Valerio Castronovo, Il Sole 24 Ore 26/4/2015, 26 aprile 2015
COME LUIGI EINAUDI RICOSTRUÌ L’ECONOMIA
All’indomani della Liberazione esisteva fra gli Alleati una sostanziale diversità di valutazioni nei confronti dell’Italia. Il governo di Londra (che aveva ancora come capo Winston Churchill) avrebbe voluto includere la Penisola nella propria area d’influenza nel Mediterraneo. Gli Americani non avevano invece particolari interessi da presidiare nell’Europa meridionale; miravano piuttosto a riorganizzare il Vecchio continente all’insegna di un nuovo ordine politico ed economico internazionale. Questa prospettiva portò Washington a rendersi conto, fin da subito, di quanto sarebbe stato fragile in Italia un sistema politico-istituzionale ricalcato su quello prefascista, nonché della necessità di promuovere un efficace rilancio dell’economia italiana per non lasciare troppo spazio ai partiti di sinistra.
Tuttavia, non per questo gli Americani sapevano già come agire e su quali forze fare affidamento. Al riguardo è significativo il fatto che una delegazione (guidata da Raffaele Mattioli e Enrico Cuccia) andata negli Stati Uniti nel novembre 1944 per sollecitare aiuti economici per l’Italia sconvolta dalla guerra ancora in corso, fosse tornata in patria quattro mesi dopo senza aver ottenuto risultati particolarmente confortanti. Era toccato perciò, successivamente, alla rappresentanza diplomatica a Washington, affidata ad Alberto Tarchiani, il compito di svolgere un paziente lavoro di persuasione, attraverso una trama di rapporti più personali che politici, per attirare sull’Italia l’attenzione dei dirigenti americani; presi come essi erano – ricorderà Egidio Ortona, - dai problemi posti sia da “una vastissima clientela di amici e alleati, sia dalle ambiguità o dalle mosse di tiepidi seguaci o di nemici potenziali”. D’altro canto, mentre non facevano alcuna distinzione fra comunisti e socialisti, i governanti americani diffidavano del Partito d’Azione (che pur era quello più vicino idealmente al Partito democratico del presidente Truman) ed erano scettici sulle potenzialità della Democrazia cristiana.
L’unica linea direttiva degli Alleati era comunque di impedire una rivoluzione comunista. Ma si trattava di una prospettiva che lo stesso Togliatti, sin dalla svolta di Salerno, aveva escluso, sebbene fra i militanti del suo partito e di quello di Nenni fosse diffusa l’aspettativa di un radicale cambiamento del sistema sotto le insegne della sinistra marxista.
Di fatto, il governo americano e quello inglese, passato nel luglio 1945 sotto la guida dei laburisti, erano dell’avviso che alcune ponderate riforme avrebbero contribuito ad attenuare gli squilibri sociali che affliggevano la Penisola e che potevano perciò dar luogo, in una situazione ancora fluida, a pericolose tensioni e incognite politiche. Perciò le scelte in campo economico nel periodo della ricostruzione vennero determinate più da circostanze e motivazioni di carattere interno, in un clima d’emergenza, che da pressioni di natura esterna.
Tuttavia, dal dibattito svoltosi fra le forze politiche nell’Assemblea costituente emersero delle enunciazioni di principio e non già delle concrete proposte operative. In pratica, gli unici che avessero delle idee chiare su cosa fare, erano alcuni esperti, operanti nell’ambito dei principali istituti bancari e delle Commissioni sorte dopo la Liberazione per affrontare i problemi più urgenti, che conoscevano quanto si andava elaborando negli organismi internazionali e sapevano quali leve occorresse manovrare. E fra loro primeggiavano, per talento personale e posizioni accademiche, gli esponenti della scuola liberista, giunti ad assumere (a cominciare da Luigi Einaudi, governatore dal gennaio 1945 della Banca d’Italia) importanti responsabilità in un ministero-chiave come il Tesoro (prima, con Marcello Soleri, poi con Epicarmo Corbino).
Inoltre essi contavano sul neo-presidente della Confindustria Angelo Costa che, tenutosi lontano in passato da certi “matrimoni di convenienza” contratti dal mondo economico col regime fascista, riteneva che il ruolo delle imprese fosse essenziale per la rinascita del Paese. Del resto, i danni di guerra subìti dall’apparato industriale non superavano in media l’8 per cento della capacità produttiva.
Perciò i partiti di sinistra commisero innanzitutto un grave errore di valutazione nel ritenere, per i loro assunti ideologici, che il capitalismo italiano avesse, per le sue tare (che pur non mancavano), tanto piombo nelle proprie ali da essere ormai alle corde. In secondo luogo, i persistenti dilemmi che agitarono la navigazione dei governi di coalizione nel corso del 1946 e rimasti insoluti anche nei mesi successivi, in merito al “cambio della moneta” e alle “riforme di struttura”, spianarono la strada all’avvento nel giugno 1947 di un quarto ministero De Gasperi (con la partecipazione di liberali, repubblicani e socialdemocratici), in cui, accantonato per il momento il programma della sinistra democristiana ispirato ai principi riformisti del “Codice di Camaldoli”, risultò decisiva l’azione di Einaudi, quale vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio.
Unitamente a un aumento delle imposte sia sui capitali e i redditi che sui consumi, il “salvataggio della lira” da una devastante spirale inflattiva, di cui egli si rese protagonista, ebbe infatti anche rilevanti effetti politici, in quanto venne apprezzato da gran parte dei ceti medi risparmiatori e a reddito fisso. E, rafforzando così il nuovo governo di centro, costituì una delle premesse del successo elettorale della Dc, imparentata con i partiti laici, nelle elezioni cruciali del 18 aprile 1948.
Valerio Castronovo, Il Sole 24 Ore 26/4/2015