varie, 24 aprile 2015
PALLINATO SUI DRONI PER IL FOGLIO DEI FOGLI
[in lavorazione] -
«Questi figli di puttana stanno uccidendo degli americani, ne ho abbastanza». George W. Bush si rivolse così nel 2001 al responsabile dell’intelligence, il generale Michael Hayden. I droni americani iniziarono quindi a colpire i talebani nell’area tribale pachistana e da allora non si sono più fermati. Anzi, da quando alla Casa Bianca è entrato Barack Obama i numeri dei raid sono aumentati [Guido Olimpio, Corriere della Sera 24/4].
La «quasi certezza»: è questo che la Casa Bianca pretende per dar via libera ai droni Predator B e ai loro missili Hellfire. E quando si uccidono le persone sbagliate, ha detto giovedì scorso Obama, è perché «nella nebbia della guerra al terrorismo si possono compiere errori, a volte mortali». Errori che uccidono occidentali come Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein, morti il 15 gennaio scorso in Pakistan, mentre erano prigionieri di al Qaida [Giampaolo Cadalanu, la Repubblica 24/4].
Il punto è che in alcune zone del mondo, tra cui il Pakistan, la Casa Bianca permette alla Cia di compiere attacchi coi droni senza necessariamente conoscere l’identità degli obiettivi da colpire, ma solo sulla base di «comportamenti sospetti» e ripetuti indicati dalla Cia (li chiamano «signature strikes»). Gli Stati Uniti compiono questi attacchi al di fuori del mandato delle Nazioni Unite e con la collaborazione dei governi locali. L’attacco del 15 gennaio, ha scritto il New York Times, è stato uno di questi [il Post 24/4].
«Inutile stupirsi: da sempre sappiamo che le morti accidentali sono una conseguenza implicita e drammatica negli attacchi dei droni. Ma il tema per noi, oggi, diventa un altro: vale la pena di continuare a insistere con gli americani per armare i droni che abbiamo in dotazione? E anche se questa autorizzazione ci fosse, sarebbe consigliabile usare i Predator B per colpire possibili obiettivi terroristici in Libia? O peggio, come ha suggerito qualcuno, per distruggere i barconi dei trafficanti di vite umane prima che siano imbarcati?» (Mario Platero) [Mario Platero, Il Sole 24 Ore 24/4].
Fa notare Paolo Valentino che «l’ipotesi di usare i droni per colpire e affondare i barconi dei trafficanti di esseri umani è solo una chiacchiera inutile e illusoria. Non solo e non tanto perché in questo momento all’Italia (come a quasi tutti i grandi Paesi dell’Ue, con l’eccezione del Regno Unito) manca la tecnologia necessaria per armare i sei Predator B, anche detti Reaper, a disposizione delle nostre Forze Armate. Quanto perché, anche nell’ipotesi impossibile che gli Usa ci dessero domani il know-how per renderli letali, “occorrerebbero da sei mesi a un anno per applicarlo e avere un embrione di capacità operativa”, dicono autorevoli fonti militari» [Paolo Valentino, Corriere della Sera 23/4].
La campagna dei droni è cominciata ufficialmente il 17 settembre 2001, quando Bush firmò il Memorandum of Notification per giustificare il loro uso. In base al National Security Act del 1947, un presidente può autorizzare operazioni segrete, a patto che non violino la Costituzione e siano necessarie per garantire la sicurezza nazionale. Un semplice paragrafo di quel testo consentiva di prendere di mira i membri di al Qaeda e i loro alleati, e su di esso si è basata l’intera operazione droni [Paolo Mastrolilli, La Stampa 24/4].
