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 2015  aprile 24 Venerdì calendario

«DURANTE LA GUERRA SOGNAVO WIMBLEDON. CON LE SCUOLE CHIUSE POTEVO GIOCARE DI PIÙ. AVEVA RAGIONE MANDELA LO SPORT UNISCE I POPOLI E CAMBIA IL MONDO»

«DURANTE LA GUERRA SOGNAVO WIMBLEDON. CON LE SCUOLE CHIUSE POTEVO GIOCARE DI PIÙ. AVEVA RAGIONE MANDELA LO SPORT UNISCE I POPOLI E CAMBIA IL MONDO» [Intervista a Novak Djokovic] –
«E grazie di essere venuta a Montecarlo…».
La stretta di mano di Novak Djokovic, ampia e rocciosa come la montagna serba da cui proviene, sa di perseveranza, orgoglio e un pizzico (q.b., quanto basta, come nelle ricette) di marketing.
Le probabilità che questo ragazzone piovuto da Kopaonik, molta neve e un solo campo da tennis spesso inutilizzabile, cresciuto a Belgrado sotto i bombardamenti Nato e poi diventato globetrotter sfidando i proiettili della pirotecnica rivalità tra Roger Federer e Rafa Nadal, diventasse il Cristiano Ronaldo del tennis — cioè un numero uno fatto di fisico, talento e piacioneria — all’inizio di questa storia erano, diciamocelo, pochine.
E invece eccolo qua, a sfogliare il romanzo della sua vita davanti a un bicchiere d’acqua («Non gassata, per favore») e ai mega-yacht del porto di Montecarlo, dove risiede, re della classifica mondiale per un totale di 143 settimane e per chissà quanto tempo ancora, fiero possessore di otto titoli del Grande Slam (5 Australian Open, 2 Wimbledon, 1 Us Open) e di una Coppa Davis per cui la Serbia intera è scesa in piazza, più tutto il resto, papà di Stefan da appena sei mesi, multinazionale con il nome del colosso cinese Uniqlo sul petto e, in fondo, bambino mai del tutto cresciuto come tutti i grandissimi, ma proprio tutti, dello sport. E come tutti i grandissimi, e ricchissimi (77 milioni di dollari in soli prize money impilati fin qui), ha una fondazione che porta il suo nome, con cui mitigare tanta stordente abbondanza: «Costruiamo scuole e diamo istruzione ai bambini serbi meno fortunati».
Il pianeta Novak Djokovic, 28 anni il prossimo 22 maggio (segno zodiacale: gemelli), insomma, è sfaccettato e intrigante. Dalla ferrea dieta vegana a base di alghe e bacche di goji (banditi alcol, cioccolato e caffè: Nole, intollerante al glutine, è attentissimo all’alimentazione e si concede una birra gluten free in occasioni davvero speciali) alle sue amicizie italiane, dalla meditazione prima dei match ai record sul campo (nel 2011 ha vinto 41 partite consecutive e ha chiuso l’anno con il mostruoso primato di 70 vittorie e appena 6 sconfitte), dalla violenza dei colpi con cui spacca gli avversari alla dolcezza che gli accende il sorriso da furbo Joker quando parla (volentieri e a dispetto delle raccomandazioni del suo staff) dell’erede e della moglie Jelena.
Se Federer è Michelangelo e Nadal è Rocky Balboa, Djokovic potrebbe serenamente essere la stella più brillante del Cirque du Soleil. Il segno distintivo del suo tennis non è un colpo particolare ma la complessione, statuaria — 188 cm per 80 kg senza un etto di grasso superfluo — e definita come da manuali di anatomia, del suo fisico. Asciutto. Flessibile. Veloce. Instancabile. Andare al quinto set con Novak, spesso, è garanzia di suicidio.
Snodato e trasversale e molleggiato e ubiquo come lui, nessuno. E, probabilmente, mai più.
Si sveglia tutti i santi giorni con la voglia di maltrattare palline e avversari, Novak?
«Noooo… Ma alzarmi dal letto sapendo che il mestiere che faccio mi piace e che gioco a tennis con una missione, aiuta».
Qual è la missione?
«Sono ambizioso sin da ragazzino. Il sogno più grande era vincere Wimbledon e diventare numero uno del mondo. Quando ci sono riuscito, ho continuato a sognare sempre più in grande».
Detto così, sembra facile.
«La cosa più importante per me oggi è competere con gioia. Non più devo, ma piuttosto voglio. Aver cambiato punto di vista mi dà forza».
L’impressione è che all’inizio, stritolato tra due giganti, Federer e Nadal, avesse un bisogno quasi viscerale di piacere al pubblico per farsi accettare.
