Stefano Cingolani, Aspenia 4/2015, 23 aprile 2015
L’IMPATTO DELLE INNOVAZIONI DISTRUTTIVE
La globalizzazione ha raggiunto un punto di svolta e le tecnologie pongono nuove sfide all’organizzazione economica e sociale del mondo. Siamo di fronte a una società di servizi on-demand che elimina gli intermediari, aprendo altri orizzonti e suscitando anche molte incertezze. Non è un processo di evoluzione graduale, ma per salti improvvisi. Prepariamoci a cambiamenti causati da ondate tecnologiche sempre più dirompenti.
I Google Glasses sono rinviati a tempi migliori: idea brillante, torna nell’universo della fantascienza perché nessuno, oggi come oggi, vuole mettersi un computer in faccia. Bitcoin, presentata come la più grande rivoluzione dopo la carta moneta, ha già rivelato le proprie debolezze: insicura, senza garanzie, strumento per lavare denaro sporco; con le banche centrali che mettono in guardia e Warren Buffett che proclama: “Tenetevi alla larga”.
Uber sta provocando reazioni a catena non solo delle corporazioni dei tassisti, ma anche della polizia, preoccupata che diventi lo
strumento per rapine, aggressioni, stupri. Jeff Bezos, dell’e-commerce, si compra un giornale di carta, il Washington Post. Bloomberg, che ha introdotto a Wall Street l’era elettronica, vuole in New York Times. I nativi digitali dopo una sbornia di iMusic, si gettano sui dischi in polivinile. Gli hipsters scrivono le loro poesie su vecchie Olivetti Lettera 22.
I LIMITI DELLA GLOBALIZZAZIONE. Che cosa sta succedendo? Lo tsunami tecnologico che ha appiattito e ristretto il mondo (la prima globalizzazione è figlia di vele e cannoni, come scriveva Carlo Maria Cipolla, la seconda degli aeroplani, la terza dei computer più internet) ha raggiunto i propri limiti? E si tratta di limiti non solo interni alla tecnica, ma esterni a essa: limiti ecologici, sociali, economici, politici, etici. Quanto effetto serra potremo sopportare? Quanti disoccupati il mondo occidentale è ancora capace di sostenere? Di quanta libertà individuale siamo disposti a privarci? Quanta parte del proprio tempo l’uomo contemporaneo vuole trascorrere davanti a uno schermo illuminato? Le domande si accavallano e sembrano formare una diga, se non proprio un’onda contraria alla nuova rivoluzione tecnologica.
Il tema dei limiti allo sviluppo non è certo nuovo. Si può dire che nasce con lo sviluppo stesso. Nel Novecento – il secolo delle più sconvolgenti innovazioni – è fiorito l’esistenzialismo romantico che denuncia la dittatura della tecnica, da Heidegger ad Adorno. Nel 1972 il rapporto del Club di Roma The Limits to Growth, proprio mentre arriva la prima crisi petrolifera, convince il colto e l’inclita che il petrolio avrebbe raggiunto il suo picco già prima del 2000. Nel 2008 il crac finanziario evoca i pericoli della turbofinanza, che muove masse ingenti di ricchezza alla velocità della luce e può mettere in ginocchio persino gli Stati Uniti. Finora, le crisi non hanno mai fermato la distruzione creativa, al contrario. Ma c’è sempre una prima volta. Una delle convinzioni più diffuse nel dibattito su come uscire dalla “lunga recessione“ (o “stagnazione secolare” secondo Larry Summers) è che oggi manca un driver tecnologico con la stessa portata e pervasività della rivoluzione elettronica, vero, l’onda lunga della rivoluzione digitale si sta ancora diffondendo, ma nello stesso tempo è come se si stessero spegnendo i suoi impulsi espansivi.
Nel maggio del 2013, McKinsey Global Institute ha pubblicato un rapporto nel quale individua 12 tecnologie “killer” destinate a cambiare per il meglio la nostra vita nel prossimo decennio: internet mobile; automazione nel lavoro (anche quello intellettuale); applicazioni internet alle cose e ai servizi; tecnologia cloud; robotica avanzata; veicoli autonomi, senza conducente; genomica della nuova generazione; accumulatori di energia; stampanti 3D; materiali avanzati; tecnologie per l’estrazione di gas e petrolio; energie rinnovabili.
