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 2015  aprile 23 Giovedì calendario

Notizie tratte da: Vincent Moylan, Roma passion jewels. Paolo e Nicola Bulgari si raccontano, Mondadori Electa 2015, pp

Notizie tratte da: Vincent Moylan, Roma passion jewels. Paolo e Nicola Bulgari si raccontano, Mondadori Electa 2015, pp. 139, 40 euro.

PAOLO BULGARI
Questo palazzo è l’ufficio di famiglia, mio padre lo comprò nel 1942, e tutti gli oggetti e le opere d’arte qui mi appartengono. Quel piccolo dipinto è un mio acquisto, un Renoir, e ha un grande valore affettivo. Proviene dalla collezione di un amico di famiglia di nome Roger Varenne, un uomo importante nel settore delle pietre preziose, che collezionava dipinti. Era francese ed ebreo. Negli anni Trenta emigrò in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, poi dopo la guerra si stabilì in Svizzera, a Ginevra. Nella sua sala da pranzo aveva quattro o cinque piccoli Renoir, tra cui questo. Quando morì, la famiglia decise di mettere all’asta, a New York, parte della sua collezione e io acquistai il quadro, perché mi riporta alla mente tanti ricordi felici. Era un uomo straordinario e mi ha insegnato molte delle cose che so. Era uno dei maggiori esperti di gemme al mondo.

L’India ha un’influenza importante sulla gioielleria moderna. Tutti i colori della sua arte e dell’architettura sono parte della nostra ispirazione; è fondamentale nella formazione del nostro gusto, o almeno del mio. Inoltre, i gioielli sono da sempre molto importanti nella cultura indiana. Guardando i ritratti dei maharajah si nota come non fossero solo le donne a indossarli, ma anche gli uomini. Le pietre preziose erano parte integrante della vita quotidiana dei ricchi, e talvolta anche dei meno ricchi. La gioielleria indiana è stata la prima a mescolare i colori in modo audace.

Da bambino ricordo di essere andato solo qualche volta nel negozio di via Condotti. Mio padre teneva il lavoro separato dalla vita familiare. Eppure molte delle cose che so le ho imparate da lui, osservandolo e seguendone l’esempio. Ovviamente mia madre era più coinvolta nel nostro quotidiano. Eravamo quattro figli (Lia, Gianni, Paolo e Nicola). A quell’epoca, prima della Seconda guerra mondiale, genitori e figli vivevano in due mondi diversi. Erano le tate che si prendevano cura di noi. Non era facile parlare con mio padre, lui era amorevole, gentile ed era un uomo semplice, ma apparteneva a un’altra generazione. Era nato nel 1890, aveva cominciato a lavorare prima della Prima guerra mondiale e la sua famiglia veniva dal nord della Grecia, un contesto tradizionalista.

Ho cominciato a lavorare con mio padre a diciannove anni. Da giovanissimo volevo fare l’architetto, poi ho deciso che avrei studiato legge e sono andato all’università, ma ero un pessimo studente. Mio padre diceva che gli sarebbe piaciuto che noi figli andassimo a lavorare con lui e così feci. È stato in questo modo che ho imparato il lavoro del gioielliere, e fu un periodo interessante della mia vita. Andavamo spesso a Parigi e Londra. Parigi era il centro della gioielleria e del mercato delle gemme. Era stancante e un po’ frustrante perché mio padre lavorava tutto il tempo, mentre quando hai vent’anni e sei a Parigi sono tante le cose che vorresti fare, oltre a lavorare dieci ore al giorno! All’inizio ero coinvolto in ogni aspetto dell’attività, ma presto mio padre mi affidò la responsabilità di supervisionare i laboratori che lavoravano per noi a Parigi e a Roma.

Ho imparato questo lavoro nel corso degli anni, ma ho anche imparato ad amarlo nel tempo, perché l’amore arriva con il successo, quando le risposte sono positive ti appassioni a quel che fai. Il momento più gratificante per un gioielliere è quando si conclude una vendita, in questo modo si riceve la risposta alla domanda più importante: “È davvero bello?”.

Un aspetto esaltante di questo lavoro è che devi sempre tener presente cosa farai domani. Se vendi un gioiello significa anche che ne dovrai creare uno nuovo. La stessa regola si applica alla vita: bisogna sempre guardare al futuro, non al passato. Ma devo essere sincero: a volte, quando vendo un gioiello di cui sono particolarmente orgoglioso, è come se stessi perdendo un membro della famiglia.

Le pietre preziose non hanno nulla a che vedere con la tecnica, sono un mestiere che si impara sul campo, non su un libro o a scuola. Per esempio, quando stringo in mano una gemma, non ho bisogno di guardarla per sapere se la sfaccettatura è perfetta. Questo è un trucco che si può imparare solo lavorando. Basta avere maestri abili.

