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 2015  aprile 26 Domenica calendario

DALLA MI SALVÒ DALLA MUSICA, TOGNAZZI MI REGALÒ IL CINEMA

[Intervista a Pupi Avati] –
Leggende al confine della menzogna: “Quando sento dire ‘il trionfo commerciale di Checco Zalone rappresenta una manna per tutto il cinema italiano’ mi viene da ridere. È una delle più grandi cazzate che mi sia mai capitato di ascoltare. Ma cosa? Ma quando? Ma che vuol dire?”. Pupi Avati è stanco di luoghi comuni: “Nel mio mestiere, un manifesto della competitività, il successo dell’altro equivale al tuo insuccesso. Prenda il mio ultimo film, Un ragazzo d’oro con Sharon Stone e Riccardo Scamarcio. È andato malissimo e tranne me e mio fratello Antonio che lo ha prodotto, hanno festeggiato più o meno tutti. La maggior parte delle persone ha goduto e io lo capisco. Non mi stupisco. Essere felici per l’inabissarsi dell’altro è umano. Quando a quasi trent’anni, abbandonato il sogno di diventare musicista e un più prosaico impiego in una ditta di surgelati, mi inventai regista incappando in un paio di flop mostruosi, il sentimento della provincia, la sua abitudine a giudicare e a esprimersi per classifiche, mi fece pagare il conto dell’ambizione e mi mise all’ultimo posto. Tra i reietti. Non volevo altro che visibilità. La ottenni e mi si ritorse contro. Mi gridavano ‘fallito’, mi ridevano dietro e per vergogna lasciai Bologna”.
A 76 anni, con quasi 50 film alle spalle, Pupi Avati sa come tutelarsi: “Prendo un clarinetto, suono quattro note e in un’operazione che è insieme igiene mentale e catarsi, torno esattamente ai miei 15 anni”. L’età dei protagonisti del suo primo romanzo edito da Guanda: Il ragazzo in soffitta, storia di un gesto irreparabile e di due coetanei: “Terribilmente diversi”. Un bolognese e un triestino agli antipodi per estrazione sociale, bellezza, rettitudine e applicazione. L’apparente distanza li attrae dipanando: “Un collante comune, il dolore come terreno per il dialogo reciproco”. Potrebbe diventare un racconto cinematografico, ma non è detto che accada: “Per ora è un romanzo e gli piace essere tale. Quando scrivi per il cinema lo fai per sottrazione, deputando alle immagini, ai suoni e agli attori la responsabilità di dare un senso alla narrazione. Il ragazzo in soffitta ha la presunzione di avere in sé tutti gli elementi utili a soddisfare il vecchio lettore che dal libro sul comodino vuole sapere soltanto una cosa. Come cacchio va a finire il racconto senza tante riflessioni a scapito della trama. Se giro un film parlo a una moltitudine. Qui invece il rapporto è confidenziale. Dialogo con un solo lettore, posso permettermi di essere intimo e da neofita, con tutte le trepidazioni del nuovo mezzo, ho scoperto scrigni di cui dubitavo di possedere le chiavi”.
All’età dei protagonisti del suo romanzo che aspirazioni aveva?
Sognavo di diventare musicista. Ma non avevo talento. Per capirlo impiegai molto tempo. Capita a tanti di confondere la passione con la capacità, ma impegnarsi, studiare o applicarsi notte e giorno, se non sei portato, non dà nessuna certezza.
Chi la aiutò a capire che con il clarinetto non avrebbe potuto campare?
Lucio Dalla. Per me ha contato moltissimo perché mi ha fatto soffrire come un cane. Si rivelò sul palco, durante un’esibizione in Germania. Mi sentii superato, battuto, umiliato. Oggi, dopo qualche anno di inconfessabile amarezza, lo ringrazio.
Perché?
Perché mi ha fatto scoprire l’inadeguatezza. Una componente fondamentale. Illumina la realtà, ti libera dall’equivoco, chiarisce i tuoi limiti.
Dalla non aveva responsabilità. Mostrò il suo talento involontariamente.
Penso ci abbia messo del suo e che abbia anche molto goduto. Lui, ipocritamente, faceva finta di non essere alla mia altezza, ma credo non l’abbia mai pensato. Gli piaceva essere più bravo degli altri e soprattutto di me, il leader della banda.
