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 2015  aprile 23 Giovedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LO PORTO È MORTO


ROMA - Giovanni Lo Porto, l’italiano rapito da Al Qaeda nel gennaio 2012 in Pakistan, è stato ucciso durante un’operazione dell’antiterrorismo statunitense lo scorso gennaio al confine con l’Afghanistan. L’obiettivo del drone della Cia era un compound di Al Qaeda, dove Lo Porto si trovava insieme ad altri ostaggi americani. Con Lo Porto, è morto l’esperto di sviluppo Warren Weinstein, prigioniero dal 2011. Nella stessa operazione è stato ucciso anche Ahmed Farouq, un cittadino statunitense leader di Al Qaeda. Adam Gadahn, altro americano divenuto un importante leader di Al Qaeda, è morto sempre a gennaio, in un altro raid.
"Non ci sono parole per esprimere in modo adeguato il nostro dolore per questa terribile tragedia" ha dichiarato Obama da Washington. "A nome degli Stati Uniti chiedo scusa a tutte le famiglie coinvolte. Come presidente e comandante in capo mi assumo la responsabilità di tutte le operazioni antiterrorismo, compresa questa", ha detto il presidente in conferenza stampa poco dopo la diffusione della notizia. "Non sapevamo che all’interno del compound ci fossero anche i due ostaggi. Ho parlato con la moglie di Warren e con il premier Matteo Renzi. Come marito e padre posso solo immaginare l’angoscia e il dolore che le famiglie stanno vivendo oggi", ha aggiunto Obama. "Verificheremo e renderemo pubblici tutti i dettagli dell’operazione, perché i familiari devono conoscere la verità, anche se alcuni punti rimarranno segreti. Questa operazione è stata condotta seguendo le linee guida ed era indirizzata a colpire un compound di Al Qaeda per bloccare i terroristi".
Il presidente poi ha parlato di Lo Porto e Weinstein: "Il lavoro di Giovanni l’ha portato in tutto il mondo, ad Haiti e in Pakistan. Era pieno di passione. Il suo lavoro riflette l’impegno dell’Italia, che è un alleato molto importante. Siamo legati all’Italia dagli stessi valori", ha detto e concluso: "L’esempio di questi due uomini brillerà a lungo, sarà una luce per chi è rimasto". Le autorità americane pagheranno un risarcimento a entrambe le famiglie dei due ostaggi, ha detto il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, aggiungendo che Obama ha ordinato di rivedere i protocolli seguiti per le operazioni che prevedono bombardamenti con i droni, per valutare se si rendono necessari dei cambiamenti.
Erano tre anni che non si avevano più notizie di Lo Porto. Assieme a padre Paolo Dall’Oglio, era uno degli ultimi due italiani ancora prigionieri di bande di sequestratori. Oggi nella casa di Palermo di Lo Porto sono arrivati amici e parenti per stare accanto alla madre, Giusi Felice e ad alcuni dei fratelli di Giovanni. Nell’abitazione, al piano terra di via Pecori Giraldi, a Brancaccio, anche i carabinieri che hanno portato la notizia. La madre da quando il figlio è stato rapito, raccontano i vicini di casa, "è diventata un’altra persona: è cambiata anche fisicamente. Si è trasformata e la sua unica speranza è stata quella di riabbracciare Giovanni". Il fratello di Lo Porto ha spiegato di aver ricevuto la notizia in mattinata: "Abbiamo saputo della morte di mio fratello questa mattina, ci ha telefonato la Farnesina, che ci è sempre stata molto vicina" ha detto, "non ho molto da aggiungere, Obama ha chiesto scusa? Grazie".
Giovanni Lo Porto, il cooperante siciliano ucciso in Pakistan
"Lo Porto - ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella - si trovava in una terra lontana in missione di solidarietà. E’ stato un portatore dei nostri valori di pace e di dialogo internazionale. Partecipo al grande lutto della famiglia e sono vicino al mondo della cooperazione internazionale che, per l’aggravarsi delle situazioni di crisi, è sempre più esposto a insidie e rischi gravissimi".
"L’Italia porge le più sentite condoglianze alla famiglia di Giovanni Lo Porto", ha dichiarato Renzi. "Esprimo profondo dolore - ha aggiunto il premier - per la morte di un italiano, che ha dedicato la sua vita al servizio degli altri. Le mie condoglianze vanno anche alla famiglia di Warren Weinstein". Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, aveva personalmente informato ieri il presidente del Consiglio. L’Unità di crisi ha immediatamente preso contatto con la famiglia Lo Porto per comunicare la notizia e oggi Renzi ha parlato con la madre che gli è stata passata dal team della unità di crisi della Farnesina che è a palermo, con l’assistenza psicologica che da oggi è a casa Lo Porto. "Aveva la mia età" ha detto il premier alla mamma nel corso della loro conversazione telefonica.
La presidente della Camera Laura Boldrini ha espresso via twitter il cordoglio per la morte di Lo porto. "Grande dolore per la perdita di Giovanni Lo Porto, coraggioso uomo di pace. Vicinanza mia e di montecitorio alla sua famiglia". Lo Porto è morto per un "tragico e fatale errore dei nostri alleati americani riconosciuto dal Presidente Obama" ma "la responsabilità della sua morte e della morte di Warren Weinstein è integralmente dei terroristi contro i quali confermiamo l’impegno dell’Italia con i nostri alleati", ha detto il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha telefonato ai familiari a cui ha espresso "dolore e sgomento" per la morte del cooperante di pace definendolo "un uomo che ha dedicato la sua vita agli altri". "In questo momento non ci sono parole che possano lenire l’immenso dolore degli amici e dei familiari di Giovanni Lo Porto" ha scritto in un messaggio Corrado Passera, leader di Italia Unica, "nella speranza che il sacrificio suo e dell’americano Warren Weinstein non sia vano". "In occasione dei funerali di Giovanni Lo Porto sarà proclamato il lutto cittadino" ha dichiarato il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando. "A nome mio, e da parte dell’intera Amministrazione comunale, voglio esprimere il nostro più sentito cordoglio ai familiari".
Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, terrà domani alle 10 in aula alla Camera un’informativa urgente sull’uccisione del cooperante italiano come avevano chiesto le opposizioni di Sel, Fi e M5S. Anche il Pd si era pronunciato in tal senso, anche se a nome del gruppo Ettore Rosato aveva già preannunciato una disponibilità dell’Esecutivo in tal senso. Il capogruppo Fi Renato Brunetta ha protestato per il fatto che la notizia sia stata data dalla Casa Bianca a distanza di mesi dall’evento. "L’idea di dare una notizia quando non si ha l’assoluta certezza può essere avventata e in un territorio come quello le verifiche sono complesse" ha detto il direttore del Dis, il Dipartimento di informazione per la sicurezza, Giampiero Massolo.
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Giovane e brillante operatore umanitario, il palermitano aveva alle spalle missioni in Centro Africa, ad Haiti, due volte in Pakistan. Giovanni, 39 anni, Giancarlo per gli amici e i familiari, era stato rapito il 19 gennaio del 2012, portato via insieme con il collega tedesco Bernd Muehlenbeck, 59 anni, dal compound di Multan: una città di un milione e cinquecento mila abitanti del Punjab, nel nord del Pakistan a cavallo del confine con l’Afghanistan. Entrambi lavoravano per la ong tedesca Wel Hunger Hilfe, nell’ambito di un progetto finanziato dall’Ue per soccorrere la popolazione del Pakistan sconvolta da un violento terremoto a cui era seguita un’alluvione. Muehlenbeck era stato liberato lo scorso ottobre.
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L’unico segnale indiretto dell’esistenza in vita di Giovanni Lo Porto risale all’ottobre del 2012: venne postato sul web un video nel quale Muehlenbeck sosteneva che entrambi erano in pericolo di vita e chiedeva un intervento urgente per ottenere la loro liberazione. Un video breve e drammatico nel quale il giovane cooperante italiano non appariva né veniva menzionato. Da quel momento sull’intera vicenda era calato il silenzio.
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Il caso di Giovanni Lo Porto, la sua scomparsa nel gennaio 2012 dal nord del Pakistan, è da tempo oggetto di un fascicolo d’inchiesta della procura di Roma. Dopo la diffusione da parte della Casa Bianca della notizia della morte, i magistrati attendono comunicazioni ufficiali. Il pm Erminio Amelio da tempo ha dato ampia delega investigativa al Ros dei carabinieri e alla Digos. Il procedimento era stato aperto per il reato di sequestro di persona a scopo di terrorismo.

