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 2015  aprile 23 Giovedì calendario

A CACCIA DEL MINOTAURO

Ha testa canuta, occhi inquieti e modi squisiti, il Minotauro. E, se non avesse consacrato la sua vita alla bellezza, certamente l’avrebbe fatto alla velocità. Manca un mese all’apertura del Labirinto della Masone di Fontanellato (labirintodifrancomariaricci.it), nella campagna parmense: l’ultimo sortilegio artistico di Franco Maria Ricci. Molto se n’è parlato. Ma Panorama ne ha varcato il portale alla vigilia dell’allestimento definitivo delle stanze, innumerevoli come solo le stanze dei castelli di certe favole possono essere.
Editore, designer, collezionista d’arte, bibliofilo, Ricci lascerà presto l’amata Milano, dove quarant’anni fa si trasferì dalla piccola Parma in cerca di fortune editoriali. Le fortune arrivarono. Ma oggi, a 78 anni, Ricci torna sui suoi passi. E a pochi chilometri dalla sua terra d’origine, nella tenuta da dove bambino scappò con la famiglia per rifugiarsi sugli Appenini, sta per aprire i cancelli della sua città ideale, nelle campagne dove Bernardo Bertolucci girò Novecento: «Veniva a trovarmi proprio qui, durante le riprese» racconta divertito. «Un bicchiere insieme, uno al giorno».
Il casolare di famiglia c’è ancora. Fuori, una rovina divorata dai rampicanti. Dentro, uno scrigno di gioie dell’arte e della letteratura, che ora si stanno trasferendo con il proprietario pochi metri più in là, al termine di un filare di pioppi: nel Labirinto. In ripresa aerea, ha la sagoma di una fortezza rinascimentale di 300 metri di lato immersa nel verde. Da terra, è un imponente ed enigmatico recinto sacro, con i colori delle aie di quelle parti e le sagome neoclassiche delle utopistici edifici dell’epoca della Rivoluzione fancese. Tutto il lascito materiale e ideale di Ricci, dal 29 maggio, sarà raccolto lì: la sua abitazione, il suo studio, la sua biblioteca, la sua casa editrice, il museo con la sua collezione d’arte da 500 pezzi, parte dei quali, fino a pochi giorni fa, era esposta al Museo nazionale di arte antica di Lisbona. Ma non mancheranno un ristorante, un bistrò, una libreria, sale per conferenze, mostre e danze, e due suite. Tutto intorno, un intrico di vie separate da alte siepi di bambù, per sfuggire le quali si devono percorrere almeno tre chilometri.
Spiega Ricci, con la schiettezza di chi anche del commercio ha fatto un’arte: «Nessuno si sarebbe spinto fin qui per un museo. Così gli abbiamo costruito intorno il più grande labirinto del mondo». Uno stratagemma. Ma anche un’ossessione antica. «La confessai già molti anni fa a Jorge Luis Borges, quando curava per me la collana della Biblioteca di Babele. Mi rispose da Borges: “No es possibile, il più grande è il deserto”». Nel Labirinto si compendia l’arte dell’audace innesto di Franco Maria Ricci. D’altronde: che cosa poteva esservi di più audace, per un neolaureato in geologia come lui, di investire 70 milioni di lire per pubblicare il Manuale Tipografico di Giambattista Bodoni facendone un successo? Era il 1963: i Beatles urlavano She loves you, ovunque dominavano neoavanguardie artistiche e fremiti di trasgressione. Eppure Ricci scommise su di un gioiello dell’editoria del Settecento, dando così inizio a una sua personalissima rivoluzione conservatrice, colta e popolare insieme. «Allora come oggi, da editore come da collezionista o bibliofilo, più che alle teorie estetiche mi affido al mio istinto per la bellezza. Mio e dei grandi con cui ho condiviso il cammino», spiega. Jorge Luis Borges, ma anche Roland Barthes, Italo Calvino, Umberto Eco. «Imboccare le vie meno battute, questo è il segreto. In cerca del capolavoro o del genio dimenticato, senza farsi condizionare dalle distinzioni tra arte e mercato, alto e basso, classico e moderno: perché l’eleganza