Mio padre era un maestro nel suo mestiere, mentre Roger Varenne era anche un grande appassionato d’arte, di una sensibilità strabiliante, e i due andavano d’accordo. Alla fine degli anni Cinquanta, la vedova Bonnard aveva bisogno di soldi, e un giorno Varenne chiamò mio padre e gli disse: “Vuole vendere tutti i quadri che le rimangono”. Erano un centinaio e chiedeva cinquecentomila dollari. Erano molti soldi per quell’epoca, ma nulla se paragonati ai prezzi di oggi. La donna voleva venderli solo in blocco e Roger chiese a mio padre di dividere l’acquisto con lui. Mio padre disse di no. Ci pensi, se avesse detto di sì...! Ma non era da mio padre, Roger era più poliedrico in fatto di gusti.

Quando ho cominciato a lavorare, alla fine degli anni Cinquanta, il mondo delle pietre preziose era diverso. Il mercato si concentrava a Parigi e la scelta era ampia. Oggi si riescono a trovare una o due gemme interessanti qua e là, ma praticamente non c’è scelta. A quei tempi, ogni volta che arrivavamo a Parigi, nei nostri uffici si presentavano decine di commercianti con centinaia di pietre. Molte arrivavano dall’India perché i maharajah stavano vendendo i loro tesori; era divertente, mentre oggi tutti sanno tutto di ogni singola gemma. È raro trovarsi di fronte a una di quelle che i francesi chiamano trouvaille, un pezzo raro e bellissimo di cui nessuno ha mai sentito parlare. Cinquant’anni fa ci si imbatteva in una trouvaille ogni settimana, talvolta ogni giorno.

La miglior trouvaille che ricordi è la collezione di diamanti colorati di Myran Eknayan. Era il marito di un’attrice francese, oltre a essere un collezionista di quadri impressionisti, e aveva accumulato diamanti colorati per anni, una collezione mozzafiato con pietre di ogni sfumatura. Era da tempo che mio padre gli chiedeva di vendergliela e un giorno lui acconsentì. Comprammo tutto in blocco, centinaia di diamanti di diversi colori. Per quuesto Bulgari cominciò a creare le spille floreali di diamanti colorati. Ne avevamo tantissimi e dovevamo pur farne qualcosa.

Negli anni Settanta il mercato ha lasciato Parigi per ragioni fiscali e si è spostato a Ginevra e New York, dove si colloca tuttora. A New York lavoravo con Raphael Esmerian, una leggenda del mondo della gioielleria. Il pezzo migliore acquistato da lui era una spilla a quattro foglie, ognuna costituita da un diamante grande come una mandorla, verde e tagliato a rosa. Era uno dei gioielli più incredibili che avessi mai visto. Penso che le pietre fossero indiane. Lo acquistai immediatamente e lo vendetti a una persona che viveva a Roma, che ne è ancora in possesso. È uno dei collezionisti più importanti che conosco e nel corso degli anni ha acquistato gioielli favolosi.

I grandi collezionisti di gemme sono uomini. Regalano i gioielli alle loro mogli (in realtà non sempre), ma sono loro che amano le pietre.

Il conte Vittorio Cini era uno degli uomini più ricchi d’Italia. Era sposato con l’attrice Lyda Borelli e avevano quattro figli, un maschio e tre femmine. Appena prima della guerra, acquistò da noi molti gioielli perché temeva che il denaro stesse per svalutarsi, e pensava così di preservare parte della sua fortuna. Quando veniva in via Condotti non era per comprare un solo pezzo, ma tutti quelli che la teca conteneva. Anche due, tre teche per volta. Comprava e lasciava tutto nella cassaforte di mio padre. Nel 1944 fu arrestato dai tedeschi e mandato in un campo di concentramento. Il figlio Giorgio partì per Berlino con una valigia piena di dollari e corruppe tutti, le autorità, i generali, le SS, i nazisti. E salvò suo padre. Lo portò in Svizzera in attesa della fine della guerra. Ma purtroppo Giorgio morì giovane, nel 1949, in un incidente aereo, e suo padre creò una fondazione a Venezia in sua memoria. Quei gioielli li vidi nella cassaforte dopo la guerra. Alcuni sono stati venduti all’asta e mio padre ne ricomprò un po’, tra cui due diamanti, uno blu e uno rosa. Quello blu era a cuscino e pesava ventiquattro carati. Era blu scuro, colore rarissimo. L’ho venduto io stesso a Roma a una famiglia italiana, e loro lo hanno venduto qualche anno fa a un compratore in Medio Oriente. Quello rosa aveva un colore perfetto e pesava ventiquattro carati, taglio smeraldo. Mio padre l’aveva trovato negli Stati Uniti negli anni Trenta. Poi lo vendette al conte Cini e lo ricomprò nel 1953 per una cifra molto più alta, per poi venderlo nuovamente a un industriale italiano, che lo regalò alla moglie. La signora una sera, ballando in un locale di Roma, lo perse. Qualche giorno dopo, il cliente venne da mio padre a spiegargli l’accaduto e chiese di avvisarlo se mai un giorno gli fosse capitato di sentirne parlare. Quindici anni dopo ricevemmo il catalogo di un’asta e il diamante era lì. Impossibile sbagliare, quel diamante rosa era unico. Il banditore organizzò un incontro con la persona che lo aveva messo in vendita. Era una persona normalissima, che si trovava nel locale la stessa sera del nostro cliente; aveva trovato la spilla per terra e, non avendo idea del suo valore, l’aveva tenuta in un cassetto per anni. Quando l’aveva portata a una casa d’asta per farla valutare aveva avuto la sorpresa più grande della sua vita. Chiamammo il cliente, che decise di far proseguire l’asta e di donare a quell’uomo il dieci per cento del prezzo di vendita. La cifra, un miliardo e duecento milioni di lire, alla fine degli anni Sessanta, era enorme, e quella persona ricevette centoventi milioni. Ora la pietra si trova in Medio Oriente.

