire. E non mi faccio troppe aspettative per un dopo Putin: i leader a Mosca sono tutti nazionalisti, la Russia sarà sempre la Russia».
Yatseniuk è scettico sulla possibilità di realizzare gli accordi di pace raggiunti a Minsk lo scorso febbraio: il cessate il fuoco resta fragile, ci sono morti e feriti al fronte ogni giorno che passa. E la soluzione diplomatica in cui l’Europa continua a credere ha bisogno di un piano B: che significa, per il premier ucraino, prepararsi a sanzioni più dure, fino al blocco di ogni investimento e di ogni cooperazione militare e industriale con la Russia. Il problema è però la capacità dell’Europa di restare unita di fronte a un simile scenario, visti i tentennamenti di diversi Paesi, Italia compresa. E qui Yatseniuk fa una lunga pausa, prima di scandire in tono grave: «Non ho dubbi che l’Italia resterà dalla parte dell’Ucraina».
È questo il messaggio che domani i leader di Kiev porgeranno agli inviati di Bruxelles: che l’Ucraina potrà avere successo soltanto col supporto europeo. «Perché il Cremlino fa la guerra anche contro di voi, contro i valori occidentali» sottolinea Yatseniuk. Un’idea ripetuta a Kiev come un mantra da tutti gli interlocutori, che si vedono come i difensori della civiltà occidentale minacciata dall’aggressione «euroasiatica» che viene dall’Est. Anche per questo chiedono all’Europa di sbloccare la fornitura diretta di armi: «Lo so che non tutti sono d’accordo su questo — ammette Yatseniuk — ma noi proteggiamo anche voi. Nessun Paese dovrebbe mettere veti».
Dall’altro lato, però, a Bruxelles si aspettano decisi passi avanti sulla strada delle riforme politiche ed economiche. Ed è per questo che nelle ultime settimane il governo ucraino ha cominciato a muoversi concretamente contro il sistema di oligarchie e corruzione che strangola la vita del Paese. Ai vertici dell’amministrazione presidenziale, i più stretti consiglieri del capo dello Stato Viktor Poroshenko sono ottimisti: «L’era degli oligarchi è finita: sono stati indeboliti dalla crisi e la società stessa non vuole più vivere in un sistema dominato da loro. Stiamo cambiando le leggi, senza ricorrere alla violenza: entro l’anno prossimo non ci saranno più oligarchi un Ucraina».
La strada delle riforme non è certo indolore: «Negli ultimi 15 mesi abbiamo preso molte decisioni impopolari in economia — ricorda il premier Yatseniuk —. Abbiamo aumentato le tasse, eliminato le elusioni fiscali, cacciato il 10 per cento dei funzionari pubblici, alzato le tariffe energetiche, ridotto i benefit sociali. Ora ci aspettiamo che i creditori esteri siano cooperativi nei nostri confronti. E che l’Europa si faccia garante degli investimenti nel nostro Paese».
La lotta alla corruzione e la battaglia per trasformare la struttura economica dell’Ucraina trova una coorte di sostenitori in un tessuto di Ong animate da giovani attivisti che pungolano il governo a fare sempre di più. Anche perché il successo su questo fronte è visto come la chiave per riprendersi le regioni separatiste russofone: «Se la tregua regge — ragionano i consiglieri del presidente Poroshenko — in un anno o poco più, grazie all’attrattiva economica e alla decentralizzazione, potremmo recuperare i territori dell’Est. Nello scenario peggiore ci vorranno al massimo tre-cinque anni. Ma per farlo è necessario chiudere la frontiera con la Russia e ottenere il ritiro delle armi». Ed è qui che torna in campo la Ue: la missione attuale dell’Ocse per monitorare il cessate il fuoco è considerata da Kiev inefficace. «Vogliamo un contingente di peacekeeper veri, schierati sulla linea del fronte. Entro giugno». Vedremo da domani se l’Europa sarà pronta a scendere in campo.