varie, 24 aprile 2015
APPUNTI SUI DRONI PER IL FOGLIO DEI FOGLI
PAOLO MASTROLILLI, LA STAMPA 24/4 –
Una fonte di intelligence descrive così l’attacco tipo, come quello che ha ucciso Giovanni Lo Porto: «Gli analisti dei servizi segreti sono sempre al lavoro per individuare i target. Quando hanno la certezza di avere un obiettivo sotto mira, chiedono l’autorizzazione a colpire. Spesso è questione di pochi minuti, o secondi. In questo caso nessuno aveva il minimo elemento per pensare che dentro a quella base ci fossero ostaggi occidentali».
È la guerra dei droni, cominciata dal presidente Bush dopo gli attentati dell’11 settembre, ma continuata, perfezionata e allargata dal successore Obama. Attacchi guidati da oltre 60 basi americane, che secondo le stime del Bureau of Investigative Journalism hanno fatto finora oltre 2.500 vittime. La giustificazione politica è che sono efficaci, risparmiano i militari che altrimenti dovrebbero andare sul terreno a cercare i nemici, e salvano più vite di quante ne sacrificano.
Primi attacchi con Bush
La campagna dei droni è cominciata il 17 settembre 2001, quando Bush ha firmato il Memorandum of Notification per giustificare il loro uso. In base al National Security Act del 1947, un presidente può autorizzare operazioni segrete, a patto che non violino la Costituzione e siano necessarie per garantire la sicurezza nazionale. Un semplice paragrafo di quel testo consentiva di prendere di mira i membri di Al Qaeda e i loro alleati, e su di esso si è basata l’intera operazione droni.
Durante l’amministrazione Bush ci furono in totale 52 attacchi, che uccisero 416 persone, di cui 167 civili. All’inizio i droni erano stati impiegati solo in Afghanistan, ma il 3 novembre del 2002 avvenne la prima operazione nello Yemen, che aprì la campagna a tutti i Paesi coinvolti nella guerra al terrorismo.
Obama ha ereditato questo programma e lo ha allargato, principalmente per due motivi: primo, è efficace nell’eliminare gli obiettivi più difficili da raggiungere, come ad esempio Anwar al Awlaki, il leader di Al Qaeda di origini americane ucciso nello Yemen; secondo, risparmia i soldati americani, evitando che vadano a morire sul terreno per cercare gli obiettivi. Bush aveva scelto la strada delle invasioni, in Afghanistan e in Iraq, che erano costate migliaia di caduti. Obama ha preferito ritirarsi, continuando però la campagna contro i terroristi usando i droni. Durante la sua amministrazione, infatti, si calcola che sia avvenuto un numero di attacchi nove volte superiore a quella precedente, concentrati soprattutto su Pakistan e Yemen. A gennaio il totale delle vittime accertate era 2.464, di cui tra 400 e 950 civili, anche se nel caso dei terroristi è sempre difficile fare questa distinzione con certezza. Da allora a oggi si è superata certamente la soglia di 2.500 morti.
L’attacco più sanguinoso registrato finora fu quello che avvenne nel giugno del 2009 in Pakistan, dove morirono almeno 60 persone. In Afghanistan una volta era stata colpita una festa di matrimonio, e le vittime civili vengono calcolate fino a un terzo del totale. Anche qui, però, le informazioni non sono mai sicure, perché i terroristi si mescolano apposta con la popolazione e alle volte si confondono con i civili, proprio per poi dare l’occasione di accusare gli americani di aver colpito degli innocenti. Esistono però casi documentati di bambini morti, come il dodicenne Mohammed Toaymen, colpito nello Yemen.
Operazioni segrete
Le operazioni sono segrete, ma gli Stati Uniti hanno almeno 64 basi da dove possono guidare i droni, come la Nellis Air Force Base del Nevada, la Holloman nel New Mexico e la Randolph in Texas. I piloti addestrati per questo genere di attività sono oltre mille, e siedono a migliaia di chilometri di distanza dai loro obiettivi. Ricevono le informazioni, vedono le immagini satellitari, e premono il grilletto. In teoria, è il lavoro più facile della guerra. Arrivi quando è il tuo turno, stai seduto al sicuro, spari, e in genere torni a casa in tempo per la cena. La realtà è molto diversa, però. Negli ultimi tempi si sono moltiplicati gli studi che denunciano gravi casi di Post traumatic stress disorder anche per questi guerrieri del telecomando: sensi di colpa, stress, la difficile condizione di dispensare la morte a distanza. Fino a quando poi capitano gli errori, le trappole o gli incidenti, e la mattina dopo scopri di aver ucciso un amico.
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GUIDO OLIMPIO, CORRIERE DELLA SERA 24/4 –
«Questi figli di puttana stanno uccidendo degli americani, ne ho abbastanza». George W. Bush non può essere più esplicito, si rivolge così al responsabile dell’intelligence Hayden. Che esegue. I droni americani inizieranno a colpire i talebani nell’area tribale pachistana senza chiedere permesso a Islamabad. E in base alle direttive i velivoli spareranno i micidiali missili Hellfire in base al ragionevole sospetto che il target sia un terrorista. Non si sono più fermati. Anzi, quando alla Casa Bianca è entrato Barack Obama i numeri dei raid affidati al «mietitore» sono aumentati. Incursioni che hanno incenerito terroristi ma anche civili, in una campagna senza limiti dall’Afghanistan allo Yemen, dalla Somalia all’Iraq.
All’inizio il cuore delle operazioni era un luogo nel deserto del Nevada. Indian Springs. Vicino ad una vecchia riserva di nativi e ad un carcere di massima sicurezza c’è la base di Creech. L’abbiamo visitata nel 2008 quando era ancora aperta ai media. Abbiamo visto i Predator in addestramento e parlato con i piloti, al loro fianco gli addetti alle armi. Alcuni davvero giovani, chiamati a premere il pulsante di «fuoco» per centrare l’auto dei militanti a migliaia di chilometri di distanza dal loro cubicolo. Li chiamano i pendolari della guerra, perché molti arrivano ogni giorno in bus da Las Vegas, dove vivono e dove ritornano, finito il turno. Protagonisti di questa nuova forma di conflitto, «sterilizzato» quanto si vuole ma che non fa sconti. Un senatore americano si è lasciato scappare che le macchine volanti hanno ucciso 5 mila persone, compresi 64 elementi di spicco del terrorismo. Insieme a loro un buon numero sono civili, come Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein. Associazioni per i diritti umani o indagini giornalistiche ritengono che siano molti di più.
Oggi Creech non è più sola. Ci sono decine di installazioni che svolgono lo stesso ruolo. In Gran Bretagna, Turchia, Arabia Saudita, Germania, Italia, a Langley, sulle rive del Potomac. Solo per citare alcuni dei punti collegati da una rete via satellite che permette agli equipaggi di restare al sicuro mentre i loro velivoli decollano da piste in vicinanza delle zone operative e rimangono sul quadrante per ore.
È qui la loro forza. Non rischi i piloti, segui un obiettivo quasi all’infinito, lo sorprendi quando esce dal rifugio. E, aspetto non da poco, puoi mandare il cacciatore in zone dove è complicato impiegare commandos o agenti segreti. Per questo il presidente americano ha trasformato l’arma in strategia. Colpendo come un fabbro. Operazioni parte di quella guerra «leggera» che prevede pochi uomini sul terreno ma tante azioni speciali. Attacchi che però dipendono dagli informatori sul terreno, coloro che confermino la presenza del nemico e non di un cittadino qualsiasi. Se manca questo il drone può sbagliare.
Le missioni cerca e distruggi sono affidate al tandem Us Air Force/intelligence. Quasi 700 velivoli, compresi gli 80 a disposizione della Cia. Attorno un network di supporto con il ruolo fondamentale del DGS 1, le unità che ricevono i video registrati dalle telecamere sui Reaper, le esaminano e poi aiutano a preparare le liste dei bersagli. Al fianco dei piloti siedono ufficiali dello spionaggio che verificano i dati, consultano i loro colleghi, quindi attendono un ordine. Dal capo dell’antiterrorismo della «compagnia», uno che deve essere rintracciabile 24 ore al giorno. È un’Armada poderosa, costantemente in azione. Non c’è giorno, non c’è notte. I dati dicono che nel 2014 i soli droni militari hanno registrato 369.913 ore di volo, parametri che misurano una parte degli oltre 500 colpi attribuiti ai terminator.
Numeri che si tramutano in un’eredità pesante. La stessa Cia, alcuni anni fa, metteva in guardia sulla tattica controproducente, perché creava rabbia nelle popolazioni e toglieva di mezzo i criminali ma, alla fine aveva, un impatto limitato sugli estremisti.
Senza contare che un giorno potrebbero chiedere conto a Obama portandolo davanti ad un tribunale. La Casa Bianca nel 2014 ha frenato sulle incursioni, 19 in Pakistan contro 122 del 2010, ma non li ha certo ha fermati. Tanto è vero che sono tornati protagonisti nell’inferno dello Yemen.
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DANIELE RAINERI, IL FOGLIO 24/4 -
Ieri la Casa Bianca ha ammesso che due ostaggi occidentali di al Qaida sono morti per sbaglio a gennaio a causa di un bombardamento di droni contro una casa del gruppo terrorista in Pakistan, vicino al confine con l’Afghanistan. Uno è Giovanni Lo Porto, un cooperante arrivato dall’Italia, rapito in Pakistan nel gennaio 2012 e cercato attivamente dall’intelligence italiana – che non abbandona mai i sequestrati all’estero. Assieme a Lo Porto è stato ucciso Warren Weinstein, un dottore americano rapito l’anno prima. Il governo americano afferma che la Cia teneva la casa bombardata sotto stretta sorveglianza, anche con osservatori a terra e specialmente nei giorni prima del bombardamento, e di avere ricevuto soltanto pochi giorni fa la conferma di avere ucciso i due ostaggi. Assieme a Lo Porto e Weinstein il bombardamento ha ucciso anche Ahmed Farooq, un leader di al Qaida con passaporto americano. In uno strike successivo un missile ha ucciso anche Adam Gadahn, un californiano che da tempo era diventato per antonomasia “il volto americano di al Qaida”, anche se non è chiaro quale fosse il suo grado all’interno dell’organizzazione. Il presidente Barack Obama ha tenuto un breve discorso per annunciare la morte dei due ostaggi “nella nebbia della guerra” – the fog of war, un modo di dire per spiegare che in guerra la comprensione delle cose è annebbiata – e per dire che “non ci sono parole per esprimere il dolore per la perdita. Mi assumo la piena responsabilità”. La notizia apre tuttavia un problema per la sua Amministrazione. Il testo della dichiarazione della Casa Bianca specifica che la Cia non conosceva né la presenza dei due ostaggi (plausibile: perché avrebbero dovuto essere visibili?) né la presenza dei due membri americani di al Qaida. Questa ricostruzione – che potrebbe essere veritiera al cento per cento – evita alla Cia e alla Casa Bianca una quantità spinosa di problemi di natura legale, perché l’uccisione deliberata di cittadini americani all’estero solleva dubbi costituzionali. Nel febbraio del 2014 un articolo del New York Times raccontò che dentro l’Amministrazione c’era un dibattito legale sulla possibilità di uccidere un membro di al Qaida nato in Texas, Abdullah al Shami, individuato fra i monti dell’Afghanistan. Nel discorso di ieri Obama non parla mai di bombardamenti con i droni, ma di generiche “operazioni antiterrorismo” e non cita la data e il luogo esatto dello strike, limitandosi a indicare “le regioni tribali tra Pakistan e Afghanistan” Se l’obiettivo del bombardamento in cui è morto Lo Porto fossero stati i militanti americani, sarebbe stato necessario un procedimento speciale di autorizzazione che a gennaio invece non è stato chiesto. Quindi anche loro erano in quel luogo all’insaputa dell’intelligence americana. Se la Cia sorvegliava così attentamente la casa come si è detto, perché adesso è costretta ad ammettere che non conosceva almeno quattro delle persone uccise nel bombardamento? E se l’intelligence ravvicinata in quell’area era così attendibile da autorizzare un bombardamento con i droni su una casa di al Qaida, perché sono stati necessari tre mesi per avere la conferma della morte dei due ostaggi? Se invece il bombardamento è stato autorizzato anche senza informazioni certe al cento per cento nella speranza di colpire un leader di alto livello, chi era questo leader? La campagna americana con i droni contro i terroristi è considerata una debolezza dell’Amministrazione Obama perché ci sono questioni irrisolte sulle morti di civili sotto i missili e sull’effetto controproducente dei bombardamenti, che tra le altre cose creano nuove reclute per i gruppi estremisti. Il presidente nel maggio 2013 ha fatto un lungo discorso per spiegare e giustificare l’uso dei droni. Da allora, secondo indiscrezioni, si pensa a trasferire al Pentagono le campagne con i droni, quindi togliendole alla Cia che può agire con meno responsabilità grazie al suo profilo più segreto. Proprio per questo motivo, da un anno i bombardamenti americani in Somalia sono stati affidati in via sperimentale ai militari. Nell’ambito di questo cambiamento (o forse per un altro motivo?) il capo del programma droni della Cia in Pakistan, un convertito all’islam che ha fama di essere un entusiasta degli attacchi con i droni, è stato rimosso dall’incarico a marzo.
