Sara Faillaci, Vanity Fair 22/04/2015, 22 aprile 2015
MARIO ROSSETTI, IL BENE NEL MALE
«Anche nel bene c’è sempre il male, e viceversa. Noi, nel male che abbiamo attraversato, abbiamo trovato del bene».
Basta una prima conversazione al telefono per riconoscere in Mario Rossetti un uomo che è andato oltre ai propri limiti. La voce è pacata, a tratti suona quasi distaccata, come se niente più potesse ferirlo. E forse è così.
Fino al 23 febbraio 2010, la sua era una vita normale, anzi privilegiata: brillante carriera – dirigente in aziende come Benetton, Omnitel e Fastweb –, moglie francese, tre figli, una bella casa in centro a Milano, un’altra appena ristrutturata sul Lago di Como. Le foto sparpagliate per casa raccontano la loro quotidianità, i bambini che gattonano sul prato, le vacanze, i viaggi.
Poi, all’alba di quel giorno di febbraio, suona alla porta la Guardia di finanza. Rossetti apre in pigiama. Gli dicono che c’è un mandato d’arresto nei suoi confronti, che devono perquisire la casa. Lui non capisce: tre anni prima è stato sentito come indagato nell’ambito dell’inchiesta Fastweb-Telecom Italia Sparkle, su un giro milionario di false fatturazioni, ma non ne ha più saputo niente. Non ha nemmeno un avvocato: al volo ne trova uno che è suo amico perché corrono insieme la mattina, e che a quell’ora è già sveglio. Quel giorno stesso, ammanettato, lo portano a San Vittore e lo sbattono in cella. L’accusa è pesante: associazione a delinquere transnazionale, finalizzata alla frode fiscale. La sentenza di assoluzione di primo grado – Rossetti è estraneo ai fatti – arriverà solo il 17 ottobre 2013. Nel frattempo si sarà fatto cento giorni di carcere preventivo (tra San Vittore e Rebibbia) e otto mesi di arresti domiciliari.
E proprio quando l’incubo sta per finire – quando ha trovato la forza di sopravvivere al carcere, e la fiducia di poter vincere la battaglia giudiziaria – il destino si accanisce. Il 4 gennaio 2012, mentre la famiglia è in montagna, il figlio più piccolo, Leone, 3 anni, si sveglia con gli occhi storti. Quando arriva al pronto soccorso di Aosta, ha iniziato anche a zoppicare. Dopo una giornata di accertamenti la sentenza, questa sì senza appello: Leone ha un tumore al cervello, una tipologia rarissima (venti casi all’anno in Europa), incurabile. Morirà due anni dopo.
Quando Rossetti mi invita a casa sua per parlare del libro che ha scritto (Io non avevo l’avvocato), non so se si potrà parlare del dolore più grande. Eppure, come «un lutto del genere supera la sofferenza per l’ingiusta detenzione, costringendoti ad andare oltre» (parole sue), quell’unica pagina nel libro sulla malattia del figlio fa lo stesso effetto su di me: supera il resto.
Nella casa, un attico pieno di luce con un terrazzo rigoglioso di piante, le foto di Leone sono ovunque. L’aria è allegra, serena. Giorgio e Louise, 14 e 13 anni, arrivano da scuola e si mettono a giocare con cane e gatto sui divani. Sophie, bella e curatissima, non ha nulla della persona che si è lasciata andare. Siede in terrazza, dietro gli occhiali da sole.
Perché ha scritto questo libro?
«I miei figli ricordano ogni dettaglio di quella mattina. La casa piena di finanzieri che ci sequestrano tutto, persino le catenine del battesimo con le dediche dei nonni, il padre portato via. Mi hanno visto sparire tre mesi e mezzo in carcere, poi recluso in casa, e non potevano nemmeno invitare un amichetto a giocare. Non si pensa mai alla violenza che subisce la famiglia di un arrestato, a maggior ragione se innocente. Una spiegazione di ciò che è successo dovevo dargliela».
Sua moglie come ha reagito?
«Tirando fuori le palle. Ci avevano sequestrato anche i conti correnti, e lei aveva tre bambini cui dare da mangiare. Ha telefonato agli amici, e la sera aveva i soldi per vivere. È a discrezione del giudice dare un minimo di disponibilità economica alla famiglia per il sostentamento, a noi l’hanno negata».
Le hanno dissequestrato i conti solo 3 anni dopo: ha amici generosi.
«Il bene di cui parlavo è anche questo: ci hanno aiutato gli amici stretti, ma anche quelli da cui non te lo aspetti. Il denaro non è per tutti un’ossessione, e la generosità non è proporzionata alla ricchezza».
Ai bambini che cosa avete detto?
«Spesso si racconta ai figli che papà è partito per un lungo viaggio. Mia moglie ha fatto una scelta completamente diversa. Tenga conto che mio padre è un ufficiale dei Carabinieri in pensione, quindi i miei figli sono cresciuti con i suoi racconti di indagini e blitz, abituati a stare dalla parte delle forze dell’ordine, dei buoni. All’inizio quindi ha detto che papà stava aiutando la polizia a prendere i cattivi. Quando ho potuto telefonare, abbiamo detto la verità: c’è stato un errore, ma tranquilli perché papà non ha fatto niente».
In carcere è finito tra delinquenti comuni.
«Ho chiesto io di andare in una cella da sei. Avevo bisogno degli altri, mi hanno aiutato loro a sopravvivere. Un’altra cosa buona di questa esperienza: convivi con persone molto diverse da te – ladri, spacciatori, delinquenti – e scopri che hai tanto in comune con loro: bisogni, paure, debolezze, il rapporto con i figli».
