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 2015  aprile 24 Venerdì calendario

SCONCERTI: «DIFENDO IL CALCIO ALL’ITALIANA. NOI COME I TEDESCHI»

«Per diventare uno storico del calcio, hai bisogno di non darti ragione», suggerisce Mario Sconcerti. Questione di metodo, che non è il WW con cui si giocava negli anni Trenta. È un metodo più semplice, cartesiano: «Devi fare le domande e cercare le risposte». Sconcerti è la firma più autorevole del giornalismo sportivo, maestro di penna e piccolo schermo. La sua Storia delle idee del calcio è diventata oggetto di studio, all’università. Il maestro si diverte ancora a trovare un filo rosso che tenga assieme il calcio con altre storie. Questa volta – nel suo ottavo libro – si viaggia attorno ai gol. Sono la polpa e il pretesto. «Parlando di calcio si parla di vita, come se parlassimo di teatro o di evoluzione nella produzione dell’acciaio. Il calcio racconta la vita. Dopo di che resta un gioco, ma il gioco si evolve come tutto il resto. Il fatto è che la gente non ha voglia di avere memoria storica, non ha voglia di ricordare. Il calcio è così. Come tutte le cose fortemente attuali, nel momento in cui non ci sei, scompari».
Già, la dittatura del presente. Ma proprio per questo è importante avere anche una dimensione storica: aiuta a capire un sacco di cose. Prendiamo il primo gol che passa alla storia. Siamo nel 1872, decide la prima finale della Coppa d’Inghilterra. Lo segna un certo Morton Betts, con un tap-in su un cross da destra. Somiglia al gol con cui Lulic ha fatto fuori il Napoli nell’ultima semifinale di Coppa Italia. Non è cambiato niente?
«È cambiato il mondo, c’è una diversità nella nozione del tempo, ma è rimasto l’archetipo. Il calcio, all’inizio, era cercare di divertirsi con la fatica fisica, come oggi si va in palestra. L’incentivo era di portare la palla più lontano possibile, tanto è vero che non c’erano le porte. Come nei cartoni animati giapponesi, ognuno andava avanti da solo. Poi dal dribbling-game si passa al passing-game».
Un salto di qualità fondamentale?
«Comincia l’idea del passaggio, l’idea che la vita si costruisce insieme ad altri. Perché non riesco a capire Sacchi quando detesta il gioco all’italiana? Perché comunque sia è un modo di usare lo spazio. Sacchi lo trovava con l’aggressione, la pressione alta; il calcio all’italiana lo trova lasciando spazio all’avversario. E allora, che differenza fa?».
Beh, per me fa molta differenza, perché una cosa è costruire e altro è tirare su una linea di difesa a 20 metri dalla porta e aspettare che gli altri facciano tutto. Il calcio è uno sport, uno spettacolo che prevede anche la presenza di terze persone.
«Sono molto convinto della peculiarità del calcio all’italiana, ma non mi interessa particolarmente difenderlo. Il fatto è che non puoi giudicare una partita senza partecipazione emotiva. Nel calcio conta il sentimento».
Ma conta anche la qu alità del gioco.
«Certo, se serve a farmi vincere. Ci sono due modi fondamentali di giocare e ognuno sceglie quello che preferisce. Esempio: nel 1952 Alfredo Foni diventa allenatore dell’Inter e conquista due scudetti, dopo che Juve e Milan avevano vinto gli ultimi campionati segnando una media di 90 gol a testa, con gli attaccanti svedesi e danesi come Nordahl e Hansen».
Dici che il catenaccio nasce come antidoto contro la potenza fisica di questi attaccanti?
«L’Inter vince il campionato segnando 46 gol, più o meno la metà di quelli che avevano segnato Juve e Milan, semplicemente spostando un’ala e mettendo un difensore centrale in più. La cosa non dimostra niente, ma ti fa venire in mente l’idea che il gol equivale al non-gol. Tre per zero fa zero».
Okay, funziona sul piano del risultato...
«Ma non c’è altro che conti. Lo spettacolo è la vittoria o la sconfitta dell’avversario».