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GIANANDREA GAIANI, IL SOLE 24 ORE 24/3 -
Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, le ha definite «azioni mirate» per fermare i trafficanti di esseri umani lasciando però ai militari «dire come vanno fatte queste azioni», per non svelarne i piani. «Noi siamo pronti. Speriamo che l’Europa sia, al nostro fianco, pronta come noi», ha concluso il ministro. Salvo sorprese dell’ultima ora, di Europa non pare se ne vedrà molta nelle operazioni militari che si stanno preparando contro i trafficanti libici. Gli unici pronti a menare le mani (come nel 2011 contro il regime di Gheddafi) sembrano i britannici che invieranno la nave da assalto anfibio Bulwark, con tre elicotteri e unità di forze speciali e Royal marines mentre qualche contributo navale potrebbe arrivare da Belgio e Francia.
«Dobbiamo smantellare le gang» in Libia «e stabilizzare la regione», ha detto il premier David Cameron, da sempre favorevole a risolvere la crisi con il respingimento sulla costa libica dei migranti: probabilmente l’unica soluzione in grado di scoraggiare i flussi migratori e azzerare gli incassi dei trafficanti evitando i tragici affondamenti dei barconi.
In attesa di conoscere i piani operativi pare molto probabile che la gran parte della forza europea sarà composta da navi e mezzi italiani e l’intera operazione potrebbe venire guidata dal Comando operativo interforze di Roma.
L’obiettivo, da molte fonti indicato come prioritario, di distruggere preventivamente i barconi potrebbe risultare arduo. Metterlo in atto richiederà un’intensa attività di intelligence e ricognizione, peraltro già sviluppata da tempo da Roma con l’impiego di satelliti, droni e persino sommergibili impegnati a individuare le basi e le imbarcazioni dei trafficanti.
La “flotta” dei trafficanti è composta da barconi in legno o Pvc ma anche da molti gommoni, tutte imbarcazioni facilmente occultate dai criminali. Distruggerle significa impiegare ordigni lanciati da aerei, elicotteri armati, artiglierie navali o compiere incursioni sulla costa con fanteria o forze speciali. Opzioni che non possono escludere il rischio di provocare danni collaterali anche perché i trafficanti cercheranno di nascondere le loro preziose imbarcazioni (ogni viaggio frutta centinaia di migliaia di euro) vicino a obiettivi civili o ai luoghi dove vengono alloggiati gli stessi migranti utilizzandoli come scudi umani per scoraggiare gli attacchi.
Gli stessi rischi si correrebbero impiegando i droni; mezzi che riducono i costi ma che impiegherebbero comunque missili e bombe di precisione se fossero armati. Gli statunitensi infatti hanno venduto all’Italia 12 Predator nelle versioni A e B ma non i kit di armamento, concessi finora solo ai britannici.
L’impiego di forze militari per incursioni “mordi e fuggi” sulla costa potrebbe ridurre il rischio di colpire innocenti ma comporterebbe la possibilità di coinvolgere le truppe in scontri a fuoco con potenziali perdite e richiederebbe l’approntamento di un dispositivo aereo e navale per recuperare le truppe a terra ed evacuare feriti. Molti a Bruxelles hanno paragonato la nuova missione in Libia all’Operazione Atalanta contro la pirateria somala. A parte le ampie differenze di contesto vale la pena ricordare che dopo i primi raid degli elicotteri europei per distruggere i barchini sulle spiagge i pirati minacciarono di uccidere i marinai in ostaggio e le incursioni cessarono.
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GIAMPAOLO CADALANU, LA REPUBBLICA 24/4 -
La “quasi certezza”: è questo che la Casa Bianca pretende per dar via libera ai Predator B e ai loro missili Hellfire. E quando si uccidono le persone sbagliate, ha detto ieri Barack Obama, è perché «nella nebbia della guerra al terrorismo si possono compiere errori, a volte mortali». Errori che uccidono occidentali come Giovanni Lo Porto e il suo compagno di sventura, Warren Weinstein, o che straziano ragazzi, donne, civili e in genere tutti quelli che si trovavano al momento sbagliato nel posto sbagliato, Pakistan o Yemen che sia.
Al Pentagono usano l’atroce termine “danni collaterali”, presentando cifre che tutto sommato lasciano pensare a una percentuale modestissima di civili uccisi. Ma per respingere l’idea di tollerabilità, non c’è nemmeno bisogno di affrontare problemi di principio. Il fatto è che la dottrina della Difesa Usa classifica come “elementi ostili” tutti i maschi adulti presenti sul luogo dell’attacco. Il ragionamento è: se è grande abbastanza da imbracciare un kalashnikov e frequenta amicizie sospette, dev’essere per forza un nemico.
«In realtà i cosiddetti danni collaterali sono inevitabili nelle operazioni con i velivoli a pilotaggio remoto Uav. E sono già messi in conto», dice Gianfranco Bangone, autore di La guerra al tempo dei droni, edito da Castelvecchi. Secondo un rapporto del centro britannico per i diritti umani Reprieve, per inseguire i 41 super-ricercati della “lista da eliminare”, a partire dal mullah Omar ed Ayman al Zawahiri, i droni Usa hanno già ucciso 1.147 persone. Il Bureau of Investigative Journalism fornisce bilanci impressionanti, con il Pakistan al centro dell’offensiva americana (quasi 4mila vittime, un migliaio i civili), poi lo Yemen (un migliaio di vittime, un centinaio i civili), la Somalia e l’Afghanistan.
Più che un problema di droni, è una questione di scelte strategiche: colpire dall’alto – che sia dai Predator o da un cacciabombardiere – permette di ridurre o annullare del tutto le perdite, ma allo stesso tempo diminuisce la capacità di controllare quello che avviene sul terreno. In altre parole, dalla loro postazione lontana, magari in una base Usa, i piloti non hanno nessuna certezza di attaccare davvero miliziani di Al Qaeda o Taliban. Quello che conta è dunque la capacità di intelligence, cioè la raccolta di informazioni prima dell’attacco e a volte anche l’indicazione degli obiettivi in “tempo reale”, cioè con elementi delle truppe speciali infiltrati che “illuminano” l’obiettivo da colpire con speciali laser.
«Ma all’azione di un Uav partecipano più persone», dice un esperto della Difesa italiana: «Questo vuol dire che la responsabilità è distribuita a tutti i livelli. Grazie alle moderne tecnologie di comunicazione, la scelta di colpire o di rimandare l’attacco è condivisa. Insomma, quando ci sono dubbi, per decidere si coinvolge chi ha altre responsabilità, non solo tattiche, ma strategiche, e anche politiche». In più, le caratteristiche dei droni permettono ricognizioni di lunga durata, ben oltre i limiti fisici del pilota umano. E questo dovrebbe garantire una ragionevole sicurezza nell’individuare il bersaglio. A consolidare le informazioni dall’alto, deve intervenire anche l’Humint, l’intelligence umana sul terreno: i problemi sorgono solo quando il tempo stringe, magari perché si ritiene che l’obiettivo d’alto livello stia per andar via. È in questi casi che la percentuale di errore si alza.
Il Pentagono, però, ha adottato anche un sistema di individuazione degli elementi ostili basato su software. Sono i cosiddetti signature strike, cioè colpi basati su un comportamento considerato “la firma” dei terroristi. Individuato con certezza un esponente di Al Qaeda, se ne controllano le comunicazioni, dopo di che si comincia a seguire le persone che sono entrate in contatto con lui, rilevando i movimenti delle sim card contenute nei cellulari. Se alcune di queste persone frequentano altri esponenti “nemici”, o hanno comunque comportamenti “sospetti”, si presume che a loro volta siano ostili. In questo modo l’autorizzazione all’assalto dei Predator di fatto viene affidata a un calcolatore.
Molto probabilmente è a queste procedure che si riferiva ieri il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest, annunciando la decisione di Obama di “rivedere” i protocolli di attacco dei droni. La “quasi certezza” voluta dal presidente è altra cosa. Tanto più che se le informazioni sono inaffidabili, se il software del destino è imperfetto e c’è il sospetto di aver straziato civili senza colpa, anche per chi partecipa la missione è inaccettabile. Lo racconta Brandon Bryant, pilota di Predator che ha lasciato l’Air Force dopo oltre 1.600 vittime. Quando il missile Hellfire colpisce l’obiettivo, gli schermi del posto di comando mostrano l’esplosione, ovviamente senza rumore. Poi si vedono i corpi. L’immagine più sconvolgente compare sullo schermo a rilevazione termica, quando cambia la temperatura nei corpi delle persone colpite. Il sangue all’inizio appare caldo, poi si raffredda. E ha lo stesso colore, che sia di miliziani di Al Qaeda oppure di ragazzi innocenti.