PEZZO DI MASTROGIACOMO DEL 18 GENNAIO
ROMA - Sono esattamente tre anni che non si hanno più notizie di Giovanni Lo Porto. Assieme a padre Paolo Dall’Oglio sono gli ultimi due italiani ancora prigionieri di bande di sequestratori. Del gesuita romano, rifondatore del monastero cattolico siriano Mar Musa, a nord di Damasco, le poche informazioni che filtrano periodicamente sostengono sia rinchiuso in una delle tante prigioni del Califfato nero ad al-Raqqa; sul giovane e brillante operatore umanitario palermitano si riesce a sapere pochissimo.

Una grande esperienza alle spalle, con missioni in Centro Africa, Haiti e due volte in Pakistan, Giovanni, 39 anni, Giancarlo per gli amici e i familiari, non ha mai dato alcun segno da quando quattro uomini armati, il 19 gennaio del 2012, lo hanno portato via, insieme con il collega tedesco Bernd Muehlenbeck, 59 anni, dal compound di Multan: una città di un milione e cinquecento mila abitanti del Punjab, nel nord del Pakistan a cavallo del confine con l’Afghanistan. Entrambi lavoravano per la ong tedesca "Wel Hunger Hilfe", nell’ambito di un progetto finanziato dall’Ue per soccorrere la popolazione del Pakistan sconvolta da un violento terremoto a cui era seguita un’alluvione.