Eravate poco più che studenti.
Quando Lucio apparve per la prima volta con uno strumento in mano sembrava negato. Suonava malissimo, altrimenti nella banda non l’avrei fatto entrare. L’avrei ammazzato prima. Poi si rivelò. E cosa ho sentito, quanto ho sofferto, ancora me lo ricordo. Ci fu qualche frizione, un vento di antipatia, un silenzio di troppo. Non ci vedemmo per qualche anno e calò il gelo. Poi un giorno, trovandomi a fare dei provini per un programma tv, fui testimone di un evento straordinario. Nove ragazzi su dieci scelsero di cantare L’anno che verrà. Io non avevo mai ascoltato il pezzo e consideravo Lucio poco più che un cantante commerciale che istigato da Gino Paoli, aveva tradito il Jazz per le canzonette. In un istante compresi quanto torto avessi e gli telefonai: ‘Scusami Lucio, non ho capito un cazzo, sei un genio e hai fatto benissimo a fare tutto quel che hai fatto per diventare quel che sei’. Diventammo fratelli.
Come scoprì della sua morte?
Nello stesso modo in cui seppi dell’attentato alle Torri Gemelle. Osservando decine di telefonini squillare contemporaneamente subito dopo averlo saputo a mia volta per telefono da mia moglie. Una notizia epocale che si faceva strada con il voce a voce. Un dato tangibile, una cosa vera. Non come quando dicono che è morto Paolo Villaggio. Succede ogni due mesi, ormai non ci crede più nessuno. È un’assicurazione sulla vita.
Lei Villaggio lo ha conosciuto.
Involontariamente, Villaggio ha rappresentato la mia fortuna. Avrei voluto proporgli un ruolo in un mio film: La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone ma Paolo sfuggiva. Giocava. Si dava e poi si negava. Così, era il ’72, nel corso di una domenica a casa Tognazzi, a Torvaianica, lasciai un copione a Franca Bettoja, la moglie di Ugo, per farglielo leggere. Lui stava partendo per Parigi, la sceneggiatura finì in borsa e Tognazzi, credendo si trattasse di uno scritto di Bevilacqua la lesse e mi cercò per candidarsi. Allora Tognazzi era l’attore più famoso d’Italia. L’esito del film mi cambiò la vita. Gli devo tutto. Da allora non mi sono più fermato.
Come ci ha detto, i suoi esordi non furono memorabili.
Furono giustamente massacrati perché il nostro cinema, il cinema degli autori di fine Anni 60, era imbarazzante. Il mio, il mio soprattutto, ma non soltanto il mio. C’era un fortino celebrato, noi lo assaltammo dal basso provando ad abbatterlo e purtroppo riuscimmo a penetrare e a fare scempio di ciò che ci aveva preceduti. Eravamo demagogici, impreparati, figli di un intellettualismo mai sperimentato nel reale, risibilmente provocatori. Avevamo un solo obiettivo.
Quale?
Che la gente uscisse dalla sala stramaledicendoci perché apoditticamente e per partito preso, noi stramaledivamo loro. Una guerra senza senso, aggravata dal fatto che, fino a quel momento, prima di disgustare gli spettatori, andare al cinema era una festa. Dalla prima visione alla sala parrocchiale, il film aveva una tenuta lunghissima pur in presenza di successi e insuccessi, si salvicchiavano tutti. Si andava in sala con meno consapevolezza, per il piacere di esserci. Non per vedere Birdman. Il pubblico era più apprezzabile in quanto meno preparato.
Lei si sentiva impreparato.
Io non sapevo niente e non avevo visto niente. Avevo fatto cinque settimane da aiuto di Piero Vivarelli e poi stop. I miei errori, i miei errori a milioni, li hanno pagati tutti i primi mecenati. Sono stato molto fortunato. Non ero come Bellocchio, uno che con il suo film, la sua preparazione intellettuale e pratica, il budget risibile de I pugni in tasca e la profondità del suo scavare, ci aveva mondati tutti dandoci una lezione e permettendoci indegnamente di tentare la sua strada. Il cinema l’ho imparato facendolo, ma ancora oggi penso che non esista niente che ti può far affermare sicuro: ‘Lo domino, so come si fa’. Cambiano le condizioni psicologiche, i compagni d’avventura, le ispirazioni, le insidie. Ogni volta è un terno al lotto. Ho fatto la mia strada, ma registi a cui possa imparentare il mio tono di voce non ne trovo. Ho covato una mia piccola identità che continua a essere quella. A 76 anni non sono approdato a un cinema adulto. Mi domando ancora: ‘Ma come si fa a girare un film?’.