Oggi tra i maggiori collezionisti che conosco, la più importante è una donna tedesca, che possiede pezzi fantastici, una raccolta spettacolare di pietre, gioielli e pezzi d’autore. La sua è forse una delle più grandi collezioni del mondo, se non si contano quelle del sultano del Brunei e di alcuni principi arabi. Se un giorno decidesse di mettere all’asta i suoi gioielli, il prezzo delle pietre preziose crollerebbe. Negli ultimi venticinque anni ha acquistato i pezzi più strabilianti di ogni gioielliere. Fortunatamente ne ha comprati diversi da me! Tra i collezionisti ricordo anche un romeno fuggito dal suo Paese dopo il passaggio al comunismo. Era un genio degli affari e costruì una fortuna in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta. Comprava continuamente diamanti, rubini e smeraldi. Il fatto di possedere quei preziosissimi gioielli lo faceva sentire al sicuro, sapeva che se fosse accaduto qualcosa sarebbe potuto fuggire con essi. È morto qualche anno fa.

Negli anni Sessanta i maggiori collezionisti erano italiani e americani. Dopo la guerra, in Italia ci fu il miracolo economico, molti si arricchirono e parte di quei soldi fu investita in gioielli. Il Medio Oriente arrivò qualche anno dopo, intorno al 1972. Non può immaginare cosa volesse dire andare in questi paesi all’epoca: viaggiavamo con quaranta, cinquanta scatole di gioielli e gli appuntamenti erano sempre tra l’una e le due di notte. Durante il giorno non si fa niente perché è troppo caldo.

Barbara Hutton è stata una delle collezioniste più importanti del Ventesimo secolo. Era una delle donne più ricche al mondo, era elegante e possedeva gioielli favolosi, come un bracciale di diamanti, tutti con taglio a pera. Negli anni Trenta a Roma viveva un’importante socialite di nome Dorothy di Frasso, americana sposata con un aristocratico italiano. Erano i proprietari di Villa Madama. Barbara soggiornò lì e, per ringraziare la padrona di casa, venne da Bulgari ad acquistare un collier di rubini e diamanti, che lasciò sotto il cuscino della contessa prima di ripartire. Fu così che mio padre la conobbe. Negli anni Cinquanta poi le vendette un diamante che proveniva dalla collezione del re Farouk d’Egitto: il Pasha.

Dorothy di Frasso era amica di mio padre. Durante la guerra, tutti i beni che lui possedeva in America erano stati congelati, perché gli Stati Uniti erano in guerra contro l’Italia. Quando lui vi fece ritorno per la prima volta nel 1946, Dorothy gli fu di grande aiuto per recuperare le sue proprietà.

Nella nostra casa di via Paisiello, a Roma, i miei genitori nascondevano i prigionieri greci fuggiti dai campi di concentramento. Allora l’Italia era in guerra con la Grecia e quei soldati erano prigionieri di guerra che, sapendo delle sue origini greche, chiedevano aiuto a mio padre. Erano momenti drammatici, ma per noi, che eravamo molto piccoli, era una specie di gioco, un’avventura. Uno di quei soldati, che all’epoca aveva circa trent’anni, era Evangelos Averoff, membro di una famiglia greca importante. Dopo la guerra divenne ministro degli Esteri.

Ricordo bene il sentimento di comunanza che ci accompagnava nel periodo della guerra. La nostra famiglia, i nostri amici, le persone che lavoravano per noi in via Condotti, eravamo tutti uniti. I tempi difficili possono tirare fuori il meglio dalle persone.