«Sono arrivato a scardinare un binomio enorme dello sport mondiale. Per me era importante investire energie per salire al loro piano, dialogare, far capire alla gente che anch’io ero all’altezza dei tornei dello Slam. Vengo da un piccolo Paese dell’ex Jugoslavia, la Serbia, che negli ultimi anni non ha goduto di ottima stampa: mi sono affacciato al tennis preceduto da molti pregiudizi. Volevo affermare la mia originalità senza rinunciare alla mia personalità: ecco il perché delle imitazioni, delle parrucche, delle gag con il pubblico. Ma a un certo punto ho detto basta. Era una commedia, è finita».
La sua prima maestra, Jelena Gencic, leggenda serba, scoprì anche Monica Seles. Da che parte sta nelle polemiche sulle donne (Amelie Mauresmo) che allenano gli uomini (Andy Murray)?
«Non sono contrario a prescindere. Le fondamenta di ciò che so fare in campo le devo proprio a una donna, che porto nel cuore. La gente parla, c’è libertà di pensiero. Io la lascio parlare ma non vedo dove sta il problema. E per quanto mi riguarda dico: mai dire mai».
Il Roland Garros, a Parigi a fine maggio, è l’unico Slam che le manca. È un’ambizione o piuttosto un’ossessione?
«Ci penso, è ovvio. Ci provo da anni: sbancare il Roland Garros sarebbe una delle mie più grandi vittorie. Devo crescere. Devo coltivare buone sensazioni e fiducia. Devo credere di più in me stesso. E poi Rafa Nadal a Parigi, dove ha vinto nove volte perdendo appena un match in dieci anni, ha sempre qualcosa in più. Se l’hanno soprannominato il re della terra battuta, c’è un motivo».
Meglio tenere in braccio la Coppa Davis o il piccolo Stefan?
«Glielo giuro: ignoravo di contenere la possibilità di amare tanto una creatura. Nell’ottobre dell’anno scorso ho passato cinque giorni in ospedale con Jelena durante i quali non ho pensato a niente. Tutti i pensieri nella mia testa, alla vigilia del parto, erano spariti. Momenti di serenità incredibile. Il mio piccolo angelo ha dato un nuovo scopo alla mia vita: è ancora troppo piccolo ma non vedo l’ora di prenderlo per mano e portarlo in giro con me, per spiegargli il mondo».
Solo quello del tennis?
«Beh, è l’ambiente che conosco meglio. Stefan sarà libero di scegliere se impugnare la racchetta o no senza forzature da parte mia, però di certo gli trasmetterò il mio amore per questo sport».
Perché proprio il tennis?
«I miei genitori, Srdan e Dijana, sono ex sciatori. Sulla montagna di Kopaonik gestivano una pizzeria. Nel 1991, quando avevo quattro anni, accanto al ristorante costruirono un campo. Mi piace lo sci, però con il tennis è stato amore a prima vista. E poi aveva ragione Nelson Mandela quando diceva che lo sport ha il potere di cambiare il mondo e avvicinare i popoli. Credo sia la migliore definizione mai data. Nello sport non ci sono barriere: su un campo da tennis siamo tutti uguali e vince sempre il migliore».
A chi somiglia Stefan?
«È tutto mia moglie. Meglio così!».
È vero che lo scorso gennaio, in collegamento su Face Time da Melbourne, Stefan l’ha riconosciuta per la prima volta sullo schermo?
«Quando ha sentito la mia voce, si è voltato e ha sorriso. È stato un momento semplicemente fenomenale!».
Di più: una rivoluzione copernicana.
«Davvero… Fino all’anno scorso il tennis era tutto ciò su cui volevo concentrare la mia attenzione, il mio tempo, le mie energie fisiche e mentali. La motivazione non è cambiata, però è mutata la mia filosofia di vita. Oggi non gioco più solo per me stesso. Oggi ho un modo diverso di vedere le cose, e di capirle».
Allenarsi sotto le bombe durante la guerra del Kosovo non deve essere stato facile.
«Nel 1999 ogni notte, per due mesi, fummo svegliati dalle sirene. Uscivamo di corsa dall’appartamento di Belgrado e ci rifugiavamo in cantina. Con l’ingenuità del bambino che ero, trovai il lato positivo di quella situazione: la scuola era chiusa e potevo giocare a tennis quanto volevo. La guerra ci diede una dimensione più forte di nazione, ci unì come popolo».
Al suo angolo, dal 2014, c’è un altro guerriero: Boris Becker. Cosa vi scambiate? Cosa riceve e cosa gli dà?
«C’è una sinergia tra di noi, quasi una magia. Boris è stato nei miei panni: ha vinto sei Slam, è stato a lungo numero uno del mondo, è diventato padre a 27 anni. Ha percorso il sentiero su cui sto camminando, ai suoi tempi, prima di me».
Quando nel 1995 Becker vinceva Wimbledon giovanissimo, a 17 anni e 227 giorni, lei ne aveva appena otto.