L’unico segnale indiretto dell’esistenza in vita di Giovanni Lo Porto risale all’ottobre del 2012 quando venne postato sul web un video nel quale Muehlenbeck sosteneva che entrambi erano in pericolo di vita e chiedeva un intervento urgente per ottenere la loro liberazione. Un video breve e drammatico nel quale il giovane cooperante italiano non appariva né veniva menzionato. Ma il fatto che l’ostaggio usasse il plurale fu considerata una prova dell’esistenza in vita di Giovanni.

Da quel momento sull’intera vicenda è calato il silenzio. I familiari, gente umile e senza molti contatti con il mondo della cooperazione, ha sempre scelto la linea del silenzio, incoraggiata tra l’altro dall’Unità di crisi della Farnesina. Solo alcuni colleghi di Giovanni si sono attivati per rompere uno stallo che non sembrava produrre qualche risultato. Ma lo hanno fatto con cautela, quasi pudore, rispettando quella volontà della famiglia che non volevano certo infrangere. Scegliere come agire, quando e in che modo, non è facile. Soprattutto se si tratta di un sequestro avvenuto in un’area complessa come il nord del Pakistan.

La liberazione di Bernd Muehlenbeck, avvenuta nell’ottobre del 2014, ha tuttavia riacceso le speranze. L’uomo è stato abbandonato in una moschea di Kabul e consegnato dai mediatori ai servizi segreti tedeschi. Questo fa supporre che Lo Porto si trovi in Afghanistan. Ma dal cooperante tedesco non sono arrivate informazioni utili. Change. org ha lanciato una nuova campagna per la sua liberazione con la raccolta di firme sulla rete. Ma ogni tentativo di illuminare il buco nero che avvolge Giovanni si scontra con un muro di ipotesi, bisbigli, speranze. L’Unità di crisi della Farnesina chiede ancora pazienza. Ma non lascia filtrare alcun commento. "Tutto questo", ci dice Andrea Parisi, anche lui ex cooperante del Cesvi, una ong di Bergamo, " lascia perplessi. Il silenzio a volte aiuta. Ma il buio così intenso rischia di essere controproducente. La cosa che colpisce di più in questa vicenda è che le poche notizie ottenute in questi tre anni sono sempre state incoraggianti. Nulla di decisivo. Ma niente di allarmante".

Andrea conosce Giovanni; conosce soprattutto l’area e l’ambiente dove entrambi lavoravano. Ricorda che la città di Multan non era considerata pericolosa, a differenza di Peshawar, il Baluchistan, la stessa Karachi. Le misure di sicurezza erano efficaci ma non ossessive. "Fu proprio Giovanni", ci racconta oggi, " a passarmi le consegne. All’epoca era logistico del Cesvi in Pakistan, l’ong che stava per lasciare. Aveva una grande preparazione, anche sul piano delle sicurezza. Quando ritornò, questa volta per conto della "Welt Hunger Hilfe", vivevamo a un chilometro di distanza. Il loro sequestro fece scalpore perché non c’erano stati segnali di nuove tensioni o minacce nei confronti dei cooperanti stranieri. Gli stessi servizi segreti pachistani rimasero sorpresi. Due funzionari venivano a trovarci ogni due settimane per sapere se c’erano dei problemi e non abbiamo mai dovuto denunciare allarmi".

Perché questo sequestro? Andrea non se lo spiega. Ricorda però molto bene di essere andato il giorno dopo a fare un sopralluogo nel compound di Lo Porto. C’era una cooperante tedesca che non era stata portata via. I rapitori, disse la donna, erano molto determinati. Veri professionisti. Nessuna violenza, ordini secchi e precisi. Chiesero dei soldi. Ma era una scusa. La donna salì al piano di sopra della casa per prenderli. Ma quando tornò erano già andati via con Giovanni e il suo collega tedesco. "Due giorni dopo", racconta Andrea Parisi, "venne anche uno dei capi dei servizi segreti pachistani. Si guardò in giro, con superficialità. Aveva già chiaro chi fosse stato. Era scuro in volto. Sembrava quasi umiliato da quell’azione. I sequestratori avevano beffato la sicurezza e quel funzionario la considerava una vera sfida. Del resto, i quattro uomini si erano mossi con disinvoltura; avevano anche lasciato dei segnali: un cellulare, delle siringhe con ancora dentro del narcotico da usare per sedare gli ostaggi. Volevano far sapere chi erano. Ma l’intelligence, almeno ufficialmente, ha sempre negato di sapere chi fossero".

Il mistero continua. Tra l’angoscia della famiglia e quella degli amici. Giovanni Lo Porto e padre Paolo Dall’Oglio sono cittadini italiani. Riportarli a casa, come Greta e Vanessa,

è un imperativo per il nostro governo. Ottenere un segnale sulle loro condizioni è un dovere. Soprattutto adesso. Per chiudere definitivamente questo cerchio di dolore e sofferenza e restituire alla vita due prigionieri di quella galassia fatta di banditi e jihadisti.

