Marco De Martino, Vanity Fair 22/04/2015, 22 aprile 2015
SEAN PENN LA MISURA DELLA MIA SOLITUDINE
È una bellissima giornata di sole, e fuori dalla finestra c’è una famiglia di pellicani che si contende un granchio. Siamo in un piccolo hotel sulla riva dell’oceano a Malibu: la spiaggia è la stessa dove Sean Penn è cresciuto giocando con i suoi amici Charlie Sheen e Rob Lowe. Dove sicuramente è nato il personaggio di Jeff Spicoli, il fattone di Fuori di testa, suo primo film famoso. La stessa dove fa surf ancora adesso. Anche oggi? «No, oggi il mare è troppo calmo: riesco a fare surf tutti i giorni solo quando sono nella mia casa alle Hawaii», mi dice accendendosi la prima delle quattro American Spirit che fumerà durante la nostra intervista.
A dividerci c’è un tavolino con sopra una caraffa di tè freddo al limone che lui guarda con diffidenza, seduto a gambe aperte su una seggiolina che scompare sotto al suo fisico imponente. A 54 anni, Penn può ancora permettersi di correre sulla spiaggia con il busto perfetto di uno dei bagnini ventenni di Malibu. Lo si vede così anche in una scena di The Gunman, il thriller per cui ci incontriamo e che esce in Italia il 7 maggio, mentre corre o fa surf nel Congo infestato da killer che per tutto il film lo inseguono come i paparazzi a Hollywood.
In The Gunman ci sono tante sparatorie, quindi chiedo a Penn che cosa lo abbia portato a disfarsi della sua collezione di armi. Ne aveva più di cento, ma durante un gala di beneficenza per Haiti ha annunciato di avere donato all’artista Jeff Koons tutte le sue «vigliacche macchine di morte» per trasformarle in un’opera d’arte (che, come può accadere solo a Hollywood, è stata subito comprata per un milione e mezzo di dollari, prima ancora di esistere, dal giornalista della Cnn Anderson Cooper). «Le mie convinzioni non sono cambiate: non sono contrario alle armi, a meno che non si tratti di armi da assalto», mi risponde. «E sono a favore di controlli periodici sui proprietari, e su come tengono le armi in casa, che però in questo Paese non vengono fatti», continua prima di lanciarsi in una lunga disamina sulle leggi americane. Quando riesco finalmente a interromperlo, gli chiedo di nuovo che cosa lo abbia convinto: «Una ragazza!», dice ridendo.
Chissà perché mi ero immaginato che quella ragazza avesse completamente cambiato Sean. Che, con la sua bacchetta magica a forma di Oscar, quella bionda fatina sudafricana avesse quietato il più complicato e rissoso attore hollywoodiano, quello che ha imparato a bere da Bukowski e a fare a pugni da Sugar Ray Leonard. Che di quella tempesta umana grazie alla bellissima Charlize Theron fosse rimasto solo il talento infinito di un attore che dopotutto è nato lo stesso giorno di Robert De Niro, e che è capace di trasformare la propria autodistruttività in grande cinema: nel killer di Dead Man Walking, nell’ex galeotto di Mystic River e in tutti gli altri incredibili personaggi che ha interpretato.
Dopo aver letto come lei ha parlato della loro storia («Sean è un figo vero, e io sono una ragazza fortunata: non ci saremmo mai sognati di vivere quello che stiamo vivendo»), pensavo insomma che questo nuovo amore lo avesse trasformato, e invece a un certo punto della nostra conversazione mi torna in mente quello che Woody Allen ha detto di lui una volta: «Dopo un po’ che stai con Sean capisci che è molto sensibile, e che sta sempre male».
