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 2015  aprile 26 Domenica calendario

WHITNEY RIFATTO DA PIANO

Nella storia culturale di New York, l’arte è quasi sempre finanziata da uomini ma è un affare di donne. Furono tre daring ladies ad aprire nel 1929 il MoMA, tempio delle avanguardie europee in America. E fu una scultrice, Gertrude Vanderbilt Whitney, ad aprire nel 1931 la prima sede del museo che avrebbe tracciato la mappa della storia dell’arte americana. Quella che sembrava allora un’eccentrica iniziativa ben presto si trasformò nel successo di un’istituzione che metteva al centro della scena lo spirito americano in una progressiva emancipazione dall’eredità europea sino al trionfo del dopoguerra con le innumerevoli correnti dall’espressionismo astratto al pop e alla condizione attuale. Le fortune del museo si rappresentano nei diagrammi dei suoi spostamenti su e giù lungo la griglia di Manhattan: dal Greeenwich Village su alla 54esima strada nel 1954; nel 1966 sulla 65esima nella iconica sede di Marcel Breuer e dal 1° maggio di quest’anno nello straordinario edificio disegnato da Renzo Piano nel Meatmarket District sulla 14esima.
Un ritorno alle origini dunque, reso necessario dall’impossibilità di ampliare lo storico edificio di Breuer ma anche dalla volontà di ritrovare lo spirito del suo originario mandato: riprendere cioè le ragioni di una nuova frontiera e riaffermare una specificità dell’american way of life . È tuttavia singolare che questa sfida abbia trovato in un italiano il suo interprete ideale, con un’opera che consente al museo l’occasione per riformulare la sua posizione nella mappa culturale americana e di rivendicare la sua originalità rispetto al suo alter ego: il MoMA.
Il sito innanzitutto. Lontano dall’eleganza dell’upper east side, il Meatpacking District è l’inattesa frontiera di lower Manhattan. Da una parte i resti dei macelli e dei wharehouse in parte abbandonati all’inizio degli anni 80, dall’altra l’Hudson con il richiamo dell’attività fluviale. In mezzo, la novità dell’ultimo decennio: la High Line, la ferrovia sopraelevata trasformata in giardino sospeso, che ha spostato il baricentro turistico di New York da Times Square ai bordi di Chelsea.
Eppoi l’architetto. Tre mesi fa Piano ha inaugurato l’ampliamento dell’Harvard Museum a Cambridge e dal 1986 (con la Menil Collection di Houston) ha costruito sino a oggi in America quasi 15 musei – da Dallas a Philadelphia – senza contare la torre del New York Times e il cantiere della Columbia University.
In poco più di un quarto di secolo, Piano insomma ha battuto ogni record nella storia dell’architettura moderna, trovandosi nella incredibile posizione di dare un volto a tutte le principali istituzioni della democrazia americana: giornali, musei, università, biblioteche, eccetera. Le ragioni di queste performance dovranno essere studiate con calma nel futuro, ma certamente va riconosciuto nel suo pragmatico empirismo una delle chiavi più appropriate per comprendere la profonda empatia tra la sua architettura e la cultura di un Paese che, quando non si fa sopraffare dal cinismo commerciale (come nella ricostruzione di Ground Zero), continua a stupire per una forma particolare di libertà che consiste nel rifiuto dello scontato e dell’impossibile, nel rigetto del formalismo convenzionale e nella capacità di prendersi il rischio di decisioni a prima vista controcorrente.
Di tutte queste caratteristiche il museo di Piano rappresenta la sublimazione europea: le assume cioè e le declina in un’accezione che aggiunge altri valori, secondo uno schema in fondo rappresentato da buona parte della collezione del Whitney stesso. Artisti americani non sono solo quelli nati in patria, ma anche quelli che hanno scelto l’America come terra d’elezione, ibridandola con valori e punti di vista che rendono più forte la democrazia.
All’ottavo piano del museo, c’è un’opera di Charles Sheeler – l’artista che per primo riconobbe la natura industriale del paesaggio americano – che recita: «Le nostre fabbriche sono il nostro sostituto dell’espressione religiosa». Bisogna partire da qui e dalle foto di stabilimenti, ponti e ciminiere di Victoria Hutson o di Ilse Bing per entrare nello spirito di un edificio che risulta una sorpresa pure per i conoscitori dell’opera di Piano.
Chi si aspettava un’altra Beyeler o un altro Art Institute, deve convincersi che a 77 anni Piano non ha voglia di rimanere ingabbiato in una formula o in una maniera: che le sue costruzioni sono avventurose e pratiche allo stesso tempo e che sì, il Whitney Museum, come ci ha confidato in una visita in anteprima, è un edificio “selvatico”. Un’espressione insolita per definire un’architettura, che rimanda alle leggi della natura lasciata a se stessa, alle sue ragioni di modellare la propria forma in relazione e in reazione all’ambiente. E infatti il Whitney – questa cruda macchina di delicato alluminio – non si può capire se non entrando nei suoi spazi e nelle sue gallerie. Dall’esterno sembra un collage di estrusi che richiama il carattere industriale dell’area e se ne infischia di ogni pretesa di decoro o di monumentalità. Un atto generoso e coraggioso in tempi di architetture iconiche che ambiscono essere rappresentate con un rapido gesto. Ci devi girare attorno, guardarlo dall’high line dalla strada o dal fiume per capire un po’ alla volta che ogni parete che si incurva, ogni copertura che si inclina, ogni volume che si proietta in avanti, è la istintiva risposta alla calamita della città, di cui si propone come un grande scambiatore. Duro all’esterno, è una spugna all’interno: lunghe e calcolate prospettive ti proiettano al centro della città dei grattacieli da un parte, da quella del fiume e delle chiatte dall’altra. Eseguito con la meticolosità di un’opera d’arte o di design, il Whitney non si lascia però ingabbiare in un’eleganza di maniera. Ogni piano ha un’altezza leggermente diversa in relazione alle opere; ogni soffitto ha una soluzione diversa per aumentare o diminuirne la profondità, lasciando a volte in vista la struttura; ogni piano ha una disposizione diversa di pannelli e pareti e scorci trasversali sulla città.
Tutto questo, miracolosamente sospeso sulla Gasenvoort Street, dove il piano terra cede alla trasparenza di un piano libero che Piano ha battezzato “largo” all’italiana e la città subito ha accolto come un gesto di simpatia.
Fulvio Irace, Domenicale – Il Sole 24 Ore 26/4/2015