Mio padre è morto nel 1966, quando avevo ventinove anni, perciò non ho avuto scelta, ho dovuto prendere il suo posto. Era una grande responsabilità, ed essendo così giovane sarebbe stato facile per me commettere errori. Nell’acquisto delle gemme non è mai successo, ma ne ho fatti vendendole: negli anni Ottanta c’era una specie di febbre dei diamanti e i prezzi salivano raggiungendo livelli inauditi. Ero a Monte Carlo e avevamo un diamante meraviglioso, taglio brillante, quindici carati, del valore di circa un milione e cinquecentomila dollari. Un cliente me ne offrì un milione e duecentomila e io rifiutai. Qualche settimana dopo, il prezzo dei diamanti scese moltissimo e alla fine, tempo dopo, vendetti quella gemma per cinquecentomila dollari: uno dei peggiori investimenti della mia vita.

La magia delle pietre preziose è legata al loro straordinario valore. Racchiudono un’enorme somma di denaro in uno spazio piccolissimo.

La madrina di mia sorella era una donna greca molto ricca che viveva in Egitto. Quando Nasser salì al potere nel 1954 dovette lasciare il paese. Fortunatamente suo marito era un diplomatico greco, così riuscì a portare con sé tutti i suoi gioielli, anche se dovette lasciare tutto il resto. Venne a vivere a Roma e, grazie ai gioielli, poté vivere in grande stile fino al giorno della sua morte. Aveva un appartamento al Grand Hotel e giocava al casinò, ogni tanto veniva da mio padre per vendere un gioiello.

Le idee per le mie creazioni le trovo ovunque. Alcuni direbbero che i nostri gioielli prendono ispirazione dall’India o dall’antica Roma, ma non è così semplice. Sì, mio padre è stato influenzato dall’India. Negli anni Cinquanta andava a Parigi per acquistare le pietre, e molti dei commercianti erano indiani, così il suo modo di concepire la gioielleria è cambiato in quel periodo. Cominciò una sorta di rivoluzione dopo la guerra, utilizzando una quantità di colori diversi. Prima le sue creazioni erano più classiche, ma dopo la guerra cambiò tutto: lo stile di vita, il modo di vestire delle persone. Naturalmente in Italia arrivarono la cultura, la musica e l’arte americane. Gli anni Cinquanta portarono una grande apertura. Qualche anno dopo prese il via un’altra rivoluzione, quando cioè io e i miei fratelli cominciammo a creare gioielli facili da portare. Chiunque poteva indossarli, non erano gioielli da corte, del tipo che acquisterebbe una regina. Nacque così la serie Monete, gioielli ideati a partire da monete antiche che, naturalmente, erano di origine romana o greca. Lo stesso si può dire delle spille floreali: non c’era bisogno di essere invitati a una festa da ballo per poterle indossare.

La dolce vita fu una reazione a cinque anni di guerra terribilmente difficili, e Roma era à la mode. All’epoca via Condotti era un luogo esclusivo. Viaggiare era ancora difficile, pochissime persone avevano i mezzi per farlo, ma quei pochi avevano moltissimi soldi, e fortunatamente venivano da noi, in via Condotti. Se si osservano le foto dell’epoca, tutti gli uomini indossavano l’abito e la cravatta e tutte le donne portavano il cappello.

Non ricordo Fellini: forse è venuto, ma non spesso. Anna Magnani invece la ricordo bene, perché la prima volta che ci siamo incontrati mi ha trattato malissimo. Avrò avuto ventidue anni, eravamo all’inizio degli anni Sessanta. Un giorno arrivò lei e tutti erano già impegnati, perciò dovetti occuparmene io. Non ha idea! Era una donna esigente e quando vide quel giovanotto non molto esperto semplicemente non poté resistere!

Elizabeth Taylor era splendida, di una bellezza straordinaria. Per le riprese di Cleopatra, nel 1961-62, rimase a Roma per molti mesi. Sia lei che Richard Burton erano sposati e s’incontravano con discrezione in diversi luoghi, tra cui il salottino con l’ingresso privato di Bulgari. Discutevano e bevevano. Spesso lui le comprava un regalo: smeraldi, diamanti... Burton era un uomo affabile, amichevole. E la amava da impazzire. Spese così tanti soldi per lei, per quei gioielli. Forse Elizabeth era troppo bella ed era troppo amata per il fatto di essere così bella.

Nel 2011 a New York, all’asta da Christie’s per la collezione di Elizabeth Taylor, Bulgari ha ricomprato il suo spettacolare collier di smeraldi e diamanti. Oggi forse potremmo realizzare un collier come quello, ma sarebbe difficile. Ci vorrebbero anni per raccogliere pietre dello stesso colore, qualità e dimensioni. Al di là della sua provenienza illustre, quel collier è un’eccezionale opera di gioielleria.