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MARIO PLATERO, IL SOLE 24 ORE 24/4 -
Inutile stupirsi: da sempre sappiamo che le morti accidentali sono una conseguenza implicita e drammatica negli attacchi dei droni. Ma il tema per noi, oggi, dopo le morti “accidentali” e tragiche di Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein diventa un altro: vale la pena di continuare a insistere con gli americani per armare i droni che abbiamo in dotazione? E anche se questa a autorizzazione ci fosse, sarebbe consigliabile usare i Predator B per colpire possibili obiettivi terroristici in Libia? O peggio, come ha suggerito qualcuno, per distruggere i barconi dei trafficanti di vite umane prima che siano imbarcati? Troppo spesso il dibattito su questi temi non tiene conto dei dati disponibili, raccolti da agenzie per la difesa dei diritti civili o per la diffusione di statistiche militari come il Bureau of Investigative Journalism.
Dai dati raccolti da Bij, l’amministrazione Obama ha quasi decuplicato gli attacchi con droni rispetto all’amministrazione Bush. Complessivamente con Obama ci sono stati quasi 500 attacchi (l’ultimo dato disponibile parla di 456 attacchi). Il problema è che per ogni attacco mirato a colpire un terrorista pericoloso «che non puo’ essere catturato» ( come ha spiegato ieri Obama) ci sono molte vittime civili, uccise casualmente, per questioni accidentali o per mancanza di intelligence adeguata, come è successo nel caso dei due ostaggi occidentali uccisi in gennaio («se l’avessimo saputo non l’avremmo fatto» ha detto ancora Obama: ma non è loro dovere avere intelligence accurata?).
Il numero ufficiale disponibile parla di 437 vittime civili, spesso bambini, donne, vecchi negli anni di Obama. Gli attacchi negli anni di Bush sono stati 52 con l’uccisione di 467 obiettivi ma anche di 167 civili. Ma prendiamo dei casi specifici: il 13 gennaio del 2006 Obama autorizza l’attacco vicino a un villaggio chiamato Dandola, in Pakistan per colpire un terrorista pericoloso, Ayman Zawahiri. L’attacco viene autorizzato di nuovo dopo il che il primo fallì. L’intelligence si diceva sicura della località dell’obiettivo. Ma Zawahiri sfuggi di nuovo all’attacco. In sua vece, nei due attacchi sono morti 72 bambini e 49 adulti. E nel 2010, in un altro attacco che si è concluso con successo, cioè con la morte della vittima designata, sono stati uccisi come “danno collaterale” 128 civili, tra cui 13 bambini.
Ora da noi si cercherà di andare a fondo. Si perderà tempo in inchieste per capire se il nostro presidente del Consiglio fosse stato informato da Obama durante il suo incontro alla Casa Bianca o no. Ma in questo momento di lutto per le famiglie delle vittime innocenti, di cui ci scandalizziamo perché così vicine a noi, non si dovrebbe fare politica spicciola, si dovrebbero invece analizzare fino in fondo le implicazioni di un attacco condotto da droni italiani armati con autorizzazione americana su azione coordinata presumibilmente con la nostra intelligence. Saremo all’altezza di condurre queste operazioni? Dobbiamo credere che la nostra intelligence possa essere meglio di quella americana? E su tutto dovremmo concetrarci su un’altra domanda: l’America attacca coi droni a migliaia e migliaia di chilometri di distanza. Le vittime civili restano un problema ora per il Pakistan che magari ha autorizzato gli attacchi ora per l’Afghanistan (o per la Somalia e altre zone dove i droni americani hanno colpito). Nel nostro caso le vittime possibili sarebbero a poche centinaia di chilometri in alcuni casi a poche decine di chilometri. Cioè nel cortile di casa. È consigliabile? Per noi non lo è. Ma se qualcuno dovesse decidere per gli attacchi, che lo faccia almeno sapendo a quale rischio, morale e concreto, di vendette ravvicinate esporrà il nostro Paese.
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PAOLO VALENTINO, CORRIERE DELLA SERA 23/4 -
L’ipotesi di usare i droni per colpire e affondare i barconi dei trafficanti di esseri umani, prima che partano dalle coste nordafricane, è solo una chiacchiera inutile e illusoria. Non solo e non tanto perché in questo momento all’Italia (come a quasi tutti i grandi Paesi dell’Ue, con l’eccezione del Regno Unito) manca la tecnologia necessaria per armare i 6 Predator B, anche detti Reaper, a disposizione delle nostre Forze Armate. Quanto perché, anche nell’ipotesi impossibile che gli Usa ci dessero domani il know-how per renderli letali, «occorrerebbero da 6 mesi a un anno per applicarlo e avere un embrione di capacità operativa».
Lo dicono al Corriere autorevoli fonti militari, basite di fronte a tanto sproloquio nella concitata conversazione politica e mediatica, seguita al terribile naufragio di domenica. Prima di spiegare in dettaglio le ragioni dell’impraticabilità dell’impiego dei droni, le fonti ricordano che l’unica opzione possibile contro i barconi sarebbe di tenersi e affondare quelli da dove sbarcano gli immigrati, natanti che invece vengono normalmente restituiti. Non è molto ma sarebbe già qualcosa, se si pensa che nel solo 2014, dati del ministero della Difesa, i mercanti di anime sono rientrati in possesso di ben 800 tra grosse scialuppe, gommoni e pescherecci.
Certo potrebbero esser presi in considerazione altri modi per eliminare gli scafi della morte. «Ma è difficile – spiegano i nostri interlocutori – immaginare bombardamenti aerei, sia per la difficoltà di identificare gli obiettivi, sia per il rischio che i migranti possano essere usati come scudi umani. Tantomeno è realistico pensare a operazioni a terra direttamente nei porti, dove avremmo comunque bisogno della collaborazione di autorità locali, che o non ci sono o sono in conflitto fra loro».
Un’altra ipotesi presa in considerazione è l’uso dei sottomarini, impiegati in passato dalla nostra Marina per tracciare le rotte degli immigrati e usati anche nella campagna contro Gheddafi. Teoricamente potrebbero consentire azioni mordi e fuggi di squadre speciali, con il sommergibile in attesa al largo: ma quante missioni sarebbero necessarie e con quali costi, per avere un impatto significativo?
Ma torniamo ai droni, presunto miracoloso toccasana su cui in queste ore si esercitano il colto e l’inclita. L’Italia ne possiede dodici, sei Predator di prima generazione e altrettanti nella versione Reaper, acquistati tra il 2009 e il 2011 e tutti usati per sorveglianza e ricognizione. Tra Afghanistan, Kosovo e normale manutenzione, solo un paio sono operativi in Nord Africa.
Nel 2011 il nostro Paese ha avviato le procedure per ottenere dagli Usa l’autorizzazione (cioè la tecnologia) ad armare i Reaper di missili. La decisione spetta a una Commissione del Senato americano, che non l’ha ancora presa. I nostri governi non hanno insistito più di tanto: non c’erano ragioni di urgenza e c’erano ovviamente problemi di costo.
Ora l’emergenza migranti può spingerci a chiedere e forse ottenere un’accelerazione, che comunque non significherebbe segnale verde immediato: «Avremmo comunque davanti un lavoro lungo e complesso, dall’addestramento tecnico alle prove sperimentali. Non potremmo impiegarli in modo efficace prima di un anno».
Né grande aiuto può venire su questo fronte dagli alleati europei, nessuno dei quali possiede droni armati. Parigi per esempio non potrebbe neppure dare una mano per la ricognizione, visto che i suoi 6 Reaper sono tutti impiegati nel Mali a copertura della missione francese.
Fa eccezione Londra, che però opera con alcuni Reaper armati solo insieme agli americani: improbabile, anzi impossibile che Usa e Gran Bretagna, troppo indaffarati sul fronte Isis e al Qaeda, ci aiutino con i droni ad affondare i barconi degli scafisti.
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ALESSANDRO R. UNGARO, ASPENIA 4/APRILE
La lunga rincorsa verso l’autonomia delle macchine, sorretta dalla spinta delle esigenze militari. La fusione di robotica, GPS e informatica ha portato all’era dei droni e alla rimozione dei soldati dal campo di battaglia, con effetti ancora difficili da valutare. E restano i quesiti, su come gestire e regolare le nuove tecnologie a uso militare, ormai sempre più diffuse.
Tutto nacque, si presume, verso la fine del 1400, precisamente nel 1495. Prima di dedicarsi completamente a dipingere l’Ultima Cena, il genio eclettico di Leonardo da Vinci progettò ciò che può essere considerato il primo robot della civiltà occidentale. Sebbene non ci sia dato sapere se fu effettivamente realizzato, l’automa cavaliere – anche detto cavaliere meccanico o robot di Leonardo – fu inizialmente scoperto tra i numerosi disegni vinciani da Carlo Pedretti nel 1957. Ma fu solo nel 1996 che Mark Rosheim riuscì ad arrivare a una ricostruzione del robot il quale “si alzava, agitava le mani e girava la testa grazie a un collo flessibile. Poteva inoltre aprire e chiudere la mascella. Probabilmente emetteva suoni accompagnati dal rullio di tamburi automatici. All’interno era realizzato in legno, con parti di pelle e metallo, ed era azionato da un sistema di cavi. Il robot consisteva in due sistemi indipendenti: arti inferiori, caviglie, ginocchia, con tre gradi di movimento; braccia con spalle articolate, gomiti, polsi e mani, con quattro gradi di movimento. La disposizione degli arti superiori indica che le braccia erano progettate per muoversi all’unisono. Un programmatore meccanico nel petto azionava le braccia. Le gambe erano azionate da un manovellismo esterno, mediante una corda che era opportunamente collegata alla caviglia, al ginocchio e all’anca” [1].
Quattrocento anni dopo il progetto vinciano, Nikola Tesla fece un ulteriore passo decisivo per i futuri sviluppi in campo robotico o più in generale in quello meccanico. Egli sembra essere infatti il precursore, tra le altre cose, di quelli che oggi tendiamo a chiamare unmanned vehicles – o più comunemente, droni – ossia piattaforme a pilotaggio remoto comandate a distanza da operatori, siano esse terrestri (Unmanned Ground Vehicles, UGV), navali (Unmanned Surface Vehicles, USV), sottomarine (Unmanned Undenwater Vehicles, ULV) e aeree (Unmanned Aerial Vehicles, UAV). Nel 1898, il fisico serbo naturalizzato statunitense fece una pubblica dimostrazione di una imbarcazione radiocomandata al Madison Square Garden di New York, che successivamente cercò di vendere – senza successo – ai militari americani insieme ad alcuni progetti relativi a dei siluri radiocomandati. Era convinto di un possibile impiego militare per quelle scoperte tanto geniali.
L’IMPULSO DEL SETTORE DELLA DIFESA SULLA ROBOTICA E L’INFORMATICA. La vicenda di Tesla è piuttosto paradossale, o almeno ironica, se si pensa a quanto invece la ricerca nel campo militare e dell’industria della difesa abbia poi contribuito a trainare e spingere lo sviluppo tecnologico nel campo della robotica negli anni a venire – soprattutto a partire dalla prima guerra mondiale – anche grazie ai sempre più evoluti processi di meccanizzazione e produzione di massa. Il secondo conflitto mondiale vede un primo e significativo – sebbene circoscritto – incremento nell’uso operativo di diverse piattaforme o dispositivi unmanned sia tra gli alleati che tra le forze dell’asse. Basti pensare alla bomba radioguidata planante Ruhrstahl SD 1400, meglio conosciuta dagli alleati con il nome di Fritz X: fu utilizzata dalla Germania durante la seconda parte del conflitto e in particolare nel 1943, quando (in seguito all’armistizio dell’8 settembre) venne impiegata contro la nave ammiraglia italiana Roma – fiore all’occhiello della produzione navale italiana di quel tempo – causando il suo affondamento e la morte di numerosi uomini.