L’ispirazione iniziale la deve molto a Fellini. La chiamava ‘Pupone’.
C’è stato un tempo in cui, qualunque cosa facesse o dicesse, era il verbo. Lo adoravo. Abitava a due passi da casa mia, ci frequentavamo molto, ero una delle dieci persone coinvolte nel processo di iniziazione ai suoi film. Una copia lavoro senza musiche, una saletta carbonara, il maestro che mostrava il manufatto agli amici fidati. Era affettuoso, ma in giro sento dire che lo era con tutti. (Sorride)
Le piaceva il suo cinema?
Federico è stato una profonda fonte di ispirazione e ha girato film eterni. La Dolce vita e Otto e mezzo su tutti. Rivedendo gli altri mi sono un po’ ricreduto. Solo in Amarcord c’è la straordinaria inventiva dei capolavori. Da un certo punto in poi, Fellini è diventato troppo felliniano, esageratamente felliniano. Certe cose non andrebbero riviste, come non bisognerebbe reincontrare i vecchi amori. Meglio conservare la memoria per il bello.
La prima cosa bella dell’arrivo a Roma?
Ero un po’ appesantito, in valigia avevo i cadaveri dei miei primi due film ed ero visto come un appestato. Mario Monicelli abitava al piano di sopra. Con me fu generoso, aveva apprezzato la Mazurka e mi presentò a Cristaldi. ‘Fai meno l’autore, guarda più al pubblico’, mi ammoniva. Mario aveva obiettivi precisi.
Quali?
Voleva far ridere. Era asciutto, secco, diretto. Non a caso non amava Fellini. E non credo che il fattaccio di Boccaccio 70 a Cannes avesse migliorato la situazione. Il Festival aveva selezionato il film, ma aveva preteso dal produttore l’eliminazione dell’episodio di Monicelli. Una cosa inaudita che non so come gli altri registi del film, Visconti, De Sica e Fellini, avessero permesso succedesse senza dire ‘non veniamo neanche noi’. Mario giustamente si incazzò come una iena. Entrò in cabina, bloccò la proiezione, urlò come un pazzo. Ebbe forza e coraggio, lo portarono via gli uscieri, successe un’ira di dio.
C’era personalità in quel cinema.
E c’erano idee chiare. Quello che per primo mi ha mostrato il nitore della visione che non ha bisogno di arzigogolare, imbarocchirsi o compiacersi per esprimersi è stato Pasolini. Abbiamo collaborato per Salò. Con Masenza e Troisi, da un’idea di Enrico Lucherini, avevamo scritto un adattamento che Pier Paolo aveva trovato moralistico e che non gli era piaciuto per niente. Lo riscrivemmo con Sergio Citti e venne fuori una cosa diversa, molto diversa, quasi terrificante. All’epoca della collaborazione con Pasolini venivo da decine di copioni firmati con mio fratello per registi di serie Z che non si accontentavano mai perché non avevano la minima idea di quello che volevano fare. Pasolini mi ha insegnato l’essenzialità. L’essere diretti. Una dote rara.
Ha lavorato con decine di attori.
Il più talentuoso con cui abbia diviso il set è Alessandro Haber. Haber è un attore straziante, anche umanamente. Uno che ogni sera si uccide sul palcoscenico. Da più di se stesso e non so cosa possa rimanergli dentro, proprio non lo so. Dovrebbe essere considerato molto di più di quel che accade, anche se ha il suo carattere e lavorarci non è facile. Però davanti allo straordinario, l’ordinario retrocede e subentra la riconoscenza perché Haber è un vero attore. Prima di Regalo di Natale entrò in ufficio piangendo per farmi una scenata: ‘Non mi chiami mai e voglio sapere perché!’. Allora lo feci entrare nel film a forza e scrissi un ruolo che gli somigliasse da vicino. Un’altra attrice straordinaria è Micaela Ramazzotti. Quando arriva si illumina tutto. Ha uno splendore naturale, un carisma che mi ricorda quello di Tognazzi. È qualcosa che confina con l’istinto animale.
