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 2015  aprile 23 Giovedì calendario

SE ORA MI NEGANO LA REVISIONE DEL PROCESSO, ANDRÒ COMUNQUE SOTTOTERRA DA INNOCENTE, MA CON L’ANGOSCIA DI UN NOME MACCHIATO

Non esiste esercizio più difficile che intervistare un uomo che non c’è. E Bruno Contrada non c’è più, l’hanno ammazzato molte volte. La prima, con un mandato di cattura per concorso esterno in associazione mafiosa, spiccato (la cattiveria degli uomini sa essere spregevole) alla vigilia di Natale del 1992: «Avevo il telefono controllato, sapevano benissimo che avrei passato la festa in casa, con mia moglie e i miei due figli. E che sarei andato dal più grande, il 26, per Santo Stefano. Potevano arrestarmi il 27, erano certi che non sarei scappato. Vollero l’umiliazione, lo sfregio».
Sono passati 23 anni. Da quel giorno, l’ottantaquattrenne che pure ho davanti vivo, e mi porta il caffè, e si trascina di continuo di là per lenire i dolori strazianti della moglie condannata a letto, è diventato il fantasma di se stesso. «Se sono contento della sentenza di Strasburgo? Certo che lo sono. Ma legga l’intestazione del fascicolo: Contrada contro l’Italia. Ecco, l’idea stessa mi uccide». L’ultimo imbecille che capitasse in casa Contrada capirebbe al volo il perché. Tre stanzette di periferia, oltre la circonvallazione di Palermo, riempite inesorabilmente di Italia, o meglio, di Patria, («Io mi ostino a chiamarla così»), dagli angoli estremi del soffitto a quelli più nascosti sul pavimento.
Un santuario mai visto. Maniacale, ossessivo. Battaglioni di guardie regie in scala, reggimenti di bersaglieri in miniatura, tutti ordinatissimi nelle vetrinette; interi Risorgimenti a cavallo, prime divise, giberne di Carabinieri, primi squadroni della Guardia di finanza, volanti in ceramica, gazzelle di marmo, di piombo, di bronzo, un delirio di Patria, migliaia di pezzi, acquistati una volta o regalati quell’altra: da Giovanni Spadolini, da tutti i presidenti del Consiglio che si sono succeduti, da tutti i ministri dell’Interno, da presidenti della Repubblica uno dopo l’altro, dai capi dell’Fbi, della Polizia italiana, della Criminalpol, da chissachì. E tricolori, tricolori in quantità parossistica: nel salottino, nel corridoio troppo stretto, nel cucinino come nella minuscola stanza da letto, addirittura.
Poi è andata così, che il 14 aprile i giudici europei di Strasburgo hanno detto: no, cari colleghi italiani, l’uomo che avete ucciso doveva vivere, avete fatto un cattivo lavoro. Ora lei è innocente, dottor Contrada. «No, non innocente, nessuno coi capelli bianchi può definirsi in quel modo, non so nemmeno se lo possano i bambini. Sono semplicemente non colpevole, che non mi pare poco. Posso aggiungere una cosa? Mi è dispiaciuto non sentire la voce delle istituzioni. La Strasburgo che ha sentenziato sulla tortura alla scuola Diaz ha ascoltato commenti a valanga, e giustamente. Quella su di me, e vale a dire, in fin dei conti, sulla giustizia italiana, niente.
Sotto la sabbia, come fanno i gatti con la cacca. Nessun giudizio dal presidente del Consiglio, dal ministro della Giustizia, da quello dell’Interno. Una dichiarazione dell’onorevole Renato Brunetta, una seconda dell’onorevole Carlo Giovanardi, poi stop. Li ringrazio, ma forse è poco».
Ed è un curioso fenomeno, a ben guardare, quello per cui l’Europa assolve e un paese europeo, che di Europa ama spesso riempirsi la bocca, ne nasconda la decisione. Si vedrà meglio il prossimo 18 giugno: il Tribunale di Caltanissetta deciderà quel giorno se accogliere o meno la quarta richiesta di revisione del processo, presentata dalla difesa del fantasma. Ferma l’intenzione: «Voglio essere assolto nel nome del popolo italiano». Incerte le speranze: «Non so se il giudizio europeo potrà favorire la mia domanda».