Ma è durante la guerra fredda, e soprattutto negli Stati Uniti, che l’interesse militare nei sistemi unmanned trova il suo terreno più fertile, nonostante contrapposizioni politiche, battute d’arresto tecnologiche e test fallimentari in teatro. A partire dalla prima guerra nel Golfo del 1990, tali sistemi procedono verso un loro graduale inserimento all’interno della community militare americana, sfruttando a loro volta gli sviluppi tecnologici dell’Information Communication Technology e di quelli in campo spaziale. Il momento magico, il punto di svolta, arriverà di lì a poco – nel 1995 – attraverso l’integrazione con il Global Positioning System (GPS), permettendo così all’operatore di localizzare costantemente la posizione della piattaforma unmanned. I vantaggi e gli sviluppi maggiori si riscontrarono nel campo aereo, quello degli UAV, che divennero sempre più facili e intuitivi da pilotare, mentre la quantità e la qualità delle informazioni che erano in grado di disseminare sempre più dettagliate.
Sulla scia di un cambiamento politico che coincise con la fine della guerra fredda e il cosiddetto “dividendo della pace”, la tolleranza dell’opinione pubblica verso i rischi e le perdite di vite umane legate alle operazioni militari diminuì sensibilmente, generando di conseguenza un interesse sempre più crescente per tutto ciò che potesse salvaguardare o “allontanare” l’essere umano dalla cruda realtà del conflitto. I benefici potenziali che i sistemi unmanned erano in grado di generare erano sempre più chiari e sotto gli occhi di tutti, soprattutto per la loro capacità di svolgere missioni cosiddette dull, dirty, or dangerous senza conseguenze per le vite umane.
Gli ultimi 14-15 anni sono storia recente, e con l’11 settembre 2001 si apre un capitolo forse determinante e cruciale. Le guerre che seguirono all’attentato hanno determinato un incremento esponenziale nella domanda di piattaforme unmanned, sempre più sofisticate e avanzate, grazie a uno sviluppo tecnologico in campo robotico inarrestabile e finanziariamente florido. Per dare un’idea della rapidità con cui gli scenari possono cambiare, quando le forze armate americane entrarono in Afghanistan disponevano solo di una manciata di UAV – nessuno di questi armato – e nessun UGV. Dopo poco più di 11 anni, a fine 2012, gli Stati Uniti potevano fare affidamento su oltre 8.000 UAV e più di 12.000 UGV. Quest’ultimi erano utilizzati per rilevare i cosiddetti Improvised Explosive Devices, ossia ordigni esplosivi improvvisati, una delle maggiori minacce per le forze armate americane e NATO [2]. Inoltre, se come afferma un rapporto della Band Corporation [3] secondo il quale 23 paesi hanno già sviluppato o stanno sviluppando droni armati, nel giro di 10 anni ogni Stato sarà virtualmente in grado di acquisire o sviluppare UAV con tale capacità [4]. Infatti, una dei principali nodi irrisolti su cui si discute piuttosto vivacemente è l’impiego di sistemi unmanned con capacità d’attacco – quindi armati – in grado di condurre operazioni letali.
L’ERA DEI DRONI E IL FATTORE UMANO IN BATTAGLIA. La diffusione odierna dei droni, soprattutto UAV, non è una vera novità tecnologica ma rappresenta un forte cambiamento in termini dottrinali e operativi a livello militare. In realtà, non si tratta solo di droni quanto piuttosto della tecnologia nel suo complesso, la quale sta determinando una trasformazione del ruolo dell’essere umano nei futuri scenari di guerra e conflitto. La tecnologia unmanned genera indubbiamente diversi benefici e vantaggi, tra cui: se parliamo di UAV, queste piattaforme eliminano in toto il rischio che un velivolo manned venga abbattuto oppure che il pilota venga catturato; sono in grado di volare e stazionare sopra un obiettivo per diverse ore (o comunque più tempo rispetto a un velivolo manned) e trasmettere coordinate GPS in tempo reale senza slittamenti temporali; riducono il rischio di eventuali errori e danni collaterali attraverso una maggiore e più accurata precisione del bersaglio, sebbene a riguardo alcuni esperti siano ancora abbastanza scettici [5]. Infine, sistemi unmanned possono essere impiegati per azioni particolarmente pericolose, che l’essere umano altrimenti non sarebbe disposto a intraprendere se non correndo forti rischi per la propria vita. Si pensi ad esempio alle azioni di guerriglia urbana dove uno degli aspetti più difficili da affrontare è irrompere in un edificio e, in una frazione di secondo, capire chi è il nemico e chi no, fare fuoco contro l’eventuale minaccia prima che questa spari, cercando sempre di evitare il coinvolgimento dei civili. Si tratta di un’operazione che si può praticare più e più volte, ma anche con un alto grado di addestramento è altamente improbabile – se non impossibile – ridurre completamente il rischio di commettere un errore, in quella frazione di secondo, in una stanza buia, nel bel mezzo di uno scontro a fuoco. Al contrario, un sistema unmanned potrebbe essere in grado di entrare nella stanza e colpire esclusivamente solo chi spara per primo, senza mettere inutilmente in pericolo la vita di un militare o quella di un civile. Anche da un punto di vista industriale, l’unmanned consente di eliminare una serie di apparati ed equipaggiamenti grazie all’assenza del corpo umano e, di conseguenza, permettere un notevole risparmio di peso e spazio a vantaggio dei sistemi di carico e di missione.
Detto questo, sembra che l’applicazione di tali tecnologie stia però portando a quello che Peter Singer della Brookings chiama geographic shift, ossia quella tendenza – che sembra ormai andando consolidarsi – verso una mininore esposizione dell’individuo nelle zone calde del campo di battaglia. Non solo, all’allontanamento fisico si aggiunge quello psicologico rispetto al bersaglio da eliminare. Sebbene questa caratteristica faccia forse parte dell’evoluzione intrinseca degli strumenti con cui si conduce un conflitto, si pensi ad esempio alle più recenti e sempre più determinanti armi cibernetiche: secondo alcuni l’uso incondizionato dei sistemi a pilotaggio remoto armati ha trasformato la guerra in una specie di videogame, eliminando i costi psicologici per i piloti dei droni.
Si tratta della cosiddetta Playstation mentality, termine coniato da Philip Alston e Hina Shamsi in un loro articolo del febbraio 2010 [6]. Nello specifico, Alston, già relatore speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie dal 2004 al luglio 2010, così come tanti altri del settore, sostiene che l’impiego dei droni riduca in modo significativo la soglia psicologica all’utilizzo di armi letali durante la condotta di operazioni militari. L’estesa distanza fisica tra l’operatore e il bersaglio da colpire fa sì che l’atto dell’eliminazione sia percepito come più “facile” perché l’obiettivo viene “spersonalizzato” e ridotto a semplice pixel su uno schermo. Inoltre, alcune ricerche sembrano dimostrare che queste modalità di condotta della guerra facciano emergere una specie di “sdoppiamento” della propria persona, una duplicazione dell’identità per cui si tenderebbe a compiere atti violenti e amorali che altrimenti non si realizzerebbero. In sostanza, i sistemi unmanned potrebbero avere un effetto ancora più profondo sulla “spersonalizzazione della battaglia” perché non solo conducono a una maggiore distanza fisica ma altresì a un diverso tipo di distanza psicologica e disconnessione tra le parti coinvolte.
UN FUTURO DA TERMINATOR O TUTELA DELLE VITE UMANE?
Sebbene sussistano altre e diverse argomentazioni a sostegno di questa tesi, esistono altrettante scuole di pensiero e casi concreti che difendono l’operato dei sistemi unmunned e delle relative modalità di ingaggio remoto. Un esempio su tutti è il “Report of the task force on United States drone policy”, pubblicato nel giugno 2014 e redatto da 10 esponenti di spicco dell’establishment americano tra cui diversi ex membri dell’intelligence, militari e alti funzionari [7]. Riguardo alla Playstation mentalily, il rapporto dichiara che in realtà i piloti di droni fissano i loro obiettivi a volte per giorni o intere settimane prima di procedere alla loro eliminazione, suscitando in loro un maggiore stress post-traumatico rispetto ai piloti di velivoli manned.
Una naturale evoluzione dei sistemi unmanned pilotati in remoto, in cui l’essere umano rimane ancora in-loop, potrebbe essere rappresentata da una integrazione tra elementi umani e robotizzati con la progressiva riduzione del livello di controllo umano sull’unmanned, passando quindi da human-in-loop a human-on-loop [8]. Facendo un passo ulteriore, il futuro potrebbe prevedere sistemi con intelligenza artificiale, capaci di attività autonome in termini di navigazione, decollo e atterraggio, ricognizione e infine, anche d’attacco, selezionando in modo autonomo i propri bersagli oppure da una lista reimpostata di obiettivi (si passerebbe al cosiddetto human-out-of-loop). In altre parole, si potrebbe “immaginare una forza composta di elementi che non sentano fatica, fame e sete, che possano rimanere non solo operativi, ma in combattimento per ore e persino giorni senza sosta, che possano svolgere missioni dull, dirty, or dangerous senza conseguenze per le vite umane” [9].
Al momento siamo ancora ben lontani da questa sorta di era di Terminator, che dovrebbe sottintendere infatti la possibilità di introiettare nei sistemi capacità etiche e morali – oltre alle regole di ingaggio – tali da permettere loro la selezione automatica dei bersagli, azione particolarmente complessa e per nulla scontata. Inoltre, rimarrebbe comunque irrisolto il problema della accountability: qualora un robot autonomo con intelligenza artificiale dovesse commettere un errore, chi pagherebbe, chi ne sarebbe responsabile? Il programmatore? Il comandante sul campo? Il dibattito è talmente controverso, irto di ostacoli e sfumature che se ne discute anche a livello di Nazioni Unite nell’ambito della Convention on Certain Conventional Weapons, in cui esperti di Lethal Autonomous Weapons Systems si riuniscono annualmente con l’obiettivo di fare luce sulle implicazioni etiche, legali, militari, politiche ed esistenziali di queste nuove tecnologie e di valutarne la loro conformità al diritto intemazionale [10].
Sta di fatto che nel novembre 2012 il Pentagono ha pubblicato una direttiva sulla progettazione, l’acquisto e l’entrata in servizio di sistemi d’arma autonomi e semi-autonomi per ridurre la possibilità che questi possano selezionare i propri obiettivi. La direttiva afferma infatti che “i comandanti e gli operatori devono esercitare appropriati livelli di giudizio umano sull’uso della forza“ [11]. Almeno al giorno d’oggi, l’essere umano rimane ancora al centro del processo decisionale, l’unico attore in grado di identificare i bersagli da colpire e, in ultima analisi, responsabile delle azioni che andrà a condurre. Fino a quando saremo in grado di stabilire regole certe e condivise, anche i più travolgenti e rivoluzionari progressi tecnologici potranno essere gestiti e controllati sulla base di regole democratiche, etiche e volte al rispetto e alla salvaguardia del genere umano.