Gli attori sono animali?
Sono pronti a tutto. Anche alle peggiori scorrettezze. Le attrici vere sanno mettere in campo aggressività e spregiudicatezza. E se si devono prendere qualcosa, se lo prendono. Nel 1968, Mariangela Melato, all’epoca sconosciuta, si presentò a un mio provino al posto di una sua amica. Avevo scelto una ragazza bionda con gli occhi azzurri che faceva la scuola del Piccolo, ma non era lei. Non so se l’abbia uccisa, ma Melato arriva al provino e dice sfacciata: ‘La mia amica non poteva e ha mandato me’. La stavo per cacciare, mi vergognavo con la troupe e cercavo le parole giuste. Poi lei disse una battuta e scatenò l’applauso. Non l’avevo mai sentita una roba così. Mariangela veniva dalla vita vera. Come Micaela. Le vedi trasmettere un’energia che non è mai finzione anche nel massimo grado di artificio. Ci sono attori che sono come una scatola di plexiglass: pensano solo a loro, riflettono la propria immagine e stanno rintanati rimirandosi il profilo. E poi ci sono quelli che creano complicità. Con loro sei al sicuro.
Quando si sente al sicuro Pupi Avati?
Quando riesco a preservare il ragazzetto che sono stato. Ci provo da una vita intera. Anche con il cinema. Non essermi fatti carico di tutti i dolori e i mali del mondo, non aver scelto una bandiera, non aver indicato con il dito il male assoluto e il bene sommo, qualche prezzo me l’ha fatto pagare. E dall’altra parte, mi ha avvantaggiato. La mia modesta identità è rimasta assolutamente incontaminata. Fisicamente sono molto invecchiato, ma per il resto sono quel che ero molti anni fa.
Ancora inadeguato?
Sempre. Ma con gli anticorpi del perenne osservatore che è ancora curioso di scoprire. Per me l’inadeguatezza è una forma di ebbrezza. Il timido sta negli angoli, ride quando ridono gli altri ed è gregario. Ma incamera informazioni, assimila la vita, frequenta un’università piena di dubbi e domande di cui quelli sicuri di sé non immaginano neanche l’esistenza. Ma impara tanto e si culla nell’illusione che prima o poi, qualcosa ti venga restituito. In fondo i miei personaggi hanno grandi sogni e aspettano tutti un risarcimento. Di un’ingiustizia, di una marginalità obbligata, delle loro sfighe.
Lei al cinema ha raccontato se stesso…
Mi sono accorto, sarà stato il ’78, che raccontando delle storie in prima persona e non più in terza, riuscivo a far identificare la gente. Credo di non essere oggi tanto distante da quel che mi piace raccontare anche se con l’età aumenta anche il mio senso di responsabilità nei confronti del mezzo. Se ieri evasione, divertimento e paura erano elementi sufficienti per narrare, oggi non bastano più. Adesso il progetto deve avere senso. Lasciare qualcosa. Non sono diventato moralista, ma sono un po’ preoccupato per come vanno le cose. Vedo follia diffusa. Disagi e disturbi ovunque. Auspico un ritorno al buonsenso che, mi preme dirlo, non è una parolaccia. Uno dei nostri più grandi intellettuali, Raffaele La Capria, ne ha capito la centralità e non si vergogna di dirlo. Va controcorrente, non punta il dito, è un modello. Un democratico vero. Un uomo libero. Non appartiene a nessuna moda.
Vi siete conosciuti bene?
All’inizio credevo che fosse soltanto il marito di Ilaria Occhini. Poi lessi le sue opere a partire dallo splendido L’estro quotidiano e gli scrissi una lettera di amore esagerata. Pagine di una riconoscenza infinita. Aveva tracciato la mappa dei comportamenti degli intellettuali italiani scrivendo in anticipo esattamente quello che io ho sempre pensato e non avevo mai trovato il modo di esprimere. Con sincerità assoluta. Conoscendolo, ho capito che è una magnifica persona perché assomiglia alle sue opere.
Una rarità?
Un Gronchi Rosa. Nessun regista che conosco somiglia alle proprie opere. Predicano bene. E razzolano tutti malissimo.
Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, il Fatto Quotidiano 26/4/2015