La mia gemma preferita è lo zaffiro. Ha tanti colori possibili: blu, rosa, giallo... ed è molto elegante. Mi piacciono anche gli smeraldi. I rubini per me sono difficili da capire, ed è difficile trovarne. Quello birmano è rarissimo e i prezzi sono assurdi. Negli ultimi quattro o cinque anni si sono alzati moltissimo, il prezzo corrente per un eccellente rubino birmano è di un milione di euro a carato, e questo non mi piace. Ultimamente sono stati prodotti molti rubini sintetici, perciò bisogna essere cauti. Alcuni anni fa stavo quasi per comprarne uno.

I famosi zaffiri del Kashmir penso siano un’idiozia. Si pagano prezzi esorbitanti solo perché vengono da lì, ma alcuni tra quelli che arrivano dalla Birmania o dallo Sri Lanka sono più belli. Comprare una pietra sulla base di un certificato non è qualcosa che farei: le gemme le compro con gli occhi. Non m’importa se provengono dallo Sri Lanka, dal Kashmir, dalla Colombia o dallo Zambia, basta che siano belle. Sfortunatamente al giorno d’oggi sono tutti ossessionati dalla carta: hanno bisogno dei certificati.

Per me un diamante deve essere speciale. Il taglio è importante. Adoro quello a cuscino e quello ovale, perché quando li tocchi non senti spigoli.

Se parliamo di alta gioielleria, bisogna impiegare pietre preziose: diamanti, rubini, zaffiri, smeraldi; perciò è necessario partire dalla gemma, perché, se non si ha quella, ovviamente non si può fare nulla. Quando si creano gioielli con pietre più piccole si è più liberi. Si ha la consapevolezza di potersi muovere a proprio piacere e le pietre diventano un problema secondario.

Stia diventando sempre più difficile reperire le gemme. Bisogna tener presente che oggi utilizziamo pietre che cinquant’anni fa non usavamo, come lo spinello, che è una pietra fantastica. Ha dei colori mozzafiato, con una miriade di sfumature di rosa, di viola... Per certi versi è stimolante, perché ti dà la possibilità di creare tipologie di gioielli diverse. È necessario essere sempre più creativi e avere molta inventiva. Scarsità di pietre preziose in circolazione a parte, bisogna tenere conto anche dei prezzi, che salgono continuamente. Alcuni oggi sono veramente folli. Negli ultimi anni il mercato è impazzito.

Non sono un designer, mi limito agli schizzi che poi mostro ai designer. Abbiamo un rapporto proficuo, ci capiamo con facilità. Il lavoro di squadra è fondamentale.

Non ci sono regole in questo campo, solo immaginazione e pazienza. La fretta spinge a fare cose stupide. Ogni processo creativo ha i suoi momenti belli e i suoi momenti brutti, a volte ti senti euforico, a volte la stanchezza prende il sopravvento. Per me dipende spesso dal tempo. Se è una bella giornata è più facile. Quando il tempo è brutto invece diventa difficile, perché la luce è importante per le pietre. In certi momenti semplicemente non si hanno idee, e allora la cosa migliore è uscire e fare una bella passeggiata. La creatività non si può forzare.

Non so davvero perché e come creo gioielli. Mi piace creare cose, partendo da zero.

Apprezzo l’arte, moderna e antica. Ho appena acquistato un dipinto alla Biennale di Parigi, una vista dei templi di Baalbek in Libano. Ho gusti eclettici. Se qualcosa è bello, è bello e basta. Collezionare oggetti di un solo tipo mi sembrerebbe noioso.

NICOLA BULGARI
Mio nonno, Sotirios Bulgari, credo abbia iniziato l’attività in Grecia, suo paese natale, perché aveva già più di vent’anni quando giunse in Italia. La tradizione familiare racconta che approdò a Brindisi e poi si trasferì a Napoli, dove nel 1880 aprì il primo negozio. All’epoca era ancora una capitale ricca e importante; lo stile di vita era ancora opulento, con aristocratici, banchieri e ricchi stranieri. Il negozio venne svaligiato nel 1881 e mio nonno perse tutto. Ecco perché arrivò a Roma senza un soldo e dovette ripartire da zero: poté affittare solo un laboratorio e non un negozio. Fortunatamente un amico greco vendeva spugne in strada con un carretto, così il nonno gli affidò dei gioielli in argento da vendere insieme alle spugne. Alla fine mise da parte una somma sufficiente che gli permise di affittare un piccolo negozio in via Sistina. Tutto è ricominciato lì.

