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 2015  aprile 24 Venerdì calendario

YARA, CRIMINI E MISFATTI

Una famiglia normale come ce ne sono tante, riassume il carabiniere di lungo corso, uno dei protagonisti dell’inchiesta. Dove la "famiglia normale" non è quella sobria e discreta della vittima, Yara Gambirasio. Ma quella del presunto assassino, Massimo Bossetti. E per accettare la definizione bisogna fare lo sforzo di guardare allo specchio l’Italia così com’è, non come ce la raccontiamo mondata dai suoi abissi e dalle sue ipocrisie. Come esce, del resto, dalle carte di un processo (udienza preliminare il 27 aprile) che sono lo spaccato sociologico implacabile della nostra contemporaneità. Non aveva tanta ambizione, probabilmente, il pm Letizia Ruggeri, che per mestiere inseguiva soltanto un assassino ma che, tassello dopo tassello, ha costruito la radiografia più impietosa e reale della nostra post-modernità. Non sarebbe stato possibile prima del Dna, delle intercettazioni telefoniche e ambientali, delle fatture elettroniche, della tecnologia capace di inchiodare alle proprie bugie e alle proprie meschinità. Che ci sono sempre state e sulle quali, ora, si squarciano i veli. In attesa della verità giudiziaria, c’è questa tragicommedia umana da raccontare. Se possibile con compassione, nel senso latino.

Massimo Bossetti, "Il Favola"
Lo scenario è la provincia di Bergamo, ma potrebbe essere dovunque. Massimo Bossetti, 44 anni, muratore, di Mapello, è il sospetto omicida. C’è il suo Dna sugli slip e i leggings di Yara, 13 anni, scomparsa la sera del 26 novembre 2010 all’uscita dalla palestra di Brembate Sopra, ritrovata morta il 26 febbraio successivo in un campo di Chignolo d’Isola. Non ha subito violenza, è stata ferita con un’arma da taglio ma è morta "per ipotermia e per gli effetti combinati delle lesioni da arma bianca e contusiva". Bossetti si proclama innocente. Lancia a più riprese sospetti nei confronti di un conoscente. Invano. Il muratore è un personaggio pirandelliano, da "Uno, nessuno, centomila". Ora riservato, ora esuberante. Padre di famiglia modello eppure con qualche vizietto. Lavoratore instancabile e spesso assente ingiustificato. Nei cantieri lo chiamano "Il Favola" per l’infinita serie di bugie. La più clamorosa quando si inventa un tumore al cervello per chiedere permessi. Condendo con lacrime la sua finta malattia. Si giustificherà durante i colloqui in carcere con la moglie Marita Comi, 40 anni: «Lo facevo per scappare a fare altri lavori e portare i soldi a casa». I "solc", i soldi in bergamasco, pensa siano l’argomento persuasivo per una donna che ha tre figli da allevare, è sensibile alla cassa e con l’incubo di trovarsi in difficoltà (però troveranno sul loro conto più di 32 mila euro). Le ha nascosto anche delle innocenti evasioni a un centro estetico dove si sottoponeva a lampade abbronzanti. Lei: «Ma spendevi cento euro a settimana?!». «Pochi euro, Marita, pochi. E ci sono andato raramente, giuro». Debolezze da gagà di provincia, come si diceva un tempo. Sempre curato peraltro, anche vestito da edile, pantaloni lunghi che fosse estate o inverno, spesso dal barbiere. Uno che ci teneva al fisico e con quegli occhi chiari, penetranti, coi quali sapeva di poter sedurre. Come quella volta che diede appuntamento a una sconosciuta nel parcheggio del cimitero per venderle una cornice. Le offrì un mestiere da segretaria che lei rifiutò perché ne aveva già uno: «Ma mia sorella è disoccupata». E Massimo: «È carina come te?». «Lasciamo perdere».
Della moglie era ed è innamorato. Con quella sottile sudditanza, si evince, che Dostoevskij avrebbe così chiosato: «Aveva un tal timore di lei che l’amava persino». Provocatoriamente arrabbiato, in una sola circostanza, perché nel momento dell’estremo bisogno «la moglie non trova un alibi per il marito». E sarebbe stato difficile per Marita affermare con certezza, quattro anni dopo, «sì il 26 novembre era sicuramente a casa», dopo aver proclamato che le loro sere erano tutte uguali nella rassicurante monotonia di un tran-tran senza concessioni all’imprevisto. Perché Marita Comi ha soggezione dell’autorità costituita, insiste con Massimo «bisogna dire la verità», conosce con lucida freddezza terragna i meccanismi della legge che possono stritolare se non li maneggi con cura. Pur se rispetta il suo ruolo in tragedia. Va in televisione a difendere strenuamente il padre dei suoi figli: «Credo nella sua innocenza». Una convinzione che vacilla, nei colloqui a tu per tu nel parlatorio, quando sa di essere intercettata eppur se ne dimentica per l’urgenza di sapere che le sgorga dal petto, incontenibile.