Note:[1] Mark E. Rosheim, Il robot di Leonardo, Istituto e Museo di Storia della Scienza, Firenze, 1996. [2] Peter W. Singer, The robotics revolution, Brookings Institution, dicembre 2012.
[3] Lynn K. Davis, Michael J. McNerney, James Chow, Thomas Hamilton, Sarah Harting, Daniel Byman, Armed and Dangerous?, RAND Corporation, 2014.
[4] Patrick Tucker, “Every country will have armed drones within ten years”, DefenseOne, maggio 2014.
[5] Chris Cole, “What’s wrong with drones?”, Drone Wars UK, marzo 2014. [6] Philip Alston, Hina Shamsi, “A killer above the law?”, The Guardian, febbraio 2010.
[7] Stimson Center, Recommendations and Report of the Stimson Task Force on US drone policy, giugno 2014.
[8] Paul Scharre, “Where does the human belong in the loop?”, Center for a New American Security, 2014.
[9] Claudio Catalano, “Tecnologie emergenti: la rivoluzione delle macchine”, Panorama 2013. [10] Ishaan Tharoor, “Should the world kill killer robots before it’s too late?”, The Washington Post, 12 maggio 2014.
[11] Department of Defense, direttiva n. 3000.09, 21 novembre 2012.
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PIERANGELO CAITI, LA STAMPA 23/4 -
Lasciano perplessi sulle modalità di intervento le dichiarazioni del presidente Matteo Renzi: «interventi mirati per distruggere i barconi e contrastare gli scafisti» e del ministro degli Interni Angelino Alfano: «bombardare i barconi libici in porto», alle quali ha fatto eco ieri il commissario europeo dell’immigrazione Dimitris Avramopoulos che ha detto: «Cattureremo e distruggeremo ogni imbarcazione che i nuovi contrabbandieri d’anime usano per attraversare i confini esterni dell’Unione». Oggi dal Consiglio Europeo straordinario dovranno uscire soluzioni pratiche che andranno bene al di là delle dichiarazioni politiche.
Come distruggere
I battelli possono essere distrutti mitragliandoli, colpendoli con razzi anche da droni (pensare che i Predator 2 con la loro autonomia di 24 ore sarebbero il veicolo d’assalto ideale), sabotandoli con cariche esplosive, colpendoli con cariche da controminamento subacquee (di cui sono specialisti i Gos di Comsubin), facendo trasportare le cariche di controminamento magari da mezzi come il Mini Ranger della Calzoni di Bologna, un veicolo autonomo adottato nei mesi scorsi dal Comando contromisure mine della Spezia per l’imbarco sui cacciamine: un battello pneumatico lungo 4,50 metri, in grado di operare da solo senza equipaggio, realizzato per ora in due esemplari. Allo stesso modo potrebbe operare un altro veicolo autonomo della Calzoni l’U-Ranger, un robot marino ASV/USV, realizzato in alluminio e lungo 7,50 metri, privo, come i Mini Ranger, di equipaggio. Allo stesso scopo potrebbero essere utilizzati «glider», alianti subacquei.
Diritto internazionale
Questi gli scenari futuribili ma i «politici» devono ancora stabilire e precisare se i battelli sarebbero distrutti alla fonda lungo le coste libiche, in mare appena sbarcati i migranti, a terra se tirati in secca, con notevoli possibilità di «danni collaterali». L’attacco con sistemi d’arma rientra in un contesto di attacco a nazione straniera senza dichiarazione di guerra, quindi in contrasto con il diritto internazionale a meno che una decisione dell’Onu o dell’Unione Europea non decida per una operazione di polizia internazionale. Si è ventilato infatti che l’operazione possa essere paragonata a quella contro la pirateria somala nel Golfo di Aden, la missione «Atalanta», che tuttavia ha presupposti ben diversi.
Chi costruisce i battelli
Mentre vengono utilizzati tutti i tipi di pescherecci, «sambuchi» di ogni genere rastrellati dall’Egitto alla Tunisia e certo acquistati a prezzi elevati pur essendo spesso carrette del mare, nessuno sembra sinora avere rivolto l’occhio ai battelli pneumatici di grandi dimensioni in grado di accogliere sino a 200 persone che arrivano spesso a gruppi. Questi natanti sono certo costruiti ex novo in qualche cantiere che un facile lavoro di intelligence dovrebbe riuscire a individuare. Allo stesso modo si dovrebbe impedire la fornita dei motori. È probabile che magistratura e Guardia di Finanza stiano conducendo indagini come fecero in passato per individuare chi forniva battelli ai contrabbandieri sulla sponda adriatica e presto potremmo conoscere qualche novità.
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FABIO POLETTI, LA STAMPA 31/3 -
I «no Expo» lo stanno ripetendo in tutte le salse: «Non vogliamo fare la guerra civile». Polizia, carabinieri, esercito, servizi segreti e la struttura di sicurezza di Expo – «Expo command & control centre», il nome che fa tanto Baghdad – gli credono meno di zero. E si preparano alla cinque giorni di mobilitazione a cavallo dell’inaugurazione di Expo 2015. Dal 29 aprile quando ci sarà la prima manifestazione antifascista nell’anniversario della morte di Sergio Ramelli all’assemblea del 3 maggio al «Campeggio internazionale» nell’area di Rho-Pero, passando per il primo maggio, inaugurazione con Matteo Renzi e contromanifestazione degli «arrabbiati», D-day dell’evento.
Telecamere e rete blindata
Se poi ci mettiamo pure il rischio fondamentalismo islamico – «Expo e Giubileo sono due obiettivi», dicono gli uomini della security – si capisce perché nella periferica via Drago da mesi si stanno lucidando i monitor collegati alle 500 telecamere puntate sul sito. Per non parlare delle altre 2000 telecamere accese in città, da quelle della metropolitana a quelle dei varchi per l’area C, tutte collegate con la palazzina blindata come Fort Knox e con sistemi anti hackeraggio dove i tecnici di Selex, Cisco, Accenture, Telecom, Samsung e Came compiono gli ultimi controlli. A capo della struttura c’è Ottorino Panariello, un ex manager Telecom arruolato in Expo con l’incarico di direttore generale Division Business Planning & Control con il compito di coordinare la sicurezza nel sito grande come 170 campi da calcio, assistere anche sotto il versante sanitario i 300 mila visitatori al giorno e fornire assistenza logistica ai 145 Paesi partecipanti. Sotto di lui un ex militare dell’Arma ma la sicurezza sarà coordinata da Prefettura, Questura e Carabinieri.
Mura di tre metri
Con una telecamera attiva ogni 40 metri, Milano sarà sotto l’occhio perenne di un Grande Fratello. Il sito sarà circondato da mura e reti alte 3 metri e 15 centimetri. Gli accessi pedonali per i visitatori sono 4 con 162 tornelli e 108 apparecchiature a raggi X con rilevamento antiesplosivo per controllare le borse, più di quante ce ne sono complessivamente a Malpensa, Linate e Fiumicino. Per radiografare i passeggeri ci saranno altri 450 archetti elettronici.
Duemilaseicento uomini
La sicurezza passiva sarà garantita da droni. Ma il lavoro più grande sarà quello degli uomini in servizio per la sicurezza. Il sito è stato diviso in 84 quartieri. Ogni padiglione avrà un responsabile della sicurezza. Gli accessi saranno controllati da guardie giurate, da 52 a 719 in base agli orari. Si vogliono evitare intromissioni. Come quelle degli antagonisti che un paio di mesi fa hanno scritto su un muro «No Expo», a un passo dai padiglioni di Coca-Cola e McDonald’s, le multinazionali ritenute il simbolo di quello che non dovrebbe essere l’esposizione dedicata al nutrimento del pianeta. Ma il grosso sarà garantito da 1300 poliziotti, 700 tra carabinieri e finanzieri e 600 soldati. Mobilitati 24 ore al giorno fino alla fine di ottobre. Costo del piano a bilancio di Expo: 7 milioni e 200 mila euro.
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ELEONORA MARTINI, IL MANIFESTO 26/2 -
Cosa possono fare le forze dell’ordine se, come è avvenuto per la seconda notte consecutiva a Parigi, alcuni droni sconosciuti (poi identificati e per i quali ieri sera sono stati arrestati tre giornalisti di Al Jazeera) sorvolano pericolosamente la città e alcune strutture sensibili come l’ambasciata Usa, Place de la Concorde e la Torre Eiffel? «Fermarli in aria è l’ultima azione possibile», spiegano gli addetti ai lavori. «Meglio sarebbe se i corpi di polizia avessero il controllo dei codici di tutti gli Apr immessi sul mercato in modo da poter intervenire da una ground station per intercettare il drone e controllarlo». È una delle tante proposte avanzate durante la Roma Drone Conference organizzata dall’associazione Ifimedia e da Mediarkè per fare il punto sull’impiego degli aeromobili a pilotaggio remoto (Apr) nelle forze armate, nei corpi di polizia e nella protezione civile in Italia.
Dalla guerra alla pace
Nati e sviluppatisi soprattutto in ambito militare fin dalla prima metà del ’900, quando venivano usati come aerobersagli per l’addestramento delle batterie aeree, i droni conoscono oggi un vero e proprio boom in ogni campo, da quello della sicurezza civile e del controllo del territorio a quello ludico e commerciale. Possono pesare nove grammi ed essere piccoli come microspie o superare i 150 chili di peso, possono sorvolare grandi aree grazie ad ali fisse e motori a scoppio oppure muoversi agilmente con pale rotanti in spazi angusti, ed essere silenziosi più del frigorifero di casa. Possono resistere a raffiche di vento e alla pioggia, volare di notte, sfidare il fuoco, penetrare in nuvole di fumo, sorvolare aree disastrate e incidenti, entrare in tunnel ostruiti, monitorare fiumi in piena, salire sui pendii di una montagna durante una bufera di neve. Dotati di tecnologie sofisticate, possono rilevare calore umano anche a grande distanza, fare rilievi perfetti di incidenti automobilistici con mappatura del territorio, inseguire persone o cose in volo o su strada, controllare specie faunistiche o floreali, o monitorare l’erosione delle coste, o scovare discariche abusive, avvicinarsi a fonti radioattive e anche trasportare merci.
Ecco perché se l’ultima evoluzione dei droni in campo militare è stata renderli di capacità offensiva — «l’Italia però non possiede Apr armati perché gli Usa, da cui provengono i mezzi in dotazione ai nostri militari, non hanno ancora concesso l’autorizzazione a farlo», racconta Luciano Castro, esperto del settore e presidente della Roma Drone Conference, «anche se Obama recentemente, davanti al montante terrorismo internazionale, ha prospettato un’apertura in questo senso» — la vera rivoluzione a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni, da quando la tecnologia è diventata più economica e quindi più diffusa, è il passaggio dal campo militare a quello civile.
Per gioco o per lavoro
Un vero e proprio boom, anche in Italia dove il primo codice di regolamentazione vige da meno di un anno.