Un colletto bianco tra i ladri e gli spacciatori. Non l’hanno trattata male?
«No. Il fatto di essere vecchio – a 45 anni in carcere lo sei – e di essere entrato come grande delinquente, quello della mega truffa, mi ha fatto guadagnare rispetto. Poi compravo a tutti le sigarette coi soldi che mi dava mio padre».
Si è dato una spiegazione, alla fine, per il fatto di essere stato arrestato?
«L’indagine non sarebbe andata sui giornali senza nomi eccellenti; e se vuoi arrestare un eccellente come Silvio Scaglia devi arrestare anche il responsabile dei bilanci di Fastweb. Il mio nome non c’è nelle intercettazioni ma la tesi dell’accusa, che peraltro ha chiesto l’appello, è che non potevo non sapere».
Invece poteva?
«Io stesso ho dubitato: avrei dovuto accorgermi della truffa? L’ho chiesto a miei amici, consulenti per la procura. Mi hanno risposto che, senza accedere al contenuto delle rogatorie internazionali, mi sarebbe stato impossibile».
In carcere innocente: come si fa a non impazzire?
«Capisco di più chi si suicida – quattro al mese in ogni carcere – e non sempre lo fa perché colpevole: la vergogna sociale è un peso insostenibile. Io, da maratoneta, mi sono dato obiettivi di resistenza a breve termine: i primi cinque giorni di isolamento, il primo mese senza poter telefonare, e così via».
Nessuna delle persone che conosce ha dubitato della sua innocenza?
«Nel nostro mondo si sa chi è onesto e chi no. Nel privato non ho mai avuto motivi di imbarazzo, neanche ai domiciliari. Anzi, vista a posteriori, quella clausura obbligata mi ha fatto un grande regalo, altro bene nel male: otto mesi con Leone. La mattina lo svegliavo e lo vestivo per andare all’asilo, il pomeriggio giocavo con lui. Me lo sono goduto come, lavorando sempre, non mi ero goduto gli altri».
Perdoni la domanda: ha mai pensato che la malattia di suo figlio possa essere collegata al trauma del suo arresto?
«Me lo sono chiesto, e non ho risposte. Non sappiamo che cause avesse il tumore di Leone. Quello che ti dicono in generale i medici è che le malattie, tutte, sono tenute sotto controllo dal sistema immunitario: quando le difese si abbassano, possono esplodere».
Spero di non offenderla: un anno dopo, in questa casa non si respira lutto.
«Non mi offende, anzi. Il ragionamento, mio e di mia moglie, è che i nostri figli hanno 13 e 14 anni, un’età che non tornerà. Non posso metter loro il lutto al braccio perché il padre è in galera o perché hanno il fratellino ammalato: da genitore sento la responsabilità di lasciarli liberi di vivere la loro età, nella sua spensieratezza. Non puoi scaricare la tua angoscia su un bambino che si porterebbe dietro il trauma tutta la vita. Non puoi permettertelo».
Ci chiamano per pranzo. Sophie va dritta al punto. In Omnitel, dove si sono conosciuti, faceva la cacciatrice di teste, ma da quando ha avuto i figli ha fatto solo la mamma. «Mario l’ho scelto: ho visto in lui un uomo che avrebbe messo la famiglia al centro. Dopo un anno eravamo sposati, dopo un altro è nato Giorgio. Siamo molto simili, persone pratiche a cui non piace piangersi addosso. Quando l’hanno arrestato, sono andata avanti con la nostra vita, bambini a scuola e tutto il resto. Quando si è ammalato Leone, uguale: mi sono concentrata sulle cose pratiche, le cure di cui aveva bisogno. Abbiamo fatto una vita normale, fino all’ultimo giorno. Se ho il mio momento di sconforto scendo giù in chiesa. Se c’è un dono che ho avuto, in questa enorme perdita, è la fede: prima non ero credente».
Mario, anche lei è credente. Non è arrabbiato con Dio?
«La rabbia non serve a nulla e le cose succedono. Il mio approccio è prendere quello che viene. La vita è anche sofferenza, un percorso troppo in discesa non vale la pena di essere vissuto perché ti lascia vuoto, solo scalando la montagna capisci chi sei. Io, che vivevo con l’auricolare fisso nell’orecchio, sono stato un anno senza telefono. A quel punto sei costretto a guardarti non per come ti piacerebbe essere, ma per come sei davvero. E acquisti una vista laterale: ti preoccupi anche di quello che accade intorno a te».
Come si vive dopo la morte di un figlio?
«Non c’è una parola in italiano per descrivere un genitore senza un figlio. Sa perché? Perché è qualcosa che non si può nemmeno pronunciare. Inutile sforzarsi di capire: fino a quando non ci sei dentro non puoi immaginare cos’è, né come reagirai. Non abbiamo perso la speranza neanche quando Leone era ammalato. Oggi la speranza è che la vita vera inizi un istante prima che questa terrena finisca, e che un giorno ci si ritrovi tutti».
E per chi non ha il dono della fede?
«Lì interviene la vita, che è fortissima: so di altre famiglie dove dopo i lutti sono nati altri bambini; oppure, come nel nostro caso, trovi la forza per quelli che restano. Ho letto di recente un libro dov’è scritto: “Se non puoi aggiungere altri giorni alla vita, aggiungi vita alla vita, vivendo il presente”».