Non l’ho mai conosciuto perché morì nel 1932, mentre io sono nato nel 1941; ma dai racconti, pare che il nonno fosse un uomo coraggioso. Aprì negozi nelle località più in voga come Sorrento, Sanremo, Bellagio e di nuovo a Napoli. Durante la stagione estiva c’era anche un outlet a Saint Moritz. Successivamente decise di chiudere le succursali e tutte le attività si concentrarono nel negozio di via Condotti fino agli anni Settanta, quando io e i miei fratelli avviammo una nuova fase di espansione internazionale. Sotirios era generoso: i negozi erano anche un modo per aiutare i familiari che avevano bisogno di lavorare. Sebbene alcuni di questi non fossero bravi negli affari, lui li coinvolgeva perché credeva nella famiglia.

Sotirios lavorava e vendeva soprattutto argenteria. Aveva pochissimi gioielli e per la maggior parte erano in argento e marcasite. Fu mio padre ad avviare l’attività di gioielleria vera e propria.

All’epoca tutto il mondo della gioielleria e della moda gravitava intorno a Parigi. Nel 1908 mio padre aveva diciotto anni e si trovò lì per la prima volta. Visitò Place Vendôme e Rue de la Paix, dove scintillvano le vetrine di Cartier, Boucheron, Mellerio, Chaumet, Van Cleef... Quella visione fu l’ispirazione per iniziare la stessa attività a Roma. Non fu facile convincere mio nonno Sotirios: aveva costruito il suo piccolo impero sull’argenteria e non voleva che il figlio lo mandasse in rovina. Era convinto che Giorgio fosse pazzo. Per fortuna mio padre andava d’accordo con il fratello Costantino. Oltre ad essere molto ambiziosi, avevano entrambi uno spirito cosmopolita: erano greci, vivevano in Italia e giravano l’Europa, avevano uno stile di vita internazionale ed erano veri sognatori.

Mia madre, Leonilde, aveva una personalità forte ed era lei che manteneva la disciplina in famiglia. Mio padre amava noi figli, ma era benevolente. Lui era il supervisore e mia madre la responsabile dei dettagli della nostra educazione. Come coppia funzionava bene. Mia madre era nata a Roma, ma era di origine piemontese. La sua famiglia la mandò in un collegio in Svizzera nel 1916. Aveva quindici anni ed era nel mezzo della Prima guerra mondiale. La famiglia di mia madre era proprietaria di un’azienda specializzata in pelletteria e articoli di lusso, valigie e argenteria, la Jannetti. Mio nonno materno, che non ho conosciuto perché morì nel 1918, era il direttore di uno di quei negozi e sposò mia nonna, che era la figlia del proprietario. Sfortunatamente i fratelli di mia madre non erano molto portati per gli affari e la Maison Jannetti scomparve.

Da piccoli eravamo circondati da tutte le religioni: mio padre greco-ortodosso, mia madre cattolica, la tata metodista, e molti dei nostri amici erano ebrei. L’unico modo per imparare la tolleranza è assimilarla da bambino. La mia infanzia è stata una scuola di vita.

Mio padre era sempre in prima linea, mio zio Costantino era un po’ più lento. Da bambino aveva avuto la poliomielite e mia nonna è stata in ansia per lui per tutta la vita, adoperandosi in modo che tutto gli andasse per il meglio. È per questo che mio padre fu protettivo con lui. La solidarietà, l’amicizia che li legava erano davvero uniche nonostante avessero anche accese discussioni, sempre in greco, forse perché non volevano che noi bambini capissimo. Intendiamoci, non parlavano benissimo la lingua. Entrambi erano persone straordinarie, li ricordo come modelli di gentilezza. Durante la guerra avevano ingaggiato un tale perché andasse ogni settimana in campagna ad acquistare carne e verdura, non solo per la famiglia, ma per tutti quelli che lavoravano da Bulgari.

Mio padre mi raccontava che negli anni Venti il suo negozio era frequentato da clienti americani, ma dei loro nomi si è persa ogni traccia perché prima del 1990 nessuno era interessato al patrimonio storico dell’azienda, così i registri venivano semplicemente gettati via. Non abbiamo nemmeno idea di che fine abbiano fatto i gioielli che queste persone compravano cent’anni fa. A volte, quando siamo fortunati, qualche discendente ne porta uno in uno dei nostri negozi. Uno dei clienti americani più importanti di mio padre si chiamava William Boyce Thomson. Aveva accumulato una fortuna estraendo rame e oro nel Montana. Venne in Italia per la prima volta con il suo yacht, l’Alder, nel 1927. Un’altra importantissima cliente americana dell’epoca era la contessa Dorothy di Frasso. Le sue feste a Villa Madama erano famose in tutto il mondo. Era l’anello di congiunzione tra tutti i diversi circoli di persone eleganti e, poiché era molto amica di mio padre, portò numerosi di questi personaggi da Bulgari.