LA FAMIGLIA
PALERMO - "Mio figlio non tornerà più, che dolore immenso. Io lo aspettavo...". Dice così, tra le lacrime, Giusi Felice, la madre di Giovanni Lo Porto, il cooperante palermitano ucciso nel raid Usa al confine tra Afghanistan e Pakistan. Lo riferiscono alcuni dei tanti amici che si sono radunati In via Pecori Giraldi, alla periferia della città, dove il viavai di amici è iniziato intorno alle 15. Ci sono anche dei rappresentanti della Farnesina che hanno vietato l’ingresso ad amici e giornalisti. L’androne è diventata una sala d’attesa dove si sono raccolti i conoscenti di una vita del rione in cui era cresciuto Giovanni, lo Sperone, quartiere al confine con Brancaccio. Tra le lacrime racconta Rosa Leonardo, amica di famiglia: "Giovanni andava in quelle terre per aiutare e era nel suo animo fare del bene. Giusi pensava continuamente a Giovanni. Si sentiva con la Farnesina continuamente". Il padre e un fratello sono in viaggio verso Palermo. Dopo avere appreso della morte sono partiti da Pistoia.

La donna ha accusato un malore ed è stato necessario l’intervento di un medico. "Lei sperava ancora che fosse vivo - dice Giovanna, un’altra amica di famiglia - e aveva cieca fiducia nella Farnesina. Non credeva assolutamente che da gennaio invece fosse già morto". Invece il giovane cooperante palermitano tenuto in ostaggio dal 2012, è rimasto ucciso in un’operazione anti-terrorismo americana nel gennaio scorso. "Da più di tre mesi non avevamo alcuna notizia - aggiunge l’amica di famiglia Jessica- non ci facevano sapere niente. Io sono venuta tutti i giorni a trovare la signora Giusi e ci chiedevamo perchè la Farnesina non si facesse viva. Oggi la terribile notizia appresa dal telegiornale. Giovanni non tornerà mai più".
Giovanni Lo Porto, il cooperante siciliano ucciso in Pakistan
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Il premier Matteo Renzi ha parlato al telefono con la madre di Lo Porto, che gli è stata passata dal team della unità di crisi della Farnesina. E’ quanto si apprende da fonti di palazzo Chigi. Il team si trova a Palermo, insieme al gruppo dell’assistenza psicologica che da oggi è a casa Lo Porto. "Aveva la mia età", ha detto il premier alla mamma nel corso della loro conversazione telefonica. "Abbiamo saputo della morte di mio fratello questa mattina, ci ha telefonato la Farnesina, che ci è sempre stata molto vicina". Lo ha detto il fratello di Giovanni Lo Porto, il cooperante palermitano ucciso nel raid americano in Pakistan. L’uomo, rivolgendosi poi ai giornalisti, ha detto: "Adesso, per cortesia lasciateci in pace, lasciateci nel nostro dolore". L’uomo, che non ha voluto dire il suo nome, è uscito dall’abitazione della madre, a Brancaccio a Palermo, per invitare i giornalisti a lasciare l’androne di casa. "Non ho molto da dire -ha detto- capisco che dovete fare il vostro lavoro, ma vi invito a lasciarci in pace".

"Siamo profondamente addolorati per la notizia della morte di Giovanni Lo Porto, la cui drammatica vicenda abbiamo seguito con trepidazione e in stretto contatto con la famiglia e con la Farnesina. A nome mio, e da parte dell’intera Amministrazione comunale, voglio esprimere il nostro più sentito cordoglio ai familiari", dice il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando. "Il governo italiano chieda all’esecutivo statunitense - aggiunge il primo cittadino - che si faccia luce sulla dinamica dell’operazione che ha portato alla morte del nostro concittadino". "Giovanni era un ragazzo impegnato nella cooperazione internazionale per costruire la pace fra i popoli, - aggiunge l’assessore alla Partecipazione Giusto Catania - animato da un profondo altruismo e rispetto per il prossimo". Orlando ha disposto che in occasione dei funerali del ragazzo ucciso, sia proclamato il lutto cittadino.

Sul caso del cooperante vigeva da tempo un silenzio stampa richiesto dal ministero degli Esteri, che nel tempo aveva provato a intavolare una trattativa con i rapitori, ma senza successo. "Siamo nelle mani dello Stato. Il nostro appello è rivolto a loro perché Giovanni ritorni al più presto da noi sano e salvo. Aspettiamo notizie, non ci stacchiamo dal telefono e dalla televisione", avevano detto i familiari subito dopo il rapimento. Un ultimo appello era stato rivolto al capo dello Stato Sergio Mattarella subito dopo la sua elezione.