I dubbi di Marita
Marita non insiste tanto sul Dna, che sarebbe la prova regina, ha accettato che possa essere stato "trasportato" da qualcun altro sul corpo di Yara: quella è genetica, un meccanismo che le sfugge. Però non si dà pace per dettagli di elementare banalità per cui non trova spiegazione logica. Come l’andirivieni del furgone di Massimo, sul luogo del delitto, documentato dalle telecamere accese dovunque perché si sa che i nostri paesi sono illuminati come in un Grande Fratello: «Riesci a girare lì... almeno tre quarti d’ora! È tanto! Hai capito, non puoi girare lì tre quarti d’ora così... a meno che non aspettavi qualcuno». Perché per lei il meccanismo è lineare. Il marito finisce l’orario di lavoro, passa per Brembate Sopra per rientrare a casa. Una volta. Non per tre quarti d’ora. E lui, figlio di una generazione che si è sciroppata i telefilm di Csi e dei Ris, che conosce come vanno le storie, si difende: «Le foto, voglio vedere le foto, mi portino le foto». Preoccupato che si veda la targa o lui stesso al volante. Ma fa buio alle 7 di sera di novembre. Né targa né persona. Oppure invoca l’avvocato Claudio Salvagni: «Mi tirerà fuori di qui». Ed è per questo, nell’ipotesi accusatoria, che resiste. Non c’è confessione, non c’è arma del delitto, non c’è movente, neanche sessuale perché «quella ragazza non è stata violentata». Ci penserà Salvagni, non fa un passo senza di lui, lo consulta persino per chiedere se è opportuno che prenda un libro dalla biblioteca del penitenziario, per qualsiasi "domandina" debba inoltrare all’autorità carceraria. Nella sua fede cieca, Salvagni è l’Azzeccagarbugli che conosce gli espedienti. Fidarsi di lui, e basta.
A Marita non basta. Yara è il caso che ha scosso la comunità. Con un impatto, nella Bergamasca e fatte le proporzioni, come quello del sequestro Moro. Tutti ricordano dove fossero quando seppero che lo statista fu rapito dalle Brigate rosse. Nel suo lungo e tormentato rovistare nella memoria realizza all’improvviso che Massimo non le ha mai detto dove era quella sera. Eppure, a essere benevoli, è passato nel punto esatto dove Yara è scomparsa. Lo incalza: «Non ho mai saputo cosa hai fatto quella sera... eri lì quella sera!... non mi ricordo l’ora che sei venuto a casa, non mi ricordo neanche cosa hai fatto». Rievoca un discorso alla presenza di Agostino, suo fratello: «L’Agostino diceva, io ero qui, ho fatto questo e quello. E io ti ho chiesto: tu dov’eri? Non mi hai risposto! Non mi hai risposto». Bossetti farfuglia, si trincera dietro dei «non ricordo», lei gli fa notare che però si ricordava benissimo che gli si era scaricato il telefono. Contraddizioni. Finché esausta quasi lo implora: «Se c’è qualcosa dimmelo adesso, ti prego».