All’inizio il cuore delle operazioni era un luogo nel deserto del Nevada, la base di Creech a Indian Springs, vicino a una vecchia riserva di nativi e adun carcere di massima sicurezza. Guido Olimpio: «L’abbiamo visitata nel 2008 quando era ancora aperta ai media. Abbiamo visto i Predator in addestramento e parlato con i piloti, al loro fianco gli addetti alle armi. Alcuni davvero giovani, chiamati a premere il pulsante di “fuoco” per centrare l’auto dei militanti a migliaia di chilometri di distanza dal loro cubicolo. Li chiamano i pendolari della guerra, perché molti arrivano ogni giorno in bus da Las Vegas, dove vivono e dove ritornano, finito il turno» [Guido Olimpio, Corriere della Sera 24/4].
Paolo Mastrolilli: «In teoria, è il lavoro più facile della guerra. Arrivi quando è il tuo turno, stai seduto al sicuro, spari, e in genere torni a casa in tempo per la cena. La realtà è molto diversa, però. Negli ultimi tempi si sono moltiplicati gli studi che denunciano gravi casi di Post traumatic stress disorder anche per questi guerrieri del telecomando: sensi di colpa, stress, la difficile condizione di dispensare la morte a distanza. Fino a quando poi capitano gli errori, le trappole o gli incidenti, e la mattina dopo scopri di aver ucciso un amico» [Paolo Mastrolilli, La Stampa 24/4].
Un senatore americano si è lasciato scappare che le macchine volanti hanno ucciso 5 mila persone, compresi 64 elementi di spicco del terrorismo. Insieme a loro un buon numero sono civili. Associazioni per i diritti umani o indagini giornalistiche ritengono che siano molti di più [Guido Olimpio, Corriere della Sera 24/4].
Dai dati raccolti dal Bureau of Investigative Journalism l’amministrazione Obama ha quasi decuplicato gli attacchi con droni rispetto all’amministrazione Bush. Complessivamente con Obama ci sono stati quasi 500 attacchi (l’ultimo dato disponibile parla di 456) [Mario Platero, Il Sole 24 Ore 24/4].
Il numero ufficiale disponibile riferisce di 437 vittime civili, spesso bambini, donne, vecchi negli anni di Obama. Gli attacchi negli anni di Bush sono stati 52 con l’uccisione di 467 obiettivi ma anche di 167 civili [Mario Platero, Il Sole 24 Ore 24/4].
Secondo un rapporto del centro britannico per i diritti umani Reprieve, per inseguire i 41 super-ricercati della “lista da eliminare”, a partire dal mullah Omar e Ayman al Zawahiri, i droni Usa hanno già ucciso 1.147 persone. Il Bureau of Investigative Journalism fornisce bilanci impressionanti, con il Pakistan al centro dell’offensiva americana (quasi 4mila vittime, un migliaio i civili), poi lo Yemen (un migliaio di vittime, un centinaio i civili), la Somalia e l’Afghanistan [Giampaolo Cadalanu, la Repubblica 24/4].
Le missioni cerca e distruggi sono affidate al tandem Us Air Force/intelligence. Quasi 700 velivoli, compresi gli 80 a disposizione della Cia. Attorno un network di supporto con il ruolo fondamentale del DGS 1, le unità che ricevono i video registrati dalle telecamere sui Reaper, le esaminano e poi aiutano a preparare le liste dei bersagli. Al fianco dei piloti siedono ufficiali dello spionaggio che verificano i dati, consultano i loro colleghi, quindi attendono un ordine dal capo dell’antiterrorismo della «compagnia», che deve essere rintracciabile 24 ore al giorno [Guido Olimpio, Corriere della Sera 24/4].
Nel 2014 i soli droni militari americani hanno registrato 369.913 ore di volo [Guido Olimpio, Corriere della Sera 24/4].
I Reaper, lunghi 11 metri con apertura alare di 20. Costano al Pentagono circa 10 milioni di dollari a esemplare [Riccardo Staglianò, il Venerdì 20/2].