Quel momento per me arriva dopo che mi ha raccontato dei viaggi che amava fare guidando da una costa all’altra degli Stati Uniti. I viaggi di Sean Penn somigliano molto alle sue conversazioni, che hanno una partenza ma non una meta e sono piene di fermate improvvise e di lunghe diversioni. Una delle quali ci ha portato a parlare di come sta adesso: «È come quando prima dicevamo del mio aumentato pragmatismo nel fare politica, e di quello che è successo nella mia vita personale. Tutto questo mi ha reso molto disciplinato nel godere dei miei giorni felici. Ma sono altrettanto disciplinato nel non aspettarmi lo stesso il giorno seguente». Che cosa ha imparato dalla vita? «A prendermi finalmente delle pause, a staccare dall’emergenza totale in cui si trova il mondo, dal rumore di fondo dell’angoscia». Deve prendersi delle pause da se stesso? «No, ora bevo molto meno di una volta. E sto a casa molto di più».
Mi lancia un sorriso dolcissimo guardandomi coi suoi occhi azzurri e in quel momento capisco che grazie a Charlize qualcosa è veramente cambiato, ma che se il destino ti fa nascere Sean Penn non ti puoi fidare. Devi sempre fare i conti col tuo karma. Non tanto perché in preda a un flashback ti puoi ritrovare di nuovo a tenere per le caviglie un paparazzo fuori dal balcone al nono piano di un hotel di Macao, come lui fece a metà anni Ottanta. Quello non credo accadrà mai più. Il karma di Sean è molto più complicato: ha a che fare con i suoi genitori, col sentirsi sempre un po’ fuori posto, e con la sua complicata relazione con le donne. Non è una questione di tutela della privacy se ora va piano con Charlize: è solo saggia prudenza.
La privacy la proteggeva anche ai tempi della sua unione con Madonna: il giorno del matrimonio usò una delle pistole di cui ora si è disfatto per sparare agli elicotteri dei giornalisti. Fu sposato con quella che era la donna più famosa del mondo dal 1985 al 1989, gli anni più tempestosi della sua vita: la buttò in piscina perché aveva parlato con un altro, sfondò un muro con un pugno per gelosia, finì in galera per 33 giorni dopo aver preso a pugni un paparazzo. Ora ricorda Madonna con affetto: «Quelli per lei erano anni di fuoco, e se glielo chiedeste sono convinto che direbbe la stessa cosa di me. Ma non commettete l’errore di dare troppa importanza agli incendi pubblici: furono tutte cose futili». Più difficili i rapporti con la seconda moglie Robin Wright, con cui si è lasciato e ripreso dopo 14 anni di unione altrettanto tempestosa e da cui ha avuto i due figli Dylan (24) e Hopper (21). Lui di lei non parla. Lei qualcosa dice, a pagina 78.
Con un passato come questo, non c’è da stupirsi se Sean Penn si fa vedere mano nella mano ovunque con Charlize ma non commenta quando esce la notizia che ha assunto la paternità legale di Jackson, 3 anni, il figlio adottivo di lei. Ha già diretto un film con lei come protagonista, The Last Face, ma smentisce di averle proposto di sposarsi: «Sono stato frainteso», ha detto. «Quando mi hanno chiesto genericamente se prenderei in considerazione un altro matrimonio ho solo detto che potrei farlo, che non sono contrario per il semplice fatto di avere due matrimoni falliti alle spalle».
Quei due fallimenti pesano ancora: «Inizialmente in un divorzio dai la colpa all’altra persona. Ma poi cominci a vedere le tue mancanze verso di lei, verso il matrimonio, verso l’amicizia e verso te stesso», ha dichiarato. «Il divorzio è un trauma estremamente sottovalutato. Ti scuote alle fondamenta. E io vengo da una famiglia che è rimasta unita».