La famiglia normale
Nella "famiglia normale" degli anni Dieci del nuovo millennio ciascuno ha i suoi segreti, grandi o piccoli. Massimo Bossetti ha dipinto a tinte rosa il rapporto con la moglie, fatti salvi gli screzi ordinari che ciascuno può documentare. La cena insieme, la spesa al centro commerciale, i figli, le vacanze. Una buona vita sessuale, compresa la visione condivisa di siti pornografici, tipo "youporn", gli acquisti birichini al sexy shop. Gli inquirenti vogliono però scoprire se si nasconde qualcosa dietro l’idillio, una crepa, un’insoddisfazione una deviazione che giustifichi ciò che credono Massimo abbia fatto. Ma non sono tanto i due amanti di Marita a solleticare la loro attenzione. Nemmeno le ricerche della donna attraverso Google di "sesso di gruppo", "sesso con animali", quanto altre interrogazioni del motore di Internet come "ragazzine con vagine rasate" e "ragazzine rosse tredicenni per sesso" compiute, secondo l’accusa, in giorni e orari in cui l’indagato poteva trovarsi in casa. Lui giura di non essere stato e oltre non si va. Ma certo è un punto interrogativo che andrà sciolto al dibattimento. Dove invece ci sarà assai poco da discutere su chi sia il padre biologico di Massimo a meno di mettere in dubbio ciò che la scienza avvalora al 99,9 per cento.
Accanto al campo di Chignolo d’Isola dove il cadavere di Yara è stato ritrovato c’è la discoteca "Sabbie mobili". Quando ancora si "brancolava nel buio" si decise di sottoporre all’esame del Dna i frequentatori del locale. Fortuna ha voluto che un avventore, Damiano Guerinoni, oggi 25 anni, mostrasse una certa compatibilità col Dna trovato sul corpo della ragazza (e catalogato come "Ignoto 1"). Damiano non era, qualche suo consanguineo sì. Attraverso l’archivio storico della parrocchia di Gorno, Valle Seriana, area d’origine dei Guerinoni, partendo dal 1719, quasi tre secoli fa, si è ottenuta una genealogia completa composta in totale da 1334 persone, da cui sono stati estrapolati 70 discendenti diretti di sesso maschile, 23 dei quali viventi. Fino a identificare in Giuseppe, conducente di autobus, scomparso nel 1999, il padre di "Ignoto 1". Che però non è nessuno dei figli legittimi del Guerinoni. Dunque il presunto killer doveva essere un figlio illegittimo e bisognava identificare la genitrice poi risultata essere Ester Arzuffi, 68 anni, madre appunto di Massimo Bossetti e della gemella Laura. Ester non ha mai confessato quel rapporto extraconiugale nonostante le provette di laboratorio la inchiodino al suo profilo adultero. E se questo ulteriore dettaglio da "Dynasty" non vi sembra da "famiglia normale" basta riandare alle parole del nostro carabiniere di lungo corso: «Sapete nell’ambito dell’inchiesta quanti casi simili abbiamo trovato? Innumerevoli». E c’è di più, anche Fabio, 40 anni, fratello minore di Massimo e Laura, non è figlio di Giovanni Bossetti, colui che ha sempre considerato suo padre.

Le donne dominanti
Ester porta ancora i tratti di un’antica bellezza. Ha il piglio risoluto di chi in casa è abituato a comandare. E a imporre ai congiunti la sua visione «perché lo dico io». Nelle intercettazioni taglia corto senza ammettere repliche: «La scienza si sbaglia». Le chiacchiere su di lei, nel suo paese, Terno d’Isola, si sprecano. Nessuna obiezione la turba, o almeno questa è l’apparenza. Avesse ragione la pm Ruggeri, sarebbe l’unica ad aver saputo e da molto tempo. Sospette sono le telefonate con Massimo in momenti topici, il giorno del ritrovamento di Yara, il giorno in cui è stata sottoposta al tampone per il Dna. «Non ci credo che il Massimo abbia fatto una cosa simile», è il suo ritornello. Come in tutte le "famiglie normali" che si rispettino si è fatta una nemica, la nuora Marita, che fin dal principio l’ha implorata con la stessa frase rivolta al marito: «Me lo dica adesso... salta fuori dopo, è stata insieme al Guerinoni?». Ester non l’ha detto. Le due donne dominanti, ciascuna a modo suo, reggono l’architettura di una casa terremotata illudendosi di tenerla in piedi. C’è una terza donna che vorrebbe dare una mano. È Laura, la sorella di Massimo. Ha sporto denunce per le aggressioni che avrebbe subito da sconosciuti autocertificandosi come capro espiatorio della sciagura abbattutasi sui congiunti. Gli inquirenti non le credono. E nel caso saremmo nello psichiatrico.
In questa tragicommedia perdono tutti in qualche modo. Per primi i parenti di Yara. Poi i Bossetti, nessuno escluso. Perché alla morte non c’è rimedio, ma chi si sopravvive porta il fardello di verità che si possono anche non confessare mai però dentro lavorano. Ed è impossibile scriversi addosso la parola fine. Come se fosse una fiction tv.