Se con gli aeromodelli soprattutto si gioca, l’applicazione dei più sofisticati e costosi Apr non conosce limiti ed è in continua evoluzione in ogni campo professionale, dal drone journalism all’agricoltura di precisione, fino alla ricerca scientifica. Usati per spiare, anche, vengono sempre più spesso impiegati nel controllo di oleodotti, gasdotti o linee ferroviarie. «Sulla scia della moda — continua ancora Castro — migliaia di microaziende hanno comperato piccoli o medi Apr, magari un fotografo che fa matrimoni oppure un contadino per la sua azienda; ma poi si sono dovuti confrontare con il regolamento, l’assicurazione, la certificazione della macchina, l’abilitazione del pilota e spesso operano nella completa illegalità».
Nei garage o nelle fabbriche
A produrli sono aziende storiche, di decennale esperienza nel campo dell’aeronautica che stanno guardando con interesse a questo mondo nuovo, come l’Alenia Aermacchi e Selex Es del gruppo Finmeccanica, la Piaggio o la Ids del gruppo Agusta. C’è anche chi li costruisce da sé, in garage, usando progetti abbastanza semplici da reperire on line, ma sono molte soprattutto le start up promosse negli ultimi dieci anni da ingegneri solitamente giovani che vengono dal mondo dell’informatica e della robotica e si applicano a questo nuovo business, come Flytop, Skyrobotic o Italdrone. Quest’ultima impresa, di Ravenna, con una ventina di dipendenti, assembla per esempio telai prodotti in Cina, motori svizzeri e centraline tedesche, come racconta un suo manager Gianluca Rovituso. Un business, quello dei droni, in cui eccellono gli States e Israele, ma che oggi vede l’Asia correre in fretta verso la vetta. Spiega Castro che «il più grande produttore mondiale di Phantom, il più versatile dei piccoli droni, che a seconda dei sensori montati può rappresentare la fascia bassa dell’Apr professionale o quella alta del ludico, è la Dji di Hong Kong».
I droni sono «una parte innovativa dell’aviazione — ha detto il vice presidente del Copasir, Giuseppe Esposito, durante la conferenza — con questa industria dei velivoli si possono creare tra i 60 e i 70 mila posti di lavoro nei prossimi tre anni. È una grande opportunità per l’Italia, ed è questa la frontiera della nostra sicurezza interna ed esterna. Occorre però — ha aggiunto — a livello europeo una direttiva comune che regolarizzi l’utilizzo di questi strumenti: dal 2008 esiste un direttiva che stabilisce che i droni sono un’opportunità per la sicurezza delle nazioni, ma fino ad ora nessun Paese ha ricevuto dei finanziamenti».
In cerca di…
La novità in Italia è che i droni entrano ora a pieno titolo nell’armamentario della Forestale, di alcune polizie municipali e di quella di Stato, che a Roma ha presentato ufficialmente il Flysecur, un piccolo aeroplanino supersilenzioso di un paio di metri di apertura alare, prodotto dalla romana Flytop, che veste la livrea blu della polizia, «studiato appositamente per le attività di ricerca e di intelligence nella guerra al terrorismo».
«Grazie ai droni siamo potuti intervenire in luoghi inaccessibili dopo il terremoto dell’Emilia Romagna o ad Olbia, dopo l’alluvione, — racconta Alessandro Corrias, della polizia locale di Alghero — li usiamo per il contrasto all’edilizia abusiva, per controllare l’erosione delle coste o i volumi di traffico». Il problema, aggiunge il suo collega Umberto Ruzittu di Foligno, «è che il regolamento Enac non prevedeva la possibilità di utilizzare droni per servizi di polizia stradale “in house”. Ma oggi dopo un lungo carteggio con l’autorità preposta, abbiamo ottenuto l’autorizzazione e possiamo usare gli Apr per operazioni di polizia locale».
Anche la Protezione civile della regione Umbria ha dovuto ottenere — prima in Italia tra le strutture nazionali — l’autorizzazione Enac per utilizzare un esaelicottero radiocomandato che pesa 5 chili e ha un’autonomia di volo di 40 minuti per «monitorare alcune frane pericolose come quella che da un anno circa blocca via Flaminia all’altezza di Foligno» o per altre attività di protezione civile.
Il Corpo forestale dello Stato invece non li ha ancora comperati ma usa i droni in via sperimentale per fare indagini sugli incendi. «Ogni anno investighiamo su circa 500 incendi di bosco — dice Marco Di Fonzo, responsabile del Nucleo Investigativo Antincendi Boschivi (Niab) — e con gli Apr abbiamo moltiplicato l’efficacia e ridotto l’impiego di uomini. I sensori permettono di perimetrare l’incendio e rilevare anche i parametri del vento e altri dati. Lanciando poi un algoritmo si può riuscire a risalire alla causa del rogo e dunque anche più facilmente agli autori». C’è però «un problema di qualificazione degli operatori — continua Di Fonzo — perché oggetti che costano decine di migliaia di euro, con il vento e le fiamme sono a rischio, se non ben pilotati».
L’ambulanza che vola
«Ci stiamo perfezionando nei soccorsi speciali e non potevano non prendere in considerazione l’utilizzo dei droni: i nostri volontari già li avevano utilizzati per controllare i campi profughi in Kurdistan». Maria Teresa Letta, vice presidente nazionale della Croce Rossa italiana, ha presentato ufficialmente a Roma, durante la conferenza sui droni, il progetto — in capo al comitato centrale della Croce Rossa, dunque all’ente pubblico — che prevede l’uso sistematico dei Sapr (il sistema integrato dei droni con relative centraline e apparati di terra) per le attività di ricerca e soccorso in caso di disastri e catastrofi, in Italia e anche all’estero. «Saranno utili in scenari post-terremoto per rendersi conto dell’entità dei danni e ci faciliteranno molte altre operazioni di protezione civile, di pace e di soccorso», ha aggiunto Maria Teresa Letta. Dunque, dopo il progetto-pilota svoltosi nello scorso anno a Bologna, La Croce rossa prevede l’attivazione in tempi brevi delle prime 10 unità operative sul territorio nazionale, che saranno dotate di una ventina di piloti e altrettanti droni multirotori. «Abbiamo creato anche un sala operativa nazionale — ha raccontato Roberto Antonini, delegato tecnico nazionale del soccorso in emergenza — che sovrintende ai tre coordinamenti di area Nord, Centro e Sud».
Dunque tutto è pronto: il futuro, come recita il titolo del saggio di Roberto Alfieri, è sopra di noi.
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RICCARDO STAGLIANO’, IL VENERDI’ 20/2 -
Qui c’è una città intera che aspetta l’autorizzazione al decollo. Le aziende, l’università, la gente al bar, il sindaco e anche il governatore: scalpitano tutti. Basta che l’autorità federale per l’aviazione (Faa) dia il via libera ai voli a scopo commerciale e la metamorfosi avrà ufficialmente inizio. Perché Reno, il lato b di Las Vegas, la sorella povera del gioco d’azzardo americano, per risorgere dalla crisi sta puntando tutto sulla tecnologia. Vuole diventare la Detroit dei droni, anche se gli addetti ai lavori scongiurano di non chiamarli così. «Uav, unmanned aerial vehicle, aerei senza pilota, è molto meglio, no?» suggerisce contro ogni evidenza Mike Kazmierski, uno dei principali artefici della transizione, mentre ci sediamo al tavolo di Biscotti’s, dentro a quel residuato della old economy che è il casinò Peppermill, circonfuso da neon fucsia e con un colpo d’occhio sulla piscina riscaldata all’aperto dove, in pieno inverno, turisti extraterrestri e prevalentemente obesi sembrano divertirsi da morire. E così la rivoluzione diventa uno scioglilingua per esorcizzare ogni apparentamento con le gesta militari degli oggetti volanti che iniziano con la D. «Hanno una cattiva reputazione» chiarisce il mio ospite, sguardo di ghiaccio e naso da pugile, ex colonnello nella Guerra del Golfo, ora a capo dello sviluppo economico cittadino, «mentre qui lavoriamo ad apparecchi che salveranno vite, aiuteranno la ricerca scientifica e creeranno tanti posti di lavoro». Perché il Nevada è stato designato, in teoria, come uno dei sei siti per il collaudo di queste creature dell’aria. L’ultimo pezzetto mancante, in pratica, è che la Faa stabilisca come dovranno volare per evitare incresciose collisioni con aerei di linea o rovinose cadute sulla testa dei passanti.
Mesi, settimane, giorni? Il conto alla rovescia lo vedi scorrere negli occhi di imprenditori tanto motivati quanto frustrati. Basta che l’agenzia federale dica soltanto una parola e gli Uav saranno salvati.
In gioco, ovviamente, non c’è tanto la fortunata riconversione industriale di una cittadina sperduta nel deserto. Quanto l’anteprima mondiale di una tendenza incipiente: asfaltare il cielo. Ovvero, aprire infiniti nuovi corridoi aerei che promettono di ridefinire il concetto di trasporto. Per capire almeno l’entità economica della trasformazione conviene sfogliare un recente rapporto commissionato dalla Association for Unmanned Vehicle Systems International. Il mercato dei droni commerciali, si legge, potrebbe creare solo negli Stati Uniti 70 mila nuovi posti di lavoro nei primi tre anni di attività e arrivare a valere oltre 80 miliardi di dollari entro i prossimi dieci anni. Magari sono ottimisti. Di certo sono di parte. Un dato di fatto è che al Consumer Electronic Show, la grande fiera tecnologica che si è da poco tenuta a Las Vegas, stavolta c’erano sedici produttori di droni, il quadruplo dell’anno scorso. La rassegna stampa sul tema cresce esponenzialmente.
C’è il drone-edilizio della giapponese Komatsu in grado di fare rilievi sui terreni dove posare le fondamenta di un palazzo. Alla vecchia maniera servivano due persone per una settimana, mentre adesso un aeroplanino fa tutto per conto suo in una, due ore massimo. C’è il drone-biologo della PrecisionHawk che prende campioni d’acqua nei fiumi e li analizza in cerea di agenti patogeni. C’è il drone-umanitario della Matternet che consegna vaccini nei più remoti villaggi africani. Il drone-giornalista che, per conto della Cnn, fa scenografiche riprese dall’alto. Lo SkySeer drone-poliziotto che a Los Angeles aiuta gli agenti a rintracciare i dispersi. Ma anche il drone-spacciatore che si è schiantato nel parcheggio di un supermercato a San Ysidro, a pochi chilometri dal confine messicano, con il suo carico di tre chili di metanfetamina destinati al mercato americano.
Tutto questo solo per dare un assaggio molto parziale di quanto e come se ne è parlato solo nell’ultimo mese. Lasciando da parte per il momento l’uso militare.
Torniamo quindi a Reno, città-laboratorio di un imminente futuro globale. Dalla quale trarre un paio di lezioni di ordine generale su come gestire brillantemente il presente in tempo di crisi. «Noi non siamo Las Vegas» esordisce il colonnello Kazmierski, che mi ha convocato alle 7.30 («A che ora mi sveglio? In genere alle 5.36») per portarmi a vedere un aeroporto candidato ai test, «la crisi e la concorrenza dei casinò nelle riserve indiane ha ridotto l’industria del gambling all’8 per cento del nostro Pil. Dovevamo inventarci dell’altro». E così, come un manager che ha interiorizzato l’arte della guerra di Sun Tzu, ha trasformato la debolezza (una zona desertica) in una forza (un grande spazio accogliente).
