Marcello Bussi, MilanoFinanza 25/4/2015, 25 aprile 2015
Perditempo, giocatore d’azzardo, dilettante. Sono gli epiteti affibbiati dai ministri delle Finanze dell’Eurogruppo al collega greco Yanis Varoufakis nel corso della riunione tenutasi a Riga, in Lettonia, venerdì 24 aprile
Perditempo, giocatore d’azzardo, dilettante. Sono gli epiteti affibbiati dai ministri delle Finanze dell’Eurogruppo al collega greco Yanis Varoufakis nel corso della riunione tenutasi a Riga, in Lettonia, venerdì 24 aprile. Originariamente sarebbe dovuto essere l’Eurogruppo decisivo per i destini di Atene, ma già si sapeva che sarebbe diventato un incontro interlocutorio. Subito è stata fissata una nuova riunione l’11 maggio, ma il presidente dell’Eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijsselbloem, ha precisato che l’agenda è flessibile. E comunque, visto che il governo guidato da Alexis Tsipras ha prelevato la liquidità degli enti locali, Atene può tirare avanti fino alla fine di maggio. Così gli ultimatum diventano penultimatum e sembra avverarsi lo scenario prefigurato da Citigroup: il Grimbo, ovvero la Grecia nel limbo. Si assicura ad Atene il minimo indispensabile per la sopravvivenza tramite i fondi di emergenza Ela, che danno liquidità al sistema bancario, intanto si lascia cuocere Tsipras a fuoco lento, sperando che nel frattempo si disfi almeno dell’insopportabile Varoufakis. Alla fine l’incontro di Riga si è trasformato in un processo contro di lui. L’ostilità nei suoi confronti non è più limitata al tedesco Wolfgang Schaeuble, che fin dal primo incontro ha manifestato un’antipatia a livello epidermico. Poiché si parla di debiti e crediti sembrerebbero particolari folkloristici, e invece sono fondamentali per capire gli sviluppi della situazione. Perché la questione greca, più che finanziaria, è politica. Inutile illudersi che il Qe della Bce sia in grado di impedire il contagio greco. Come ha ben spiegato George Friedman, fondatore e ceo del sito americano Stratfor specializzato in analisi geopolitica, la posta in gioco è molto più alta dei soldi prestati dalla Germania alla Grecia. Basti pensare che Atene comincerà a rimborsare il grosso del malloppo all’Efsf, il Fondo salva-Stati, pari a 141,8 miliardi di euro, solo a partire dal 2023 per finire nel 2054. Si può ben dire a babbo morto. Stesso discorso vale anche per l’Italia: Roma ha concesso prestiti ad Atene, tramite l’Efsf, per 25 miliardi di euro, che rivedrà, appunto, nel 2054. L’Italia ha inoltre concesso prestiti bilaterali per 10 miliardi, che cominceranno a essere restituiti nel 2020. A fronte di questa massa di denaro che continua a esistere sulla carta, ma nei fatti è data per persa, l’Eurogruppo si impunta per delle briciole. Le prossime scadenze per la Grecia sono queste: il 1° maggio deve rimborsare al Fondo Monetario Internazionale 200 milioni di euro e 780 milioni il 12 maggio. Dando per scontato che, grazie al sequestro della liquidità degli enti locali, Atene rispetti questi impegni (depotenziando così l’Eurogruppo dell’11 maggio), si passa a giugno: entro il 19 la Grecia dovrà rimborsare al Fmi 1,5 miliardi. Che non avrà, perché ormai il fondo del barile è già stato raschiato. A giugno, quindi, Atene dovrebbe raggiungere l’accordo con l’ex Troika per poter ricevere l’ultima tranche da 7,2 miliardi del prestito complessivo da 240 miliardi ottenuto nel 2010 e nel 2012, e rispettare così le successive scadenze. Ma anche questo risolverebbe i problemi solo nel brevissimo termine. Per stare a galla nei prossimi 12-18 mesi, Atene ha bisogno di altri soldi, quindi di nuovi prestiti dall’ex Troika, che Barclays ha stimato in almeno 25-30 miliardi. Un dato paradossale è che, superato lo scoglio del 2015, dove in tutto deve rimborsare circa 28 miliardi, negli anni successivi gli oneri per Atene saranno decisamente inferiori: meno di 10 miliardi all’anno dal 2016 al 2018, poco più di 10 nel 2019, meno di 5 nel 2020 e nel 2021. E fino al 2054 la cifra annua si manterrà sotto i 10 miliardi. Insomma, se Atene la sfanga quest’anno, ce la può fare. Fino a restituire tutto il dovuto. Detta così sembra facile, ma bisogna tenere conto che