vive al di sopra di queste barriere». Tanto che, nel presentare una ristampa del suo Bodoni, Ricci si rifece proprio al padre della pop art, Andy Warhol, spiegando la comune passione per ciò che l’arte riesce a trasformare in icona. Maestro del repêchage, archeologo dell’immaginario, Ricci ha miscelato così erudizione alta e sensibilità pop, tanto da esser stato, al contempo, designer di famosi loghi e campagne pubblicitarie (dalle Poste Italiane all’Alitalia, dalle cucine Scic agli elettrodomestici Smeg) e creatore, nel 1984, di Fmr: la più eccentrica e raffinata rivista d’arte di sempre. Ce ne parla sfogliando le pagine, edite in quattro lingue, dedicate ad artisti come Ligabue, Tamara De Lempicka, Tomaso Buzzi, che anche a Fmr dovettero la fama. «Vede che riproduzioni perfette?» rivendica col suo filo di voce nel rito dello sfoglio. «Non pensavamo solo a studiosi o collezionisti. Avevamo 100 mila abbonati, persone comuni, che volevano avere in casa qualcosa di bello da sfogliare: raro, prezioso, anche bizzarro. Raccontato da grandi firme». Anche Fmr entra ora nella sua città ideale, visto che, dopo oltre dieci anni di silenzio, in autunno riprenderà le pubblicazioni grazie a una pattuglia di redattori, tutti giovanissimi, che, mentre parliamo, sovraintendono al trasloco della redazione in un’ala del nuovo edificio, tra piante catastali, busti di marmo e incunaboli.
Lasciamo la vecchia casa di famiglia e, percorso il filare di pioppi, ci addentriamo tra le siepi dell’intrico. Ovunque incalzano i giardinieri a bordo di piccoli trattori. Innaffiano e potano il bambù, altro innesto del Minotauro: «Lo piantai per la prima volta nel giardino della mia precedente casa, a Milano» racconta. «Fu il consiglio di un giardiniere giapponese mio amico. Me ne innamorai. In dieci anni, guardi che siepi!». È il regalo che Ricci farà alla sua terra ora che vi è tornato. «Mi dicono che da quando lo abbiamo piantato, qui sta diventando di moda. Lo spero: vorrei che con la sua grazia mascherasse i capannoni lungo l’autostrada».
In effetti, anche geograficamente, il Labirinto pare sospeso tra l’utopia urbana rinascimentale di Sabbioneta, non lontana, e il Fidenza Village, l’outlet a due passi. È qualcosa a metà strada tra antico e moderno, natura e artificio, sacro e profano. La conferma arriva al termine del percorso, quando c’imbattiamo in un altro labirinto, finora nascosto: è di marmo policromo e pavimenta la cappella piramidale dove si conclude il primo. Diversamente da questo, però, non è quadrangolare e giocoso, ma spiroidale e mistico, come quelli che, nelle cattedrali medievali, simboleggiavano il pellegrinaggio a Gerusalemme. È il culmine dell’arte dell’innesto di Ricci. Che non accenna a placarsi, tuttavia. Fino a quando, misterioso, ci porta al cospetto di un garage, ultima tappa della visita. Sollevata la saracinesca, nella penombra, scorgiamo infatti il muso di una Jaguar E-type degli anni 60, identica a quella di Diabolik.
«È la prima cosa bella che ho comprato» ci rivela serissimo. «Spetterà a lei il posto d’onore nella mia collezione: proprio al centro dell’ingresso del Museo». Già, perché se Franco Maria Ricci non fosse diventato Franco Maria Ricci, con tutta probabilità, avrebbe fatto il pilota automobilistico. Lo dicono i 42 testacoda con cui, ci confessa, incorniciò i suoi vent’anni. E il ricordo di quel 14 marzo 1957, quando, sul vecchio autodromo di Modena, avrebbe dovuto guidare sotto lo sguardo severo di Enzo Ferrari. Prima di lui, però, un altro pilota, già famoso, doveva girare: era Eugenio Castellotti, grande promessa, allora, della Formula Uno italiana. Ma al terzo anello con la nuova 801 di Maranello uscì di strada a 200 all’ora. Ricci lo raccolse senza vita. E questo cambiò il suo destino. Fu la prima svolta del suo lunghissimo Labirinto.