Sean Penn parla spesso di suo papà Leo, che lui considera un eroe, anche perché lasciò i set cinematografici per volare sui bombardieri americani sopra la Germania, e quando tornò a casa a Malibu si ritrovò senza lavoro, inserito, per via dei suoi ideali di sinistra, nelle liste nere del maccartismo. Credo nasca da lì la sua ambivalenza verso Hollywood, di cui mi parla raccontandomi di The Gunman: «Mi identifico con il personaggio di questo film perché conosco bene il mondo dei soldati privati che lavoravano in Afghanistan e Iraq: quando visitavo il Paese al tempo della guerra erano loro a garantire la sicurezza fuori dalla zona verde dove stavano gli americani, e tra di loro ho ancora buoni amici. Ma ho fatto questo film anche perché ammiro Pierre Morel, il regista, e ho pensato che avevo qualcosa da imparare da lui. A Hollywood ormai i registi sono come stilisti di moda al servizio degli studios, e lui non lo è, è un’eccezione alla regola».
Come Sorrentino? «Mi lasci dire che con Sorrentino lavorerei di nuovo immediatamente, senza neppure leggere la sceneggiatura». Ha più volte detto che avrebbe smesso di recitare, eppure è ancora qui: perché? «Dipende dal progetto, ma in generale preferisco la regia, se devo fare cinema». Mi racconta che il lavoro sul set di The Gunman gli ha impedito per cinque mesi di andare ad Haiti dove, dopo il terremoto del 2010, la sua J/P Haitian Relief Organization ha costruito campi rifugiati che a un certo punto hanno ospitato 60 mila persone, aiutando ora il loro ritorno alle abitazioni. «I media tendono a dare spazio alle cose negative, e ce ne sono ancora, basti pensare alla corruzione e a una costituzione che ha bisogno di una riscrittura più di una cattiva sceneggiatura di Hollywood. Ma ci sono anche i progressi, che hanno del miracoloso, e che per semplificare non vengono raccontati».
Negli Stati Uniti l’attivismo di Sean Penn spesso viene sbeffeggiato, cosa che non lo turba affatto: «Ci ho fatto il callo: in molti casi credo che i critici abbiano anche ragione a mettere in discussione le motivazioni di certi attori o di certi politici». Certo, è difficile difendere Penn quando per esempio si mette inopinatamente in mezzo tra Argentina e Inghilterra per dirimere la questione delle isole Falkland. Ma spesso dietro il suo impegno c’è una storia personale che vale la pena di essere raccontata. Nel caso di Haiti, nasce da suo figlio Hopper, che rischiò di morire per un brutto trauma cranico causato da un incidente con lo skaterboard. Erano i mesi finali della relazione con Robin Wright, e quando il figlio finalmente uscì dall’ospedale e tornò a vivere con la madre, Penn ricominciò a bere. Si ubriacò per quattro notti di seguito, e al quinto giorno si mise a guardare la televisione di pomeriggio. Fu il pomeriggio in cui arrivò la notizia del terremoto ad Haiti, e lui si ricordò la morfina che aveva tolto il dolore al figlio. All’improvviso la sua vita riacquistò uno scopo.
A qualcuno può sembrare un cattivo film hollywoodiano, ma resta il fatto che l’organizzazione da lui fondata sulla spinta di quell’emozione dà lavoro a 360 persone a tempo pieno, il 95 per cento haitiani. E persino i generali del Pentagono, che all’epoca dell’Iraq denigravano Penn, ora lo ammirano per i risultati che ha ottenuto. «Credo che Haiti mi abbia reso più pragmatico: non penso di avere una mente complessa ma sicuramente ora rifletto molto di più, sono meno impulsivo».
Grazie ad Haiti, al figlio e a una fata bionda, qualcosa è cambiato. Qualcos’altro no. «Le rocce continuano a piacermi più degli umani: anzi guardi, ci sono dei fossili nel Topanga Canyon qui vicino che mi piacciono veramente tanto», mi dice, scherzando, alla fine del nostro incontro.
Torna serio: «Il mio problema non è con gli altri. Pensi se si potesse misurare la gioia, il dolore, il senso di soddisfazione nella propria vita. Se ci fosse un indicatore come quello della benzina che ti dice quanta solitudine senti. Ecco, se esistesse, nel mio caso segnerebbe sempre il massimo quando sono con gli altri».