UN NUOVO SALTO DI QUALITÀ. Come si vede, queste tecnologie ruotano per lo più attorno al dispiegamento di tutte le potenzialità di internet, ma non solo: dal fracking alle biotecnologie, dalla medicina ai trasporti, dall’uso del vento e del sole fino alle batterie al litio sempre più potenti, si prepara un nuovo salto di qualità.
La manifattura è stata già trasformata in profondità, prima dall’impiego dell’automazione, poi da una profonda riorganizzazione gestionale con la fine del fordismo e il superamento della catena di montaggio. Il suo ciclo secolare, cominciato grosso modo nel 1880, si è chiuso attorno al 1980. E dopo una lunga transizione, sta generando un nuovo modello. L’impiego delle stampanti a tre dimensioni e l’ulteriore sviluppo dei robot, non solo rendono obsolete fabbriche e capannoni, ma rimettono in discussione l’impresa piramidale. Il laboratorio, l’officina, l’industria diffusa nel territorio, quello che finora è stato il punto di forza del modello italiano – oggetto di studio trent’anni fa – sembra diventare paradigma di riferimento per la terza (o quarta) rivoluzione industriale. A essere coinvolto ora è l’Occidente nel suo insieme, che tende a specializzarsi nella fascia alta della catena del valore, lasciando al mondo in via di sviluppo la produzione di massa. Ma, a mano a mano che paesi come la Cina acquisiscono livelli di qualità superiore e hanno accesso alle tecnologie sofisticate, questa divisione internazionale del lavoro è destinata a modificarsi.
Nel frattempo, l’era digitale plasma anche i servizi. Secondo l’Economist sta nascendo una società on demand. Uber nei trasporli individuali, per lo più urbani, consente di prendere una limousine sotto casa con una semplice applicazione sullo smartphone. Con Dandy si può avere l’appartamento o l’ufficio pulito e riassettato quando e come si vuole. Washio è una lavanderia digitale. BloomThat consegna mazzi di fiori dove e quando si vuole. SpoonRocket porta a domicilio cibi ancora caldi dei migliori ristoranti nel giro di dieci minuti. San Francisco è il regno di questa vita à la carte che si diffonde a macchia d’olio: lo dimostra proprio il successo di Uber che, fondata nel 2009, opera già in 53 paesi (pur tra molte controversie).
I vantaggi sono notevoli in termini di costi, di disponibilità dei servizi, di flessibilità degli orari, di personalizzazione. Non solo. Queste tecnologie non sono distruttive di manodopera, al contrario; a differenza dalle fabbriche robotizzate, non possono fare a meno di impiegare donne e uomini in carne e ossa. Ciò vale sia per la parte ideativa e organizzativa, sia per la esecuzione materiale. Ma come in lutti i grandi cambiamenti, si generano anche forti conseguenze negative. C’è un problema di garanzia del servizio, di controllo, di regolazione in senso lato.
LE TRASFORMAZIONI SOCIALI. L’economia on demand trasforma radicalmente anche il modo di lavorare e la stessa organizzazione sociale. Altro che addio al posto fisso: qui il lavoratore, sia manuale sia intellettuale, diventa un eterno freelance. Negli Stati Uniti sono già molti milioni, l’Europa occidentale segue a ruota. Ciò pone problemi di tutela dei diritti, di qualità del lavoro, di salario e soprattutto di assistenza sociale. È chiaro che a quel punto sarà il lavoratore a doversi pagare la pensione o la sanità. Questo può funzionare solo per chi percepisce paghe elevate; e non è certo questa la situazione prevalente, in base all’esperienza attuale. Un modo per ovviare, secondo l’Economist potrebbe essere l’approccio della Obamacare (la riforma sanitaria voluta fortemente dal presidente americano, e tuttora osteggiata dai suoi avversari politici) con la portabilità individuale dell’assistenza. Ma una soluzione che sostituisca o il sistema assicurativo o il sistema universalistico pubblico non è stata trovata.