Prima sono arrivati i data center, gli enormi capannoni industriali che ospitano le migliaia di computer che fanno funzionare Amazon, Apple e altre superpotenze internettiane. Poi Tesla, la Mercedes delle auto elettriche, ha annunciato che aprirà qui la più grande fabbrica al mondo di batterie al litio. E poi, ovviamente, i droni. «Vede la curva della disoccupazione?» dice indicando il miracolo che le slide sanciscono. In tre anni sono passati dal 14,2 al 6,4 per cento. E Obama non l’ha ancora reclutata? «No, ma ho ricevuto qualche altra chiamata» concede, rilassando per un attimo la mandibola d’acciaio. Non è successo per caso. «Abbiamo lavorato molto con le agenzie che scelgono i siti industriali» racconta.
Hanno spiegato che si trovano a dieci chilometri dalla California, a quattro ore d’auto dalla Silicon Valley, con la differenza che qui non ci sono praticamente tasse e un ingegnere costa circa la metà che nella Bay Area. Ed è tutto immensamente più facile.
Se c’è uno che lo può testimoniare è Matt Sweeny.Ventiseienne australiano, ha studiato filosofia prima di andare a imparare il cinese a Pechino. Là, davanti alla frustrazione di non poter avere una pizza decente nel dormitorio dove alloggiava, gli è venuta l’idea che un drone avrebbe risolto il problema. Segue studio disperatissi-
mo su manuali cartacei e tutorial di internet che sfocia nell’assemblaggio da autodidatta dei primi velivoli. Poi, quando fonda Flirtey e annuncia due mesi prima di Amazon che è in grado di consegnare per via aerea merci a domicilio, si trasferisce nella Silicon Valley in cerca di finanziatori. Però là è uno dei tanti. Cosà prova a Reno e scopre un altro mondo: l’università gli mette a disposizione laboratori (in cambio delia promessa di assumere poi studenti locali), il sindaco gli offre affitti scontati (coni’acquolina in bocca per l’inevitabile indotto) e tutti si mostrano stupefacentemente collaborativi. Qualche regione paesaggisticamente meno fortunata e poco popolata tra le nostre potrebbe prendere appunti. Resta. «Sono reduce da 22 incontri con venture capitalists californiani negli ultimi nove giorni» dice eccitato, mentre nella caffetteria dell’università tira fuori da una custodia un esacottero, un drone con sei rotori, che può trasportare per 16 chilometri un peso da due chili e mezzo. «Se un motore di questi sei si guasta non ce ne accorgiamo neanche. Se il gps che lo fa volare in automatico va fuori uso ci sono i comandi manuali. Se una batteria va in tilt c’è quella di scorta» elenca fiero. La parola chiave è ridondanza: due (o più) di tutto, contro ogni imprevisto. Ma dove li testate senza il permesso della Faa? «Intanto al chiuso. Nel mesi scorsi in Gran Bretagna, dove i regolamenti sono più elastici. E a breve cominceremo servizi commerciali nella logistica, nei fast food e nel commercio elettronico in Nuova Zelanda, dove la legislazione è più avanzata». Quanto al futuro, Sweeny non ha dubbi: «Non solo saranno il metodo più rapido di consegna, ma anche il più economico. Giusto il costo di manutenzione e ricarica delle batterie».
Piccola pausa esplicativa. Quanto alla legge, oggi negli Stati Uniti i privati possono far volare piccoli droni, non a caso uno dei più concupiti regali tecnologici dell’ultimo Natale. Devono solo stare sotto i 120 metri d’altitudine, a distanza di cinque miglia dagli aeroporti e sempre a vista dell’operatore. Se uno vuole invece usarli a fini commerciali, per fare foto, ricognizioni o altro, non potrebbe farlo – ma le cose vanno diversamente – se non dietro specifica, complessa e temporanea autorizzazione della Faa. In attesa del regolamento che doveva essere pronto nel 2012 e finalmente è dato in arrivo, salvo imprevisti. Quanto alla tassonomia, i droni non potrebbero essere più diversi. Si va dal popolarissmo e Made in China Phantom a quattro rotori, tre chili di plastica e circuiti in vendita a partire da 600 dollari su Amazon, come quello che ha provocato un catastrofico danno d’immagine alla categoria schiantandosi nel giardino della Casa Bianca, ai 500 mila dollari di un bestione anfibio della Drone America, altra azienda con sede qui, che all’indomani dell’uragano Katrina ha consegnato 16 provvidenziali scialuppe agli alluvionati. Per non dire dei famigerati Reaper, lunghi 11 metri con apertura alare di 20, che stanno salassando il bilancio del Pentagono a colpi di 10 milioni di dollari a esemplare.
Ryan McMaster fa del suo meglio per non lasciarsi deprimere dalla vacatio legis. Me lo presenta Shyla Pheasant, ex reginetta del rodeo e oggi entusiasta («Reno cresce a vista d’occhio e il meglio ha da venire!») dipendente dell’Autorità per lo sviluppo economico diretta da Kazmierski. Ingegnere trentenne, i droni se li costruisce da solo con tubi di fibra di carbonio, chip comprati sul web, pannelli di controllo tedeschi e telecamere giapponesi. E li usa, con apparente soddisfazione anche economica (glissando sulle autorizzazioni), per fare ogni genere di ripresa aerea: «Per chi vuole girare film, video pubblicitari ma anche ricognizioni per riparare un tetto o una linea elettrica». Non vola mai sopra i centri abitati, giura, e anche durante la prova che ci dà in un piccolo parco cittadino tiene a distanza i bambini che subito accorrono («Non tocco più alcol da quando li piloto»). A pochi chilometri di distanza, nella zona più industriale, c’è la sede di Drone America. Mike Richards, un inglese cinquantenne, è nel settore da una dozzina d’anni e lamenta una certa improvvisazione: «Ormai chiunque sappia fare lo spelling di Uav ha cominciato a farli». Loro lavorano con gli sceriffi, con grossi gruppi umanitari nei Paesi del Terzo mondo, anche con la Difesa. Ma la loro expertise è stata accumulata in passato, quando nell’indifferenza generale i droni si collaudavano all’aria aperta. Quanto all’attendismo della Faa, capisce, ma fino a un certo punto: «L’incolumità delle persone deve essere prioritaria. Ma se stiamo troppo tempo bloccati questo Paese potrebbe perdere una straordinaria opportunità economica». Come dimostra il caso di Flirtev che, non volendo bruciare il proprio vantaggio tecnologico, mantiene la sede qui ma sposta i collaudi in Oceania.
«È assurdo» commenta Mike Dikun, il responsabile dell’aeroporto privato di Stead, a pochi chilometri dal centro. «La nomina a sito di prova significava che, in strutture sicure come la nostra, si facevano i collaudi per scrivere regole su come i droni avrebbero potuto volare senza mettere in pericolo né l’aviazione civile né le persone a terra. E invece...». Mi mostra la rampa per i Chessna con cui qualche buona decina di residenti si spostano da uno Stato all’altro. E poi lo spazio enorme, a ridosso di colline che proteggono dai venti, riservato ai droni. E inutilizzato. Si accalora: «Tra un Phantom, più leggero di un’oca, e un Predator, c’è una differenza abissale e non ha senso trattarli nello stesso modo». Una cosa è poi la campagna, tutt’altra la città. «La nostra è una zona scarsissimamente abitata, desertica. Non a caso abbiamo ospitato così tante basi aeree e, oggi, anche i test dell’auto senza pilota di Google. I rischi per le persone sono bassissimi. Diverso invece fare consegne nei cieli congestionati delle città». Ovvero l’annuncio Amazon di un anno fa, giudicato da molti un eccellente colpo di pubbliche relazioni. Troppi ostacoli, troppe variabili da tenere di conto. Solo Sweeny giura di crederci: «Saremo i primi a farle. Amazon è agguerrita, ma i suoi concorrenti non si rivolgeranno mai a loro per le consegne. E qui entra in scena un fornitore indipendente come noi».
Nessun dettaglio è stato tralasciato. Mark Sharp, dopo aver pilotato per tre anni Predator in Iraq e Afghanistan, si è riciclato come insegnante. Insegna alla prima classe di universitari del Truckee Meadows Community College quel che serve sapere sui droni. Dice anche che «non occorre alcuna esperienza» per iscriversi al corso e che, dalle turbine ai flight controller, spiega da zero tutto lui. È l’America, bellezza! Dove un laureato in filologia romanza va senza scomporsi a lavorare per Goldman Sachs, alla faccia della propedeuticità. Lo stesso popolo, distante anni luce da come funzioniamo noi, che questa verginità programmatica rende così ben disposto verso ogni novità. La medesima attitudine nihil impossibile che fa dire all’ex colonnello dei marines Warren Rapp, oggi insediato al Nevada Advanced Autonomous Systems Innovation Center, di aver già trovato i soldi per far recintare da ogni lato, con una specie di super rete d’acciaio, l’equivalente di un campo da football dove i droni potranno finalmente essere collaudati all’aperto, nelle more delle decisioni federali.
Per una volta però anche i future friendly americani hanno dei dubbi. Solo il 21 per cento, constata un sondaggio commissionato dall’Associated Press, è favorevole ai droni commerciali. Ci sono le preoccupazioni della privacy, per quest’occhio di Medusa telematico sempre potenzialmente spalancato sulle vite degli altri. Ma pesa anche la reputazione bellica dei fratelli cattivi di queste macchine. Quelli che, con paradosso non raro, sotto il repubblicano e guerrafondaio Bush avevano colpito 49 volte (2004-2008) e con il mite e democratico Obama 409 solo in Pakistan (2009- 2014). La loro presunta chirurgicità si è infranta davanti all’evidenza dei bollettini di guerra che scontano una kill zone di 15 metri dei missili Hellfire sganciati dai Predator. Nessuno, detto altrimenti, in quel raggio sopravvive. La prima stagione della serie tv Homeland si snodava tutta intorno agli effetti a cascata di un bombardamento in cui muoiono civili innocenti. Il filmone Interstellar inizia con un lungo e struggente inseguimento dì un drone che si è perduto. L’opinione pubblica sembra dire, parafrasando Laocoonte quando mette in guardia dal cavallo di Troia, «temo i droni anche quando portano doni». Negli ultimi sei mesi dell’anno scorso sono stati denunciati venticinque casi di quasi collisione tra piccoli droni e aerei in atterraggio o decollo. Uno è successo al LaGuardia di New York quando il Republic Airlines Flight 6230 è stato «quasi colpito» da un velivolo amatoriale che volava oltre mille piedi, ovvero dieci volte l’altezza consentita. Molto più banalmente a dicembre, in un ristorante della catena Tgif a Brooklyn, un’elica di un drone ha tagliato un pezzo di naso a un fotografo che doveva immortalarlo. Ultimo viene il doppio disastro della Casa Bianca, inteso come conseguenza dell’imperizia alcolica di un pilota amatoriale e come colossale fiasco del sistema di protezione del presidente. In entrambi i casi, pessima pubblicità. Il New York Times ha affidato a una delle sue firme tecnologiche il compito di scagionarli. Titolo: «Diamo all’industria dei droni lo spazio per innovare». Tra gli argomenti un paragone con internet, nata per fini militari e poi diventata la formidabile piattaforma multiuso che conosciamo. Anche i droni, sosteneva un intervistato, potrebbero seguire la stessa traiettoria e stupirci con applicazioni che oggi, semplicemente, non sappiamo immaginare. Aprite i cieli, era il senso, e i robot volanti ci sorprenderanno. È il mantra che si ripetono a Reno ogni giorno. Quando il semaforo aereo diventerà verde, saranno i primi a scattare. E, davanti al dispiegarsi di questo futuro possibile, le slot machines saranno consegnate alla storia come modernariato meccanico, fosforescente, tendente al kitsch.