«Infatti non ho ricordi della sua finale con Kevin Curren. Non gli ho chiesto di darmi il suo passato, gli ho chiesto di trasmettermi il suo carisma. Alla fine del 2013, un anno difficile, persi la vetta del ranking mondiale in favore di Nadal. Mi serviva nuova linfa vitale. Lo contattai. Lui, che non aveva mai allenato, si prese tempo per pensarci. Ha detto sì, poi mi ha studiato per qualche mese: i miei orari, le mie abitudini, la mia routine, cosa penso, come mi comporto… Oggi che è il mio coach da un anno e quattro mesi, mi capisce al volo».
Telepatia?
«Quasi. Non esagero se dico che in certi momenti topici dei match importanti, quelli in cui essere freddi o avere il braccio che trema può decidere un titolo Slam, è nella mia testa. Nell’ultima finale dell’Australian Open contro Murray, per esempio, Boris è stato importantissimo. Mi basta sapere che lui è lì, in tribuna, a guardarmi: un sostegno morale fondamentale».
Da fanatico della dieta, confessi: quando è stata l’ultima volta che ha mangiato il cioccolato?
«Nel 2012, a Melbourne, nella finale dell’Australian Open sconfissi Nadal in una partita che durò quasi sei ore. Nello spogliatoio, dopo, mi sono concesso tre quadretti di cioccolato fondente della grandezza del mio pollice. Meritavo una gratificazione. Servono circostanze davvero eccezionali, però, perché io infranga il mio regime alimentare».
Dove tiene trofei e coppe?
«Una parte, soprattutto quelle vinte da ragazzino, sono a casa dei miei. Quelle degli ultimi dieci anni sono in una sala del circolo tennis che abbiamo a Belgrado».
Diventeranno mai un piccolo o grande museo Djokovic?
«Mmmmm… È un’idea. Di certo il piatto di Wimbledon 2011, il mio primo grande successo sull’erba, finirà nel salotto di Jelena Gencic, scomparsa nel 2013. Solo chi è serbo può capire cosa la mia prima maestra abbia significato per il nostro sport. C’è un progetto per trasformare la sua casa in un museo. Non smetterò mai di esserle grato per avermi scoperto, incoraggiato e fatto capire, già da bambino, che avevo le doti del tennista di vertice».
È vero che uno dei suoi idoli da ragazzino era Alberto Tomba?
«Tomba la bomba! Un mito! Come lui, nello sci, non ci sarà mai più nessuno. Papà era innamorato perso di Albertone. Tutta la famiglia Djokovic si riuniva davanti alla tv per vedere le sue gare. Facevamo un tifo indiavolato. Uno dei sogni della mia vita è ritrovarmi con Tomba in cima alla montagna di Kopaonik, dove sono cresciuto, e scendere in slalom insieme a lui. L’adrenalina di una discesa con gli sci me la ricordo bene: nemmeno il match point di una finale Slam regge il confronto».
Addirittura. E il suo amico Fiorello, lo sente ancora?
«Grande Fiore! Non lo incontro da una vita… Andai a trovarlo in teatro, a Roma, e poi sul palco in un programma della vostra televisione. Lui ricambiò il favore venendo a vedermi giocare agli Internazionali d’Italia del Foro Italico. L’ultima volta gli ho mandato un messaggio dopo il suo incidente in scooter: era molto giù. Fiore è un fenomeno, in tutte le cose che fa».
Sua moglie Jelena ha studiato alla Bocconi di Milano, lei è stato allenato in passato da Riccardo Piatti. Il suo rapporto con l’Italia, tifo per il Milan incluso, è molto stretto.
«Italiani e serbi, come mentalità, secondo me si somigliano. Ecco perché da voi mi trovo bene. In Italia ho fatto i primi tornei e le vacanze: Roma è unica, Firenze bellissima, il Lago di Como meraviglioso. Avete mare e montagne, cibo, sole, arte e tradizione. Vorrei parlare meglio la lingua: sbaglio spesso però mi faccio capire».
A proposito di lingue straniere: oltre a parlarne cinque, studia anche il Mandarino?
«Non lo studio, lo mastico: so dire due o tre frasi, quelle che servono per la sopravvivenza. Sono utili per il mercato cinese» (ride).
A chi sente di dover dire grazie, fin qui?
«Alla mia famiglia: la mia forza viene da loro e dalle radici che ho in Serbia, anche se sono un giramondo. A mia moglie per la dedizione con cui si occupa di Stefan, permettendomi di fare ciò che a me più piace e viene meglio: giocare a tennis. Alla mia volontà: non è facile rimanere concentrati al cento per cento, tutta la stagione».
Il prossimo obiettivo?
«Vincere più Slam e più Master possibile. Restare al top. Prolungare a lungo questo stato di grazia».
Pensa che un giorno riuscirà a sorpassare Federer e Nadal?
«Giocano da più tempo. Io devo ancora arrivare al loro livello».
Lei quanto andrà avanti?
«Cinque o sei anni di sicuro: me li sento nelle gambe».
E poi?
«Rivediamoci più avanti, quando sarà il momento: le dispiace?».