La trasformazione indotta da internet, dai social media e da cespugli di innovazioni che si sviluppano attorno al tronco digitale, sta già trasformando le banche, con un impatto pesante nell’occupazione. I servizi finanziari sono stati tra i maggiori creatori d’impiego a partire dal big bang degli anni Ottanta; ora è arrivata una pioggia di licenziamenti. Ma un vero diluvio si scatenerà se troverà ampio spazio una delle principali innovazioni degli ultimi anni: Bitcoin. Potrebbe essere definita l’evoluzione della carta di credito, tuttavia la vera novità è che mette direttamente in contatto cliente e fornitore, creditore e debitore, tagliando fuori i passaggi intermedi e le istituzioni che gestiscono, dalle grandi catene come Visa, MasterCard, American Express, fino, in prospettiva, alle banche così come le conosciamo. Avremo sempre bisogno di depositare da qualche parte il nostro denaro, ma ci sarà meno necessità di affidare ad altri le funzioni intermedie.
Michael J. Casey e Paul Vigna, che hanno appena pubblicato un libro sul potere rivoluzionario della moneta digitale (The Age of Cryptocurrency), sottolineano che “Bitcoin non sloggerà mai il dollaro, ma è un sistema radicalmente nuovo e decentralizzato per gestire il modo in cui le società si scambiano il valore. È, molto semplicemente, la più grande innovazione finanziaria in 500 anni – cioè, da quando i fiorentini inventarono le banche”. Nata nel 2008 (proprio mentre falliva Lehman Brothers), ha già manifestato notevoli difficoltà. Per esempio le frodi: mezzo milione di dollari è evaporato in uno scambio online a Tokio; a Manhattan la polizia ha arrestato un giovane per riciclaggio attraverso Bitcoin. I “portafogli”, come vengono chiamate le applicazioni individuali per gestire il denaro, si sono rivelati vulnerabili. I prezzi fluttuano troppo, fino al 10% da una settimana all’altra. Vengono a cadere, così, alcuni punti fermi della moneta e della banca (sicurezza, certezza, efficienza, garanzia del valore).
Ma l’inventore che si nasconde sotto lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto sta lavorando a nuove soluzioni per risolvere problemi che non sono certo da poco. Gli ottimisti sperano, i pessimisti gufano. Intanto Bitcoin non si ferma e si sta rivelando fondamentale per i migranti e nei paesi in via di sviluppo nelle aree dove le banche sono lontane.
LE SFIDE DELL’ISTRUZIONE ONLINE. In un universo sempre più mobile in cui i talenti arrivano dall’altro mondo, la rivoluzione digitale sta trasformando l’istruzione, persino le università, anzi la crème de la crème del sapere. Internet, che ha già rovesciato da cima a fondo la musica, i giornali, i libri, il cinema e in parte la tv, adesso sta per sconvolgere anche l’università che, in fondo, dai tempi di Aristotele è cambiata in dimensioni e tipi di insegnamento, ma non molto nella sua sostanza. Adesso arriva MOOC, Massive Open Online Course, che può scardinare i pilastri stessi del sistema. Nata nel 2008, questa nuova tecnologia “killer” ha galleggiato a lungo senza grande impatto finché non sono arrivati investitori privati e grandi università spinte da due fattori economici chiave: i costi e il mercato del lavoro. Entrambi richiedono cambiamenti che solo online possono essere realizzati rapidamente e con una spesa accettabile. Harvard Business School, così, si prepara a offrire un pre-MBA per 1.500 dollari appena, cioè venti o trenta volte in meno il costo dei corsi frequentati a Boston. Starbucks ha offerto di contribuire al pagamento di un diploma online per i propri dipendenti con l’Università dell’Arizona. Qualcosa del genere è in corso tra Georgia Tech e AT&T attraverso il provider Udacity. Gli esempi si moltiplicano negli Stali Uniti, e secondo l’Economist anche in Inghilterra la super-elitista Oxford si sta mettendo su questa strada. L’impatto è davvero notevole; la concorrenza dei talenti diventerà sempre più senza confini: il Massachusetts Institute of Technology ha scovato online un ragazzo dalle incredibili doti addirittura in Mongolia.