Volevo diventare archeologo. Adoravo tutto ciò che apparteneva al passato. Ma ero un pessimo studente e quindi a ventun’anni cominciai a lavorare con mio padre in via Condotti come semplice commesso. L’amore per l’archeologia, però, non mi abbandonò. Credo sia stato per questo che abbiamo concepito i gioielli Monete. A undici anni avevo iniziato a collezionare monete antiche e negli anni Sessanta cominciai a pensare che ne avremmo dovuto fare qualcosa, utilizzarle nelle nostre creazioni. Non era nulla di realmente innovativo: nell’Ottocento, Castellani realizzava già qualcosa di simile. Alla fine trovammo il modo di utilizzare quelle monete antiche, prima con le catene in oro, poi con il motivo Tubogas.

Il motivo Tubogas fu inventato da un nostro addetto alle vendite, Vittorio Lombardo. Era italiano ma veniva dalla Russia; suo padre aveva lavorato come gioielliere a Mosca prima della rivoluzione. Disegnava su pezzi di carta e credo che l’idea dei gioielli Tubogas gli sia venuta in questo modo.

Le nostre creazioni sono influenzate dall’arte greca e bizantina, ma sono anche permeate da influssi egizi, romani ed etruschi. Ricordo che una volta a Venezia ho visitato una mostra di gioielli e arte etrusca e ho perso la testa per uno dei monili esposti. Abbiamo quindi realizzato un’intera collezione ispirandoci a quel pezzo. Spesso giravamo l’Italia insieme ai nostri designer, traendo motivi di ispirazione dall’architettura romana e gotica. Un tempo creavamo anche spille in foggia di tempio romano.

Roma sarà sempre una fonte d’ispirazione per Bulgari. Molti aspetti della creatività del nostro marchio si richiamano ai dettagli, ai motivi e ai monumenti della Città Eterna: la curva delle cupole viene riproposta nel tipico taglio a cabochon delle pietre; le linee pure delle rovine classiche sono riprese nelle geometrie raffinate del design; perfino il logo rende omaggio alle antiche iscrizioni. Roma ci è molto cara e per questo nel 2014, per i centotrent’anni dalla fondazione, la società ha deciso di finanziare il restauro della scalinata di Trinità dei Monti, un luogo che evoca la storia del marchio. Il primo negozio romano è stato infatti aperto in via Sistina, proprio sopra piazza di Spagna, e il flagship store di via Condotti dista solo pochi passi.

La dolce vita era uno stile di vita prima che Fellini ne facesse un film. Lo introdusse a Roma un’americana: Clare Boothe Luce, giornalista e scrittrice politicamente impegnata, una vera socialite. Fu la prima donna nella storia degli Stati Uniti a essere nominata ambasciatrice in un paese straniero, nel 1953. Quando arrivò in città, suppongo la trovasse noiosa e quando si sentiva un po’ giù, veniva da Bulgari a comprare qualcosa. Cominciò a promuovere Roma e vi attirò persone interessanti, specialmente del mondo del cinema, affinché vi producessero i loro film, anche perché Cinecittà era più economica di Hollywood. Così un’intera colonia di attori e cineasti si trasferì a Roma. La città era pronta per questo, pullulava di luoghi dove organizzare feste favolose. Lo scenario era lì e lei ci portò le persone. È questa la vera storia della dolce vita: quella donna riuscì a generare un interesse incredibile, tutto da sola, e Roma divenne un luogo del cinema. Tutti gli alberghi erano pieni. L’Excelsior di via Veneto era, all’epoca, il posto più in voga. Le serate avevano inizio di solito sulla terrazza dell’Hotel Hassler con qualche drink, poi c’erano sempre cene e feste private. Naturalmente tutte le donne erano elegantissime e indossavano gioielli.

L’epoca della Hollywood sul Tevere iniziò con le riprese di Quo Vadis, di Mervyn Leroy, ma è Cleopatra il film più famoso mai girato a Roma. La contessa scalza, con Ava Gardner e Humphrey Bogart, e naturalmente Vacanze romane, con Audrey Hepburn e Gregory Peck, furono entrambi girati a Roma. Grazie a Hollywood e a Clare Boothe Luce, Roma divenne il luogo che le persone eleganti frequentavano per passare il tempo in piacevole compagnia e divertirsi.

Gina Lollobrigida è una donna favolosa ed era davvero stupenda, ottima amica di mio padre che andava molto d’accordo anche con mio fratello Gianni. Un’altra realmente bella era Claudia Cardinale. Venivano a farci visita John Wayne, Gary Cooper, Clark Gable. Uno dei nostri maggiori clienti era Luchino Visconti. Veniva spesso, il più delle volte a comprare regali per i suoi amici o per le star dei suoi film. Era generoso e al tempo stesso molto sofisticato. Grazie al suo gusto squisito, sapeva scegliere sempre l’oggetto perfetto.