Lo Porto, 40 anni, era stato rapito in Pakistan dai jihadisti il 19 gennaio del 2012. E’ stato ucciso il 3 gennaio scorso in un raid che ha impiegato droni della Cia contro Al Quaeda. Lo Porto lavorava con la Ong tedesca Welt HungerHilfe (Aiuto alla fame nel mondo) per la ricostruzione dell’area messa in ginocchio dalle inondazioni del 2011. Era stato a Palermo a trovare i suoi familiari appena dieci giorni prima del sequestro, avvenuto nel gennaio 2012. La sua famiglia vive al piano rialzato di una palazzina di via Pecori Giraldi, nel quartiere Brancaccio alla periferia est di Palermo. Una strada tristemente nota: fu lì che nel ’79 il capo della Mobile Boris Giuliano, prima di essere massacrato dalla mafia, scopri’ il nascondiglio dell’allora latitante Leoluca Bagarella.

Il padre di Giovanni Lo Porto, Vito, lavora a Pistoia con uno dei cinque figli. Gli altri tre vivono in città, come la madre Giuseppa. L’unico ad andare lontano dalla Sicilia era stato proprio Giovanni, una laurea, un master a Londra, con una grande passione per il suo lavoro di cooperante che l’aveva portato anche in Africa e ad Haiti. Quando Giovanni Lo Porto fu sequestrato la famiglia preferì non rilasciare alcuna dichiarazione, chiedendo ai giornalisti di rispettare il loro dolore.

Antonio Catania ha un panificio a pochi passi dall’abitazione della famiglia Lo Porto, in via Pecori Giraldi. "Conoscevo Giovanni da quando era piccolo - dice - era un ragazzo splendido. Non c’entra la commozione per la sua morte se dico che non ne ho mai conosciuto uno come lui. L’ho visto nel Natale del 2011, credo, l’ultima volta che è venuto a Palermo. So che faceva un lavoro importante, che aveva studiato all’estero, ma non ha mai mostrato alcuna superiorità nei confronti delle persone che vivevano e che vivono nel quartiere". Catania è anche amico di uno dei fratelli di Giovanni, Giuseppe, che vive con la madre e che fa l’ambulante: vende pesce che espone sulla sua motoape, parcheggiata proprio davanti al portone di via Pecori Giraldi.

"Non fa che piangere, povera donna. Ha ricevuto le telefonate si Renzi e di Grasso e ha pianto anche con loro". Così Giovanna, un’amica di famiglia che è appena uscita dal l’abitazione della madre. "E’ distrutta - dice - non avrebbe mai pensato di ricevere questa terribile notizia". Intanto sono ancora in casa Lo Porto i funzionari dell’Unità di crisi della Farnesina.

PEZZO DEL 20 GENNAIO 2012
C’è ancora il "silenzio stampa" dalla Farnesina sul rapimento di Giovanni Lo Porto, il cooperante palermitano trentottenne impegnato in Pakistan con la ong tedesca Welt Hunger Hilfe (Aiuto alla fame nel mondo), sequestrato in Pakistan insieme con un tedesco di 45 anni.

All’indomani del rapimento il ministero agli Affari esteri mantiene uno stretto riserbo ma dagli uffici fanno sapere "sono stati attivati tutti i canali utili per seguire da vicino la vicenda in contatto anche con la famiglia".
Intanto in via Pecori Giraldi, a Brancaccio, dove abita la madre di Giovanni Lo Porto, la famiglia vive ore di ansia. "Siamo nelle mani dello Stato. Il nostro appello è rivolto a loro perché Giovanni ritorni al più presto da noi sano e salvo. Aspettiamo notizie, non ci stacchiamo dal telefono e dalla televisione".

Nel suo profilo pubblicato su un social network, Giovanni indica di essersi laureato alla London metropolitan University e alla Thames Valley University. È lui a precisare di essere arrivato in Pakistan nell’ottobre scorso per partecipare come "project manager" alla costruzione di alloggi di emergenza nel sud del Punjab. In precedenza era stato ad Haiti, e ancora prima aveva lavorato nove mesi con il Cesvi. L’operatore italiano sarebbe arrivato ieri a Multan, ed era diretto a Kot Addu insieme al collega tedesco per avviare un programma di ricostruzione nelle aree alluvionate.

LASTAMPA.IT


L’uccisione di Warren Weinstein e Giovanni Lo Porto è il primo errore ammesso dal presidente Barack Obama nella conduzione della guerra dei droni. Da quando si è insediato alla Casa Bianca, nel gennaio 2009, Obama ha trasformato i droni nell’arma prescelta della caccia ai terroristi portando il numero di attacchi dalle poche di decine ereditate dal predecessore George W. Bush a centinaia l’anno.



L’AUTORIZZAZIONE A UCCIDERE

La scelta degli obiettivi avviene attraverso un metodo che l’attuale capo della Cia, John Brennan, rese pubblico in occasione della campagna per la rielezione di Obama nel 2012: i servizi di intelligence redigono una “Kill List” che viene sottoposta al presidente, che decide chi viene eliminato. Ciò significa che il presidente degli Stati Uniti ha una responsabilità, personale e diretta, nell’autorizzazione ad uccidere che, di volta in volta, viene assegnata alla Cia per colpire l’obiettivo prescelto. In questo caso l’errore, da Obama ammesso subito, chiama in causa il metodo di operare dei droni a cui finora veniva attribuita la capacità di colpire con precisione il terrorista di turno.