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VIRGINIA DELLA SALA, IL FATTO QUOTIDIANO 28/1 -
Tutti vogliono far volare i droni, ma nessuno ne è capace. Ho conosciuto fotografi che hanno colpito la sposa mentre usciva dalla chiesa o ferito gli invitati”. Antonio Cucci-niello ha 39 anni ed è un fotografo. Copre la cronaca per un quotidiano della Campania e un anno fa ha deciso di acquistare un drone con una fotocamera. Riprese aeree per feste, servizi fotografici per le cerimonie. “Poi l’Enac, l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile, ha regolamentato il settore e ho smesso”. Un servizio è pagato tra i 300 e i 1.000 euro. “Oggi mi limito a fare rilievi e fotogrammetrie dei terreni, volando su luoghi dove non ci sono persone. In pochi minuti scatto le foto e porto a casa qualche centinaio di euro. Un risparmio per gli architetti: ha idea di quanto costava, prima, fare lo stesso usando un elicottero?”
UN BUSINESS VOLANTE CHE VALE 7 MILIARDI
Il mercato globale dei droni, civili e militari, vale 7 miliardi di dollari. Il comparto civile ha due diramazioni: gli aeromodelli, con finalità ludiche e sportive che, indipendentemente da peso e dimensioni, non sono soggetti a regole. E gli aeromobili, il cui uso produce guadagno e genera mercato. Secondo le stime di Asd Reports, specializzato in analisi nel campo dell’aviazione, nel 2021 i droni avranno un giro d’affari di 130 miliardi di euro. In Europa, più di 400 imprese basano il loro mercato su questa tecnologia mentre l’Italia si divide tra piccole realtà territoriali e grandi industrie, come Alenia Aermacchi (Finmeccanica), che si è unita alla tedesca Cassidian e alla francese Dassault Aviation per sviluppare un drone da ricognizione. E come la Skyrobotic Srl di Narni che produce e sviluppa droni professionali in una struttura di 1.200 metri quadrati, è quotata in borsa e nel 2014 ha prodotto ricavi per 33,7 milioni di euro e un utile netto di 5,7 milioni di euro. È la società a cui sono state affidate le riprese del cantiere dell’Expo di Milano. Una spiegazione delle dinamiche di questo mercato è stata da fornita da Siim Kallas, commissario europeo ai Trasporti: “I droni per l’uso civile possono rilevare i danni alle infrastrutture, monitorare le catastrofi naturali e irrorare le colture. Potrebbero addirittura recapitare a casa i libri della vostra libreria online preferita. La tecnologia dei droni per l’uso civile – ha spiegato Kallas – sta raggiungendo la maturità c’è un significativo potenziale di occupazione. Nei prossimi 10 anni potrebbe rappresentare il 10% del mercato dell’aviazione, 15 miliardi di euro l’anno”.
FATTURATO È SPRINT: IL CASO DI ITALDRON
In Italia, il mercato dei droni è più esteso di quanto indichino i pochi dati esistenti. “Per capire la velocità con cui cresce, basti pensare a quanto ci siamo ampliati negli ultimi sei mesi, nonostante fossimo nati tre anni fa. Fatturiamo più di 300mila euro e abbiamo nove dipendenti di età compresa tra i 22 e i 40 anni. Siamo nati come una start-up con un investimento di poche migliaia di euro”. A Ravenna c’è un’azienda nata da un’idea. A raccontarla al Fatto è il suo direttore, Tommaso Solfrini. L’azienda si chiama Italdron ed è stata creata da tre giovani: uno specialista di elettronica, uno di meccanica e uno di marketing. Nella parte anteriore ci sono gli uffici. Dietro, i laboratori dove si lavora sui droni con stampanti 3d e frese. “Non abbiamo ancora una produzione industriale – spiega Solfrini – ogni esemplare è unico, un pezzo di artigianato digitale”. Italdron produce solo alcune delle componenti. Altre vengono dalla Cina “dove si possono trovare pezzi di alta qualità, ma anche elementi di bassissima lega. Si riduce il prezzo e si riduce la sicurezza del volo”. In Italia non c’è un indotto. Le aziende hanno chiuso.
IL CIELO DEL FUTURO SOMIGLIA ALLA FANTASCIENZA
“Si può immaginare che tra dieci anni i cieli saranno pieni di droni. Voleranno contemporaneamente e il loro valore dipenderà dai servizi che offriranno”. Carmine Cifaldi, direttore della Regolazione Navigabilità dell’Enac (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) conferma l’espansione del mercato dronistico italiano. “Molti problemi devono essere affrontati con le autorità: sicurezza, privacy e security. Con un drone si può fare spionaggio o trasportare un esplosivo. Si può invadere lo spazio aereo e interferire con i voli civili. Ma questa è un’altra storia, che coinvolge le forze dell’ordine”. Cifaldi spiega che, da aprile 2014, sono state accolte 30 domande per operare e nate più di 80 scuole per diventare piloti di droni. Inoltre le assicurazioni hanno elaborato specifici pacchetti. “Forse qui all’Enac siamo pochi, ma speriamo che di fronte al positivo sviluppo del mercato lo Stato ci dia la possibilità di riaprire le assunzioni”. Il regolamento Enac è entrato in vigore da sette mesi, per gestire quella che l’ente aveva definito una “zona grigia che sfociava nell’illegalità” di professionisti senza alcun controllo. “Prima bastava comprare il drone. Oggi invece si è tutto complicato – spiega Andrea, mentre fa volare il suo drone su via del Corso, a Roma, tra il pubblico che lo guarda incuriosito – Per fare business bisogna prendere un patentino e avere l’autorizzazione a volare. Poi compilare un manuale di volo ogni volta che si usa un drone. Ogni mezzo deve essere certificato dall’Enac e si deve distinguere tra due tipi di operazioni, quelle su aree non critiche e quelle su aree che lo sono. Ovvero quelle su zone disabitate come i campi agricoli e quelle dove invece ci sono soggetti che possono essere danneggiati. Come questa. E avere quest’ultimo tipo di autorizzazione è quasi impossibile”. Bisogna poi avere un’assicurazione che all’inizio costava anche 2mila euro l’anno, oggi 500 euro. Per ottenere la certificazione per ogni drone si deve seguire un iter che l’Enac può impiegare anche mesi a completare. “Si paga in base al tempo di analisi. È uno sfinimento e i funzionari sono pochi. Preferisco continuare a lavorare senza mettermi in regola. Tanto, nessun vigile urbano mi dirà di non farlo volare sulla testa della gente. Spesso non sanno neanche cosa sia”. Le richieste ufficiali arrivate all’Enac sono circa 300. Cento le imprese che hanno ricevuto la licenza per il lavoro aereo. “Se ognuna avesse acquistato in Italia almeno un drone del valore medio di 5mila euro – spiega al Fatto un addetto del settore – si muoverebbe un volume d’affari pari a 450mila euro”. Aziende e operatori, però, sono tutti concordi: per ogni operatore che si mette in regola, ce ne sono dieci che guadagnano nell’illegalità. “I soggetti che lavorano con i droni, in realtà, sono almeno 4mila – spiegano – e fanno lievitare questa proiezione a un movimento economico di circa 20 milioni di euro”.
L’AGRICOLTURA D’ORA IN POI: SARÀ AEREA E BIOLOGICA
Per sopravvivere, piccole e medie imprese uniscono le loro forze. “Stiamo creando un sodalizio commerciale: un’impresa certificata che produce droni, una che fornisce materiali e una che gestisce la formazione di piloti. Noi offriamo il servizio”. Così la Adron, che in un solo anno di vita fatturerà più di 300mila euro (a fronte di un investimento di 20mila euro per due droni), resiste ai vincoli dell’Enac, ma frammenta gli affari. Michele Picili e Omar Camerin, 29 anni, un anno fa hanno unito la passione per l’agricoltura e quella per l’elettronica e in una cantina hanno inventato un business per salvare le coltivazioni di granturco del Friuli Venezia Giulia. I loro droni sorvolano i campi e distribuiscono speciali involucri di cellulosa con uova di trichogramma brassicae, un insetto capace di uccidere la piralide, un parassita che infesta i campi. “Ci sono solo due modi per eliminarlo – raccontano – la disinfestazione chimica oppure il trichogramma, biologico. Se prima doveva essere distribuito a mano nel campo, tra piante alte e rigide, adesso può essere gestito più facilmente. Anche su quattromila ettari di campo, come quello che tratteremo nei prossimi mesi e che, da solo, ci frutterà 200mila euro”.
IL LABORATORIO DI SCAMPIA: SOCIALE E ECOLOGICO, MA IN CRISI
A Secondigliano, nel garage di una casa di Scampia con pannelli solari sul tetto, c’è il laboratorio di Air Mo-vie Lab. Nicola Formicola ha 28 anni ed è il project manager di questa nuova azienda. L’idea di costruire e lavorare con i droni è nata cinque anni fa in quello stesso garage. “Lavoravo nel settore dell’audiovisivo e avevo un amico con l’hobby del modellismo. Costruiva aerei telecomandati e gli chiesi se era possibile mettere una telecamera su un aereo”. Domenico Pagliaro impiegò un anno per sviluppare l’idea, informandosi tramite siti web, blog e forum. “Realizzammo il prototipo per riprendere le nostre arrampicate. Abbiamo unito la passione per lo sport e la tecnologia e abbiamo scoperto i droni”. Nonostante il mercato sia in crescita, non è facile lavorare. Nicola perfeziona il drone, lo brevetta, lo rende ecologico con una struttura in legno. Viene contattato da una casa di produzione indiana per girare un film. Il service sembra avviato. Almeno fino ad aprile del 2014, quando Air Movie Lab si ferma con l’emissione del nuovo regolamento. “La soluzione migliore per noi – ha spiegato Nicola – è stata vendere i droni in kit, in modo che la responsabilità civile in caso di danni fosse del costruttore. Li diamo in comodato d’uso e in cambio chiediamo agli operatori di procurarsi le licenze e lavorare per noi nelle varie zone d’Italia”. Ma non c’è guadagno. “Rientriamo a stento nelle spese. Come sempre, però, abbiamo un approccio creativo alla vita. Il regolamento non danneggia le aziende grandi, con un mercato avviato alle spalle. Ma per noi è troppo. Ci costringe a guardare all’estero, alla Francia ad esempio, ma intanto rimaniamo qui. Organizziamo laboratori con gli istituti tecnici di Scampia e insegniamo ai ragazzi come applicare le loro conoscenze di elettronica al settore dei droni. Ci sembra al momento il miglio modo per creare il mercato di domani”.