Non sono d’accordo. Questa storia del risultato in Italia è un’ossessione. Non ci si preoccupa di far crescere bene un certo tipo di calciatori, di elevare la tecnica, di migliorare il gioco. L’unica ansia è il risultato. Il resto non esiste, mentre in altri Paesi sì. Non solo in Spagna, vediamo cosa hanno fatto i tedeschi negli ultimi dieci anni...
«Siccome il calcio viene dalla storia, dico una cosa ed è bene che ci pensi. I tedeschi sono altri italiani. Noi siamo stati assieme con le stesse leggi, le stesse regole di vita, lo stesso Papa per secoli nel Sacro romano impero che andava da Lubecca ad Agrigento. I tedeschi sono come noi. Muller è italiano, Beckenbauer è italiano-tedesco, Tardelli è tedesco. Non è un caso che Italia e Germania abbiano gli stessi risultati nel calcio».
Se parliamo di gol, che è il nostro filo rosso, non possiamo dimenticare Gigi Riva, una specie di archetipo, tuttora il miglior bomber in azzurro.
«Ci sono vari modi per cercare di definire un fuoriclasse. Quello che uso io è che deve prendere 10 di tecnica, 10 nella morale, 10 nella forza atletica e 10 nel modo di gestire queste tre cose. Riva si muoveva come un esercito. E’ vero che Burgnich mi disse quella cosa lì, che quando scendeva verso rete sembrava la migrazione di un popolo».
L’Italia ha avuto grandi attaccanti, e ha prodotto dei numeri 10 di livello mondiale: Baggio, Mancini, Zola, Totti e Del Piero sono più o meno contemporanei. Eppure in Nazionale, quasi sempre c’era posto solo per uno di questi. Siamo l’unico Paese al mondo che ha discusso se Rivera e Mazzola potevano giocare assieme. Con Del Piero e Totti, il tema si è riproposto. Sarà un problema mettere assieme due fuoriclasse?
«Ma il nostro calcio è così. Non si possono avere più di quattro giocatori addetti alla fase offensiva e mai meno di sei deputati alla fase difensiva. Noi il massimo che ci siamo concessi, per molto tempo, è stato il 7-1-2. Il trequartista comincia a diventare seconda punta già con Rivera, quando lo mettono in attacco accanto ad Altafini, perché come mezzala lo passavano tutti».
Da noi si premia chi fa gol in modo sproporzionato rispetto all’autore dell’assist. Sbagliato.
«L’Italia ha sempre avuto questa mentalità. Con Brasile e Argentina ha costruito più giocatori di tutti. E’ stata quattro volte campione del mondo. Prendiamone atto».
Per te quali sono stati i nostri anni migliori?
«I Sessanta e i Novanta, quando ci sono stati i grandi allenatori. Herrera inventa la squadra moderna».
E tra gli altri big chi mettiamo? Rocco, Bearzot, Sacchi, Capello, Lippi...
«Dico anche Bagnoli, ha portato il pressing a centrocampo, andava a marcare il regista. Ma è chiaro che tra cent’anni si parlerà di Rocco, Herrera, Sacchi e non di altri. Sacchi ha inventato un metodo che però è esasperato: non è un modello ripetibile. Ma quello che mi preoccupa è la stranezza attuale. Abbiamo sempre avuto grandi giocatori, nel 2006 siamo andati al Mondiale con Totti, Del Piero, Cannavaro già vecchi. Da dieci anni non ne vengono fuori più».
E come lo spieghi?
«Mi sono dato delle risposte che però non bastano. E’ vero che non c’è più la strada e che l’oratorio ha perso importanza. E’ vero che ci sono un sacco di stranieri, ma i campioni se ci fossero da qualche parte, in Serie B o C li vedresti. Molto dipende dalle scuole calcio. Non c’è più selezione, tu giochi perché paghi. Dobbiamo ricominciare a produrre campioni. Se eravamo abituati alla media dell’8 adesso ci può bastare il 6 e mezzo. Ci salverà la normalità di tutti».