l’economia ellenica è di proporzioni minuscole: il pil è di circa 215 miliardi di euro, quindi per pagare agevolmente i suoi debiti Atene deve avere un avanzo primario del 4-5%, come peraltro richiesto dall’ex Troika. Un obiettivo impossibile da raggiungere senza nuovi tagli alla spesa pubblica. Ma Tsipras ha vinto le elezioni promettendo la fine dell’austerità. Ecco perché chiede una riduzione all’1%. Da Bruxelles gli hanno più volte risposto picche. Varoufakis ha spiegato che così si cade nella «trappola dell’austerità», i cui effetti «sul settore privato minano i tassi di crescita assunti, facendo così deragliare dal percorso di bilancio previsto». C’è poi la «trappola delle riforme». Secondo Varoufakis è controproducente continuare con la cura della Troika, basata sul taglio dei salari e delle pensioni. I primi, ha sottolineato, «non aiuteranno le società orientate all’export perché queste sono impantanate in una stretta creditizia. E ulteriori tagli alle pensioni non affronteranno le vere cause dei problemi del sistema pensionistico, ovvero i bassi tassi di occupazione e le ampie dimensioni del lavoro nero». Evidentemente gli altri ministri dell’Eurogruppo non hanno gradito questa lezione, il cui messaggio è: state sbagliando tutto. Citigroup parla di Grimbo a ragion veduta: se Atene non rimborsa 600 milioni di euro al Fmi il 16 giugno, la prassi dice che deve passare un mese prima che venga ufficializzato il default. Si arriva così al 16 luglio. Nel frattempo è possibile che Tsipras indica elezioni anticipate per uscire ancora più forte dalle urne. Oppure potrebbe davvero ricevere da Mosca quei 5 miliardi di dollari di anticipo sui pagamenti cui la Grecia avrà diritto come Paese di transito del gasdotto russo-turco. In un modo o nell’altro il redde rationem, che comporterebbe l’uscita della Grecia dall’euro o la cancellazione di una quota consistente del debito ellenico (e questa sarebbe la vittoria di Varoufakis, e quindi è molto improbabile), verrebbe spostato a settembre. Da qui ad allora la Grecia vivrebbe in una sorta di limbo. Nel frattempo, visto che la partita è tutta politica e non finanziaria, Bruxelles punterebbe alla sostituzione della bestia nera Varoufakis e all’ingresso nella coalizione di governo di Nuova Democrazia, il partito dell’ex premier Antonis Samaras, fedele esecutore degli ordini della Troika. Operazione che potrebbe avere successo se alla Grecia venisse lentamente tolto l’ossigeno. E qui entra in campo Mario Draghi. Alla conferenza stampa dell’Eurogruppo il presidente della Bce ha detto che «il tempo stringe» e, vista la fragilità della situazione, l’istituto di Francoforte «potrebbe rivedere l’haircut», ovvero svaluterebbe i titoli del debito pubblico greco che le banche elleniche forniscono a garanzia della liquidità d’emergenza elargita dalla Banca centrale di Atene con il via libera della stessa Bce. In questo modo verrebbe messo in ginocchio il sistema bancario greco, che si troverebbe senza liquidità. Una decisione verrà presa dal Consiglio direttivo della Bce del 6 maggio. Alla fine è Draghi ad avere il potere di vita e di morte sulla Grecia. A meno che Atene non dichiari default e si metta a stampare dracme. E qui si arriva al ragionamento di Friedman. Dal punto di vista contabile, Eurolandia può sopportare la Grexit. Ma resta sempre l’effetto contagio, che non sarebbe a livello finanziario perché il Qe dovrebbe riuscire a neutralizzarlo, bensì politico: una Grecia capace di cavarsela nei primi mesi di ritorno alla dracma farebbe salire le chance di vittoria di Podemos alle elezioni di fine anno in Spagna. Atene, poi, imporrebbe dei dazi per proteggere le sue imprese, mettendo in discussione il dogma l’area di libero scambio che, ricorda Friedman, ha consentito alla Germania di prosperare perché la sua economia è basata sull’export. A Berlino conviene quindi il Grimbo. Ma non è detto che Tsipras glielo conceda, anche perché può sempre minacciare la Grexit. Lo aveva detto Varoufakis alla vigilia dell’Eurogruppo: la Grexit «non è un bluff». Un motivo in più, forse, che spiega perché i suoi colleghi hanno cercato di crocifiggerlo. (riproduzione riservata)