L’Italia possiede dodici droni, sei Predator di prima generazione e altrettanti nella versione Reaper, acquistati tra il 2009 e il 2011 e tutti usati per sorveglianza e ricognizione. Tra Afghanistan, Kosovo e normale manutenzione, solo un paio sono operativi in Nord Africa. Nel 2011 il nostro Paese ha avviato le procedure per ottenere dagli Usa l’autorizzazione (cioè la tecnologia) ad armare i Reaper di missili. La decisione spetta a una Commissione del Senato americano, che non l’ha ancora presa. I nostri governi non hanno insistito più di tanto: non c’erano ragioni di urgenza e c’erano ovviamente problemi di costo [Paolo Valentino, Corriere della Sera 23/4].
Giampaolo Cadalanu: «Più che un problema di droni, è una questione di scelte strategiche: colpire dall’alto – che sia dai Predator o da un cacciabombardiere – permette di ridurre o annullare del tutto le perdite, ma allo stesso tempo diminuisce la capacità di controllare quello che avviene sul terreno. In altre parole, dalla loro postazione lontana, magari in una base Usa, i piloti non hanno nessuna certezza di attaccare davvero miliziani di al Qaeda o Taliban. Quello che conta è dunque la capacità di intelligence, cioè la raccolta di informazioni prima dell’attacco e a volte anche l’indicazione degli obiettivi in “tempo reale”, cioè con elementi delle truppe speciali infiltrati che “illuminano” l’obiettivo da colpire con speciali laser» [Giampaolo Cadalanu, la Repubblica 24/4].
Prendiamo il caso di al Zawahiri: il 13 gennaio del 2006 Obama autorizza l’attacco vicino a un villaggio chiamato Dandola, in Pakistan, per colpire il terrorista. L’attacco viene autorizzato di nuovo dopo il che il primo fallì. L’intelligence si diceva sicura della località dell’obiettivo. Ma al Zawahiri sfuggì di nuovo. Al posto suo, nei due raid sono morti 72 bambini e 49 adulti [Mario Platero, Il Sole 24 Ore 24/4].
I droni che operano in Pakistan partono da una base nell’Afganistan orientale – con l’autorizzazione e sotto il controllo del governo afghano – e volano sopra quelli che si ritengono essere i complessi in cui si rifugiano i qaidisti. Raccolgono informazioni anche per diverse settimane, e vengono guidati verso un attacco dopo assicurazioni ritenute sufficienti che non siano presenti civili nell’area. Nell’attacco del 15 gennaio, ha detto l’amministrazione americana, la Cia aveva raccolto informazioni per sostenere che il complesso nella valle Shawal appartenesse ad al Qaida: i dati raccolti durante settimane di sorveglianza, inoltre, non avevano mostrato segni della presenza di ostaggi. Gli americani hanno scoperto di avere ucciso i due ostaggi solo quando hanno visto dalle immagini riprese ancora da droni che c’erano due corpi in più oltre ai quattro obiettivi individuati inizialmente [il Post 24/4].
Daniele Raineri: «La campagna americana con i droni contro i terroristi è considerata una debolezza dell’Amministrazione Obama perché ci sono questioni irrisolte sulle morti di civili sotto i missili e sull’effetto controproducente dei bombardamenti, che tra le altre cose creano nuove reclute per i gruppi estremisti. Il presidente nel maggio 2013 ha fatto un lungo discorso per spiegare e giustificare l’uso dei droni. Da allora, secondo indiscrezioni, si pensa a trasferire al Pentagono le campagne con i droni, quindi togliendole alla Cia che può agire con meno responsabilità grazie al suo profilo più segreto. Proprio per questo motivo, da un anno i bombardamenti americani in Somalia sono stati affidati in via sperimentale ai militari. Nell’ambito di questo cambiamento (o forse per un altro motivo?) il capo del programma droni della Cia in Pakistan, un convertito all’islam che ha fama di essere un entusiasta degli attacchi con i droni, è stato rimosso dall’incarico a marzo» [Daniele Raineri, Il Foglio 24/4].