Come tutte le magnifiche sorti e progressive dispiegate dalle tecnologie, anche MOOC suscita interrogativi fondamentali: cosa ne sarà della città universitaria? Che valore avrà un titolo di studio online? Davvero per sviluppare le proprie capacità basta rispondere a dei quiz davanti al computer? Non è diseducativo e persino pericoloso cancellare il contatto diretto con gli insegnanti e con gli altri studenti? Ma, ancora una volta, potrebbe emergere un modello meno estremo che punta sulla convergenza e sulla complementarità; un po’ come nell’informazione dove, dopo la sbornia di siti e giornali online nessuno dei quali è in grado di sopravvivere con i propri mezzi e chiudere un bilancio in attivo (questo vale anche per i più famosi prodotti americani di successo), si sta cercando di accoppiare new media e old media, siti e carta, computer e tv.
UN FUTURO DI ONDE TECNOLOGICHE. Si va avanti, dunque, per prove ed errori. Il (brave?) new world non nascerà in un giorno. E il processo non si realizzerà, a differenza di quel che è accaduto nel quarto di secolo precedente, secondo una logica evoluzionistica. Dovremo abituarci a onde tecnologiche che vanno e vengono, spazzano spiagge sicure e poi si ritirano con la forza e l’andamento delle maree. Allo stesso modo, la globalizzazione si spezza in una serie di placche tettoniche e, tra l’una e l’altra, le fratture potranno anche allargarsi. Il timore degli effetti sociali e politici fa rialzare la testa ai protezionisti vecchi e nuovi. Secondo uno studio di UBS (Unione delle Banche svizzere), tra il 2013 e il 2014 si intravedono già segni di un ritrarsi della globalizzazione in termini di movimenti di capitali e di merci.
È troppo presto per parlare di una inversione vera e propria, ma rischia di diventare troppo tardi se non si prende coscienza di quel che sta accadendo. Le linee di faglia non riguardano solo aree economiche in competizione tra loro, perché all’interno delle stesse aree e dei singoli paesi si manifesta un aumento delle diseguaglianze economiche, educative, culturali. Il digital divide è una delle cause principali del gap crescente tra ricchi e poveri secondo alcuni studi sul campo condotti dal Fondo monetario internazionale in questi anni. Più in generale, la trappola della povertà si chiude su chi non ha il livello e il tipo di istruzione che la società moderna richiede; ciò vale per i paesi poveri, ma anche per quelli ricchi dove è la causa prima del fenomeno oggi sulla bocca di tutti: l’assottigliarsi, se non proprio la proletarizzazione, della classe media.
La politica, le istituzioni pubbliche, i governi sono indietro. Ancora una volta, non hanno capito in tempo i processi nuovi e hanno cercato di rincorrerli malamente. Adesso cavalcano le tensioni sociali e danno corpo alle pulsioni populiste che emergono in ogni fase di transizione, tanto più quando la metamorfosi della società è così profonda. Stiamo assistendo alla mutazione della società industriale così come l’abbiamo conosciuta, quella nata in Inghilterra e potenziata in America, guidata dal mercato e dalle innovazioni tecnologico-organizzative. Nessuno è in grado di capire e, quindi, di nominare quel che sta emergendo. Definizioni che si limitano ad aggiungere il prefisso post (come ad esempio post-industriale, post-consumistica, post-ideologica) sono semplificazioni che non spiegano nulla. Quel che possiamo vedere ha un impatto possente sulla struttura della polis, il luogo pubblico nel quale si svolge il gioco degli scambi. Il mercato ancora una volta è andato più avanti, ma esso stesso ha bisogno di un’arena precisa e di regole chiare perché, come sosteneva Luigi Einaudi, il mercato è quanto di più lontano dalla legge della giungla. Una cosa è certa: la cultura politica e quella giuridica debbono cambiare i loro abiti curiali.
Per non restare a un livello troppo astratto, è chiaro che la pubblica amministrazione non può funzionare come un tempo nemmeno là dove è più efficiente. Né il welfare può essere gestito ed elargito soltanto dallo Stato. La globalizzazione industriale ha esteso su scala mondiale la concorrenza del capitale, del lavoro, delle merci; adesso tocca ai servizi collettivi e a quelli individuali. Nella sanità o nell’istruzione questo salto sta già avvenendo; la rivoluzione digitale è destinata a travolgere tutto il resto.
Per capire il mondo che si apre dopo la crisi e sotto l’impatto della prossima onda di innovazioni distruttive, non serve né il positivismo vecchia maniera né il pessimismo tecnologico da distruzione della ragione. L’approccio migliore è quello pluralistico che si basa sul pensiero critico: prepararsi al nuovo e preparare il nuovo.