Contrada, che tutto sommato sembra un’ombra, con i suoi lampi di vanità, si mostra al cronista talmente distrutto da non sopportare gli scatti del fotografo che lo accompagna: «Interrompa, la prego». Gli chiedi perché, e il suo sguardo si abbassa: «Mi distraggo, se no, vivo col Lexotan, so no depresso». A uccidersi non ha pensato mai: «Ho solo un minor interesse a vivere». Dice di non odiare: «Solo, disprezzo alcuni». Ha odiato, giura, soltanto una volta: «Il capomafia Rosario Riccobono e il suo braccio destro Gaspare Mutolo. Loro sì, li odiai. Furono i responsabili dell’omicidio di Gaetano Cappiello, un ragazzo di vent’anni, della mia Squadra mobile, lo amavo come un figlio. Giurai a me stesso che li avrei inchiodati. Me ne occupai notte e giorno. Redassi personalmente un corposo rapporto giudiziario che non lasciava scampo. C’era tutto. È agli atti, vada a leggerselo. Vennero assolti dall’omicidio in sede istruttoria. Andarono in Corte d’assise per associazione a delinquere. Furono di nuovo assolti. Il giudice a latere, relatore della sentenza, si chiamava Francesco Ingargiola. Fu lo stesso giudice, da presidente della quinta sezione penale, che il 5 aprile 1996 mi condannò a dieci anni. Sulla base di cosa? Di una mia presunta amicizia con Rosario Riccobono, che io odiavo, che io avevo inchiodato con prove di ferro, e lui aveva mandato libero».
Se le negano la revisione del processo? Se la negano, questo il dottor Contrada lo sussurra, «andrò sottoterra con l’angoscia di un nome macchiato per i miei due figli e i miei quattro nipoti. Soprattutto i due maschi, che Contrada si chiameranno sempre. Hanno dai dieci anni in giù, a loro non ho mai raccontato nulla. Solo Bruno, il più grande, vide una volta la copertina di un libro con la mia faccia. Che significa, nonno? Te lo racconterò quando sarai più grande. E se non io, tuo padre. Guardi, gli lascerò comunque tutto questo archivio».
E mostra, unica pausa nella teoria infinita di patrie vetrine, ma impressionante, la montagna di volumi scritti con puntiglio in contestazione delle accuse rivoltegli nel corso di 23 anni. Non è un articolo a poter spiegare i processi. Né la storia di un importante dirigente della sicurezza nazionale che a un certo punto qualcuno sgarrettò, per diversi e complessissimi motivi. Contrada si rifiuta tra l’altro, di fare nomi dei suoi nemici. Certi accanimenti colpiscono, però.
Il carcere, per esempio: «Dieci anni di condanna definitiva. Li ho scontati per intero, salvo due anni abbonati per buona condotta. Quattro anni di galera preventiva. Potevano processarmi a piede libero, forse. È capitato a molti. Non a me. Unico detenuto nel carcere militare di Forte Boccea, Roma. Un anno e mezzo a Santa Maria Capua Vetere. Poi Palermo, 16 mesi di cautelare. Come carcere era dimesso, Palermo, chiuso. Si chiamava Real casa dei matti fino al 1911, ex manicomio borbonico, prima di diventare carcere militare. Poi sbarrato, per anni. Lo riaprirono per me, solo per me, il 12 aprile 1994. Mandarono a controllarmi due ufficiali, quattro sottufficiali, 20 caporali vigilatori, più dieci soldati per la vigilanza esterna. Così si conteneva il mostro. Eravamo in due, in tutt’Europa, col privilegio di un carcere tutto per loro: io e Rudolph Hess, il nazista nella fortezza di Spandau. Dopo cinquant’anni, lui si suicidò. Dopo molto meno, io no». E peggio per te, verrebbe da dire con qualche eccesso di cinismo.
Mi fa notare, il dottor Contrada, come gli sia suonato male che il magistrato, quantunque in pensione, Gian Carlo Caselli, insieme al magistrato comunque ad honorem Antonio Ingroia, abbiano affannosamente definito «cantonata» la sentenza di Strasburgo. «Rispettare le sentenze, predicavano. Io, la mia, l’ho criticata. Ma rispettata con dieci anni di prigione. Loro, procuratore capo dell’accusa l’uno, pubblico ministero l’altro, non sono riusciti ad astenersi da un giudizio insultante». Ma nessuno ha detto «ba». Non gli intellettuali, non i giornalisti, figurarsi la politica. «Il fatto, forse, è che non si può mai parlare male di Garibaldi. E ai tempi nostri, Garibaldi ha una toga».