Tommaso Rodano, il Fatto Quotidiano 23/4/2015, 23 aprile 2015
Vins Gallico ha 39 anni ma ne dimostra meno. Ha i capelli corti e scapigliati. Un maglione grigio sdrucito e un paio di pantaloni che gli calzano larghi
Vins Gallico ha 39 anni ma ne dimostra meno. Ha i capelli corti e scapigliati. Un maglione grigio sdrucito e un paio di pantaloni che gli calzano larghi. Ha modi semplici e voce gentile. L’accento calabrese è mitigato dagli anni lontano da casa (è nato a Reggio, ha vissuto in Germania, ora a Roma). Non se la tira, insomma: non dà l’idea di uno scrittore rampante, da Premio Strega. E invece, a sorpresa, il suo nome è finito nella lista dei dodici finalisti. Si fa ancora più fatica, poi, a metterlo nei panni del protagonista del suo Final Cut. Un ragazzo che sbarca il lunario inventandosi un nuovo lavoro. Non uno qualsiasi: la Final Cut si occupa di mettere fine alle storie d’amore. I suoi clienti sono persone che non hanno il coraggio di lasciare il partner, di dare un taglio definitivo. E allora pagano qualcun altro perché lo faccia al posto loro. «Ho l’impressione che ormai facciamo una tale fatica a tenere insieme i pezzi della nostra vita – spiega Gallico – che non abbiamo più tempo o non siamo più in grado di gestire i sentimenti. E gli altri esseri umani finiamo per trattarli come dei file da archiviare». Al protagonista del suo romanzo non ha dato nemmeno un nome. Lo ha punito perché è troppo infame? «Ma no (ride, ndr). Non è cattivo. È un poveraccio. Il suo distacco è una finzione, una pretesa: racconta a se stesso di essere qualcosa che non è. Pretende di basare la sua vita sull’equilibrio finanziario, vive per il pareggio di bilancio. È una persona sola». La Final Cut in fondo è una start up… Anche lei si è dovuto inventare il suo lavoro? «Ne ho avuti tanti. Ho vissuto in Germania dal 1999 al 2007. Ho fatto il barista, ho montato teloni in un cinema all’aperto, dove poi vendevo i pop corn. Ho insegnato letteratura italiana, con contratti precari, a Gottinga e a Brema». Intanto scriveva? «Partecipavo ai premi letterari più assurdi. Mi servivano soldi: guardavo la lista dei concorsi su Internet e sceglievo quelli che avevano un premio in denaro. Ricordo ancora la vittoria più comica. Il premio “Lettere d’amore” di Torrevecchia Teatina, un paesino in Abruzzo. Vinsi 450 euro, ma non mi pagarono mai: pretendevano andassi a ritirarli di persona dalla Germania…». Perché è tornato in Italia? «Pensavo di essere di passaggio, di non restare a lungo. Sono cambiate alcune cose nella mia vita privata. È arrivato il lavoro da libraio, in un negozio Rinascita di Roma. E poi il primo romanzo, Portami Rispetto». Che parla di ‘ndrangheta. «Credo che Rizzoli si sia convinta a pubblicarlo sulla scia del boom di Gomorra. Ma è un malinteso: Portami Rispetto è una fiction, anche se racconta storie di mafia vere. Ma non mi posso iscrivere al filone dell’eroismo civile (sorride, ndr)». Oggi fa il libraio. Dirige il caffè letterario “Fandango Incontro” e pubblica Final Cut. Nell’arco di due romanzi è passato dal concorso di Torrevecchia Teatina alla dozzina finale del Premio Strega… «Ed è appena nato mio figlio Nico… Succede tutto incredibilmente in fretta». Si offende se le dico che non ha il physique du rôle dello scrittore da Strega? (Ride, ndr) «Nel bene o nel male lo Strega rimane un pezzo della tradizione culturale italiana. Basta vedere chi l’ha vinto negli Anni 60 e 70: i più grandi scrittori italiani del dopoguerra». Quello spirito si è un po’ perso. O no? «È chiaro, lo Strega è anche una grande vetrina. Serve a promuovere le vendite, è naturale che sia molto ambito dalle case editrici più potenti. Però mi pare che stiano provando a svecchiarlo. L’anno scorso, per esempio, la Fandango (la casa editrice di Final Cut, ndr) ha portato allo Strega il primo romanzo a fumetti, Unastoria di Gipi». Quest’anno c’è ZeroCalcare. «È una persona genuina, molto divertente. È riuscito a intercettare un pubblico numeroso mettendo al centro delle sue storie le sue “pippe mentali”. Ma Gipi, secondo me, ha un altro spessore: è un poeta e un artista». E del “fantasma” Elena Ferrante cosa pensa? «Mi piace. E non mi appassionano i pettegolezzi sulla sua identità. Né le polemiche per il fatto che Saviano le faccia da sponsor. Le do una notizia: sicuramente Saviano e la Ferrante non sono la stessa persona (ride, ndr)». Prendo atto che difende lo Strega: non è un premio “da parrucconi”. Ha preparato lo smoking? «Ma stiamo scherzando? Io ci vado vestito così, con una felpa! Ho una sola giacca a casa, nascosta in qualche cassetto. Allo Strega non ci sono solo gli “abbuffoni” che si fanno fotografare da Dagospia. C’è il resto del mondo dell’editoria, anche quella piccola: se può servire a fare un po’ di pubblicità a buoni libri che altrimenti non leggerebbe nessuno, allora ben vengano pure i parrucconi. E poi chi sono io per fare la morale al Premio Strega, in un paese in cui si legge così poco? Le racconto un aneddoto…». Mi dica. «Il negozio della Fandango è in via dei Prefetti, proprio dietro Montecitorio. Lo sa quanti politici vedo quando lavoro?». Immagino moltissimi. Vengono a fare spese nella sua libreria molto spesso? «No. Se ne stanno in una saletta laterale, per parlare tranquilli. I libri non li guardano nemmeno. Io sono di sinistra, ma le devo dire che i parlamentari di sinistra, con l’eccezione di Gianni Cuperlo, leggono pure meno degli altri…».