LA GUERRA IMPERFETTA

Nel raid ai confini fra Pakistan ed Afghanistan sono stati uccisi due jihadisti americani, Ahmed Farouq and Adam Gadahn, ma non è chiaro chi fosse il vero obiettivo. Quale che sia stata la ragione, e la dinamica, dell’attacco i droni hanno mancato di verificare la presenza nelle vicinanze del punto di impatto di persone non obiettivo del blitz: questo è l’errore compiuto ed ha a che vedere con le verifiche elettroniche che l’intelligence è obbligata ad effettuare prima di dare luce verde al lancio di missili sul bersaglio. È da qui che partirà l’indagine interna, di Pentagono e Cia, per appurare cosa è avvenuto al fine di evitare il ripetersi di tali drammatici errori. Ma in attesa che l’inchiesta si compia, la verità con cui l’amministrazione Obama si trova a fare i conti è che neanche la guerra con i droni può dirsi perfetta, indenne da errori.

EDITORIALE DI QUIRICO
HO CONOSCIUTOI LA MDRE UNA DONNA CHE HA ASPETTATO PER 3 ANNI E MEZ CHE QUALCUNO LE RESTITUISSE IL FIGLIO, CHE LE RIPORTASSE IL FIGLIO A CASA. HA ASPETTATO IN SILENZIO, SENZA DISTURBARE NESSUNO, SENZA GRIDARE, SENZA INVOCARE, SENZA PRETENDERE. UN FIGLIO INGHIOTTITO DA UN MONDO CHE QUESTA POVERA DONNA PALERMITANA FORSE NEMMENO COMPRENDEVA NEI SUOI OSCENI CONTORNI, LA POLITICA I FANATISMI LE GUERRE L’AMERICA IL CALIFFATO AL QAIDA. E QUESTO RAGAZZO È STATO UCCISO DA COLORO CHE AVREBBERO DOVUTO SALVARLO E RIPORTARLO A CASA. ALLORA MI DOMANDO E DOMANDO: CHI ANDRA’ A DIRGLIELO GUARDANDOLA NEGLI OCCHI. NOMN BASTA UNA CONFERENZA STAMPA NON BASTA UNA DICHIARAZIONE NOMN BASTANO DELLE SCUSE ED UN RAMMARICO. BIASOGNA ANDARE DA QUESTA MADRE. CHI SIAMO NOI L’AMERICA OBAMA TUTTE LE COSE CHE SCRIVIAMO SUI GIORNALI CHI SIAMO E COSA DICIAMO DI ESSERE ANDATE DA QUESTA MADRE E DITEGLI ABBIAMO AMMAZZATO TUO FIGLIO CON UN CONGEGNO INFAME CON CUI ABBIAMO CERCATO DI SOSTITUIRE LA GUERRA E CON CUI AMMAZZIAMO NON I COLPEVOLI MA AMMAZZIAMO GLI INNOCENTI QUALCUNO VADA LI’. VADA OBAMA VADA RENZI PERCHE’ NON HA MANDATO UN TWEET MANDA TEWWET SU TUTTE LE BANALITA’ DELL’UNIVERSO A QS DONNA CHE GLI CHIEDEVA COME RESPONSDABILE DEL PAESE IN CUI VIVE E IN CUI VIVEVA SUO FIGLIO DI RESTITUIRGLIELO

LASTAMPA.IT
Il cooperante Giovanni Lo Porto, 38 anni, di Palermo, venne rapito il 19 gennaio del 2012 da quattro uomini armati con il collega tedesco Bernd Muehlenbeck, 59 anni. Giovanni, Giancarlo per amici e familiari, si trovava a Multan, nella provincia del Punjab, a cavallo tra Pakistan e Afghanistan, dove stava lavorando come capo progetto per l’Ong tedesca Welt Hunger Hilfe. Un uomo coraggioso, e competente: dopo la laurea a Londra nella cooperazione internazionale si è specializzato in Giappone. Nella sua carriera si è sempre confrontato con situazioni critiche, prima in Repubblica Centro Africana, poi ad Haiti, fino all’ultimo viaggio in Pakistan, dove guidava la ricostruzione dopo il terremoto e l’alluvione del 2010, con missione finanziata da «Echo», l’agenzia per gli aiuti umanitari dell’Unione Europea.
L’unica notizia trapelata è un video del dicembre del 2012 in cui il suo collega Bernd Muehlenbeck chiede aiuto al governo tedesco. «Ora siamo in difficoltà - dice Bernd nel video -. Per favore accogliete le richieste dei mujahidin. Possono ucciderci in qualsiasi momento. Non sappiamo quando. Può essere oggi, domani o tra tre giorni». Giovanni non compare, ma il suo collega parla al plurale, particolare che in passato ha fatto ben sperare sulle condizioni del nostro cooperante. Il collega Bernd Muehlenbeck è stato liberato lo scorso 10 ottobre: dopo la liberazione il cooperante tedesco raccontò che i rapitori avevano portato altrove già da un anno il collega italiano.
Nel giugno del 2013 il coordinamento delle Ong che si occupano di emergenza e cooperazione inviò al ministro Emma Bonino una lettera per sollecitare il massimo impegno delle istituzioni. Per non dimenticare Giovanni nel secondo anniversario del suo rapimento, più di 48mila persone in tutto il mondo lo scorso anno aderirono alla campagna #vogliamogiovannilibero, lanciata da Change.org, la piattaforma mondiale di petizioni online, che ha raccolto i messaggi dedicati a Giovanni e ai suoi cari. Da Canada, Regno Unito, Libano, Germania, Francia, Israele, Danimarca e Stati Uniti arrivarono video e fotografie per testimoniare solidarietà e speranza. Una speranza che purtroppo oggi si è spenta per sempre. Uno dei suoi professori alla «London Metropolitan University», lo ha ricordato tempo fa come uno studente «appassionato, amichevole, dalla mente aperta e aggiunse «il Pakistan era il suo vero amore e sentiva di aver operato bene, stabilendo dei buoni rapporti con la popolazione».

