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 2015  aprile 25 Sabato calendario

Un sibilo, poi un boato. Così colpisce il Predator. Un blitz in Afghanistan seguito in diretta dal nostro inviato nel 2010 Francesco Semprini Un boato squarcia il silenzio degli altopiani brulli, una scia bianca piomba dal cielo come una meteora, seguono un’esplosione e l’odore acre della detonazione, poi di nuovo il nulla, solo il sibilo del vento che batte incessante sui villaggi semideserti

Un sibilo, poi un boato. Così colpisce il Predator. Un blitz in Afghanistan seguito in diretta dal nostro inviato nel 2010 Francesco Semprini Un boato squarcia il silenzio degli altopiani brulli, una scia bianca piomba dal cielo come una meteora, seguono un’esplosione e l’odore acre della detonazione, poi di nuovo il nulla, solo il sibilo del vento che batte incessante sui villaggi semideserti. Come avviene l’attacco di un drone? E soprattutto cosa accade in un raid condotto con un aereo senza pilota? Lo abbiamo vissuto in presa diretta nel corso di un’operazione delle truppe Usa in Afghanistan, con cui eravamo «embedded». Era il febbraio del 2010, distaccati in un fortino nella zona di Pashmul, nel cuore di Kandahar, regno del mullah Omar, i «Red Warriors», nome in codice del Primo Battaglione 12esimo Reggimento Fanteria della Mountain Division - gli alpini americani - avevano il compito di estendere il controllo di zone impervie e «ad alta concentrazione taleban». Dopo giorni di sorveglianza, informative, soffiate e indicazioni giunte dalla «Shura», il gran consiglio dei capi villaggio, si era individuata la base di alcuni «insorti» specializzati in Ied, i famigerati ordigni rudimentali. I taleban sembrava fossero in possesso di una certa quantità di esplosivo e armi appena arrivati dal Pakistan, li avrebbero usati a breve, si doveva intervenire. A coadiuvare gli «alpini» Usa sono i canadesi, e l’Afghan National Army, dall’alto elicotteri e droni appunto. Il coordinamento con gli «unmanned vehicle» è affidato all’aviere di collegamento, un marconista dell’Air Force impiegato con le truppe di terra e in contatto con le forze aeree. Un predator lo avevamo visto solo qualche giorno prima, appena arrivati alla Kandahar Air Force Base, sembrava una cavalletta gigante stilizzata, dal muso inquietante. Il «ground zero» dell’operazione era Haj Mohj Ewadz, un complesso di villaggi nel sud di Pashmul: l’operazione in codice «caché», inizia prima dell’alba con gli appostamenti. Al sorgere del sole parte il blitz, i compound vengono messi al setaccio, gli abitanti controllati uno a uno, i bambini guardano stupiti questi «marziani» che si calano dai tetti. Le soffiate erano giuste, in alcuni soppalchi viene ritrovato il «caché» appunto, 400 serie di 155 millimetri per mitragliatrice «warhead», granate, mine, pezzi di mortaio, obici di carri armati di vecchia fabbricazione sovietica, che riempiti di esplosivo diventano Ied. E comunicati taleban, ma di loro nessuna traccia, sino a quando viene intercettata una conversazione in pashtun: «Le scimmie sono arrivate». Così vengono chiamati i soldati Usa quando scavalcano muri e si arrampicano sui tetti. Vittime innocenti I presunti «taleban» non sono lontani, le vedette individuano alcuni uomini a centinaia di metri, stanno scavando sul ciglio di una strada. «Sono loro», dice il capitano che coordina le operazioni. Raggiungerli è però impossibile, ci sono troppi impedimenti fisici, vigneti diroccati, muri, guadi e fossi. È qui che entra in scena il drone: l’aviere di collegamento comunica le coordinate, il Predator è già in quota, a comandarlo, come in un videogioco, è un maggiore dell’Air Force di base in Nevada, la più grande cabina di regia degli «unmanned». I militari si guardano: «Dieci secondi all’impatto - dice il capitano, gli altri portano le mani alle orecchie - cinque, quattro, tre, due, uno». Il boato è travolgente, un tuono esponenziale, seguito da una scia di fumo bianco tanto denso da sembrare solido, quindi l’esplosione. Di nuovo il silenzio, il vento torna a essere la colonna sonora degli altopiani insanguinati. Arriviamo sul «ground zero» con la prima unità, le immagini sono devastanti, corpi a pezzi, rantoli, brandelli di vestiti sparsi, la cosa impressionante è che nulla attorno è stato danneggiato. «Missili intelligenti», li chiamano. I feriti vengono soccorsi, alcuni caricati su elicotteri giunti sul posto, i cadaveri controllati uno a uno. Missione compiuta sembra se non fosse che tra le vittime sembrano esserci anche non-taleban, semplici abitanti dei villaggi, con cui i «bombaroli» forse si facevano scudo. Viene aperta un’inchiesta, l’esito rimane riservato, almeno sino a quando ce ne andiamo. Lasciamo Pashmul, ma con la consapevolezza che anche la guerra non convenzionale al terrore, quella della dottrina Obama, combattuta a migliaia di chilometri di distanza, come in un videogioco maledettamente reale, non avrebbe risparmiato vittime innocenti.