CORRIERE.IT
WASHINGTON - Cosa è andato storto nell’azione anti terrorismo? Perché due innocenti, gli ostaggi Warren Weinstein e Giovanni Lo Porto, sono stati uccisi? Proviamo a rispondere sulla base dei primi dati a disposizione.
L’operazione è stata condotta dai droni e si è basata sulle informazioni raccolte nella zona del target, l’area tribale pachistana. Secondo la ricostruzione ufficiale l’intelligence non ha mai avuto elementi sulla presenza degli ostaggi nell’edificio usato dai qaedisti. Dunque c’è stato un evidente deficit di dati. Situazione che si è già verificata in altre occasioni in Afghanistan, in Yemen e in Pakistan. Pensi di colpire un bersaglio legittimo e invece coinvolgi dei civili.
La lotta al terrorismo sotto la presidenza Obama si è affidata soprattutto ai droni e alle operazioni speciali. Il ricorso ai velivoli senza pilota si è tramutato in strategia, mentre gli aerei sono solo un mezzo. Come diceva l’ex direttore della Cia, Leon Panetta «è l’unica cosa che abbiamo in città». In alcune occasioni la Casa Bianca ha dato carta bianca all’intelligence autorizzandola ad agire anche quando non c’erano tutti gli elementi a disposizione. Contava solo il bersaglio. E questo può portare ad errori fatali.
In Paesi difficili come lo Yemen e il Pakistan condurre attacchi aerei (con caccia o droni) non è agevole. Perché l’ intelligence può essere scarsa o poggiarsi su fonti non sempre accurate. Infiltrare agenti americani è quasi impossibile, dunque la Cia e il Pentagono contano sugli alleati. Servizi di Paesi amici o collaboratori reclutati tra i locali. A volte le dritte dal campo non sono così sicure e le verifiche a volte quasi impossibili. Nel dubbio sarebbe meglio astenersi dal lanciare l’attacco.
Il ruolo dell’area tribale pachistana. L’intera vicenda conferma come la regione sia rifugio per figure importanti di al Qaeda che qui si nascondono, operano, trasmettono ordini ai loro complici. E in qualche occasione tengono prigionieri i loro ostaggi. Un santuario ben protetto violato soltanto dai droni e da qualche raro intervento delle forze pachistane. I due dirigenti jihadisti uccisi erano personaggi di spicco: Ahmed Farouq era tra i capi della nuova sezione «Qaeda- India» mentre il convertito californiano Adam Gadahn è stato il portavoce del movimento, la star di dozzine di video. Una delle voci di Osama.
Infine un parallelo con la crisi dei barconi. Il drammatico episodio dimostra come un intervento militare affidato solo ai droni possa tramutarsi in un disastro. Per distruggere i battelli dei trafficanti sulla costa libica servono indicazioni precise che solo uomini/agenti sul terreno possono dare. Altrimenti sono guai.

ILPOST.IT


Il governo degli Stati Uniti ha annunciato di avere ucciso per sbaglio Giovanni Lo Porto durante un attacco con un drone lo scorso gennaio in Pakistan. Nell’attacco è morto anche un ostaggio statunitense, Warren Weinstein. Lo Porto era scomparso nel gennaio del 2012 mentre si trovava in un’area tribale al confine tra Pakistan e Afghanistan. Da tre anni non si sapeva che fine avesse fatto e se ne parlava molto poco, anche in seguito alla richiesta del governo italiano di non diffondere troppe informazioni per non complicare le indagini.

L’attacco di gennaio
Il drone, un aeroplano da guerra pilotato a distanza, stava conducendo lo scorso gennaio un’operazione contro una postazione di al Qaida in Pakistan da settimane tenuta sotto sorveglianza dalla CIA, che aveva raccolto centinaia di ore di video della zona. Nei giorni prima dell’attacco, la CIA aveva intensificato ulteriormente i controlli, ottenendo punti di osservazione ravvicinati per controllare meglio il complesso. In quel periodo, stando alle ricostruzioni della Casa Bianca, non è stata mai rilevata la presenza dei due ostaggi stranieri né di altri civili. Secondo le autorità statunitensi, i membri di al Qaida avrebbero intenzionalmente tenuto fuori dalla vista di chiunque gli ostaggi.

Oltre a Lo Porto e a Weinstein, nell’attacco con il drone è rimasto ucciso Ahmed Farouq, un membro di al Qaida e con cittadinanza statunitense. In un attacco successivo sarebbe stato ucciso un altro membro di al Qaida, sempre di origini statunitensi: Adam Gadahn. Di solito sono necessari permessi particolari per autorizzare l’uccisione diretta di cittadini statunitensi sospettati di organizzare attentati contro gli Stati Uniti, ma in questo caso non è stato necessario perché Gadahn e Farouq non erano gli obiettivi principali dell’operazione.

Solitamente le attività con i droni e il loro esito sono tenute segrete dal governo degli Stati Uniti per motivi di sicurezza. In questo caso il presidente Barack Obama ha ritenuto di togliere il segreto per assumersi la responsabilità della morte di Lo Porto e di Weinstein. Non sono comunque noti il luogo preciso dove è avvenuto l’attacco di gennaio, né il giorno.

La CIA impiega spesso settimane prima di scoprire l’esito di un proprio attacco con i droni. In questo caso l’intelligence ha iniziato a raccogliere i primi indizi sulla morte dei due ostaggi a febbraio. Inizialmente si pensò che potessero essere stati uccisi nel corso di un’operazione militare condotta dall’esercito statunitense. Solo nelle ultime settimane l’intelligente ha raccolto altre informazioni arrivando alla conclusione che i due ostaggi fossero morti nell’attacco con il drone statunitense di gennaio. LA CIA ha scoperto Weinstein e Lo Porto si trovavano nello stesso luogo solo alla fine dell’operazione.

Nel corso di una conferenza stampa a Washington, DC, Obama ha offerto le sue condoglianze alle famiglie di Weinstein e di Lo Porto, aggiungendo che “come presidente e comandante in capo mi assumo pienamente la responsabilità per le nostre operazioni di antiterrorismo”.

Chi era Giovanni Lo Porto
Giovanni Lo Porto aveva 40 anni, era nato a Palermo ed era un esperto di collaborazione internazionale. Aveva conseguito una laurea in materia a Londra, nel Regno Unito, e successivamente si era specializzato in Giappone. Aveva lavorato all’organizzazione e alla gestione di iniziative umanitarie nella Repubblica Centrafricana e ad Haiti. Nelle prime settimane del 2012 Lo Porto aveva raggiunto il Pakistan, dove avrebbe dovuto iniziare a lavorare per conto dell’organizzazione non governativa (ONG) tedesca Welt Hunger Life, nell’ambito di un progetto per portare aiuto alle popolazioni ancora in difficoltà in seguito alla grande alluvione del 2010. Stando alle ricostruzioni, molto parziali e difficili da verificare, pochi giorni dopo il suo arrivo un gruppo di quattro persone avrebbe assaltato la sede dell’ONG rapendo Lo Porto insieme al collega tedesco Bernd Muehlenbeck. Per mesi dal giorno del rapimento non si è saputo praticamente nulla sui due ostaggi: solo qualche sporadica notizia con informazioni talvolta in contraddizione tra loro.

Nel dicembre del 2012, però, fu diffuso un video nel quale era visibile solo Muehlenbeck con alcune informazioni dirette sul rapimento: «Ora siamo in difficoltà. Per favore accogliete le richieste dei mujaheddin. Possono ucciderci in qualsiasi momento. Non sappiamo quando. Può essere oggi, domani o tra tre giorni». Il fatto che parlasse al plurale fu considerato importante per ipotizzare che insieme a lui ci fosse ancora Lo Porto.

Muehlenbeck fu liberato in Afghanistan a ottobre del 2014, con un’operazione organizzata dalle forze speciali tedesche. I sequestratori lo consegnarono in una moschea alla periferia di Kabul, dopo che per giorni agenti in borghese avevano seguito alcune persone sospette nella capitale dell’Afghanistan. I rapitori avevano chiesto un riscatto, ma il governo tedesco non diede informazioni in merito dopo la liberazione. Non furono inoltre diffuse pubblicamente informazioni sulle condizioni di Lo Porto.

Durante la sua informativa in Parlamento a inizio gennaio, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni aveva confermato che il governo era impegnato a lavorare per riportare in Italia Lo Porto, ricordando che si trattava di una vicenda su cui lavorare “con discrezione giorno per giorno”. Gentiloni non aveva dato nessun altro tipo di informazioni né sul punto cui fossero eventuali trattative con i sequestratori, ammesso ci fossero canali di comunicazione aperti, né sulle condizioni dell’ostaggio.