Mio fratello Gianni fu rapito nel marzo del 1975 e liberato dopo trenta giorni di prigionia. Fu uno choc per la famiglia: ci sentivamo in pericolo e il solo modo per reagire fu di andare lontano, cercando di dimenticare. La mia prima moglie voleva trasferirsi negli Stati Uniti e anch’io. Otto anni dopo, nel 1983, mia cugina Anna fu rapita con il figlio Giorgio e liberata dopo trentacinque giorni. Ora questa è la mia seconda patria. Ho tre nipoti americani e le mie tre figlie più grandi sono nate a Roma, ma hanno vissuto gran parte della loro vita negli Stati Uniti. Avevamo già un negozio, discreto ed esclusivo, al Pierre Hotel e anche dei clienti importanti come Bill e Babe Paley o Diana Vreeland, che adoravano i nostri gioielli. Frank Sinatra venne al negozio grazie a una delle nostre commesse. Il patrigno della ragazza era Morton Downey, un cantante molto famoso negli anni Trenta, e Sinatra era il suo padrino di battesimo. Veniva molto spesso al Pierre e comprava cose per sé e sua moglie.

Andy Warhol fu una delle prime celebrità a venire nel nostro negozio, negli anni Settanta. Mi offrì alcuni dei suoi quadri in cambio di alcuni miei gioielli. A quell’epoca eravamo entrambi molto giovani, a me non piaceva il suo stile e non avevo idea che un giorno i suoi lavori sarebbero arrivati a valere così tanto, così rifiutai. Fui proprio uno stupido, adesso mi vergogno a raccontare quella storia... Cosa posso farci? È la verità.

Mi piacciono i diamanti. Sono belli e facili da indossare, il colore non stona con nulla. I miei tagli preferiti sono quello a smeraldo e quello quadrato, e se dovessi scegliere un colore per i diamanti sarebbe sicuramente il giallo. So che ai giorni nostri i più preziosi sono i rosa e i blu, ma io adoro il giallo. E, naturalmente, se parliamo di diamanti, al di sopra di tutto ci sono i Golconda, i diamanti della migliore qualità. Le pietre sono state estratte nel sud dell’India prima del Settecento. Un diamante di Golconda non è necessariamente senza difetti e assolutamente bianco: è più intenso, almeno secondo me. Quando ne hai visto uno, anche una volta sola, non lo dimentichi.

Amo i rubini, sono le pietre più rare. Nulla può battere un rubino birmano da dieci carati di prima qualità. Possono costare qualunque cifra, non esiste un prezzo indicativo. A un’asta, con un rubino di questo tipo, può accadere qualsiasi cosa.

Lo spinello è una pietra speciale, con colori strabilianti. Prima di tutto è molto antico: secoli fa veniva utilizzato come rubino, avendo lo stesso colore rosso intenso. Alcuni dei supposti rubini più importanti della storia dell’Europa in realtà erano spinelli. Il rubino del Principe Nero, visibile ogni anno sulla corona che la regina Elisabetta II d’Inghilterra indossa per la cerimonia di apertura del Parlamento è, in realtà, uno spinello. Era stato dimenticato durante l’Ottocento ed è stato riscoperto negli ultimi vent’anni. A parte il bellissimo rosso, ha una gamma di colori mozzafiato. Può essere rosa, lavanda, viola, lilla. Persino blu o grigio. È una pietra affascinante con una caratteristica: è impossibile riscaldarla per esaltarne il colore, si spaccherebbe. Perciò il colore di uno spinello è sempre naturale.

Cinquant’anni fa c’erano moltissime pietre in circolazione. La fonte più abbondante erano i maharajah, che vendevano i loro gioielli per mantenere i palazzi e il loro stile di vita. Molte delle pietre che abbiamo utilizzato a quell’epoca provenivano dall’India, ne arrivavano così tante che sembrava fossero infinite. L’afflusso massiccio di pietre cominciò repentinamente dopo il 1947, quando l’India ottenne l’indipendenza e le proprietà dei maharajah vennero espropriate. Loro persero gran parte delle loro ricchezze, ma possedevano così tanti gioielli che all’inizio non fu evidente. Ogni gioielliere del mondo voleva mettere le mani su quel tesoro. In genere il processo era mediato dai mercanti indiani che erano in contatto con i maharajah.

Gli smeraldi cabochon che abbiamo acquistato negli anni Cinquanta erano, per la maggior parte, colombiani. Non esistono miniere di smeraldi in India. Immagini il viaggio che queste pietre hanno compiuto: sono arrivate in Europa alla fine del Quattrocento, per lasciarla immediatamente per l’Asia e tornare indietro qualche secolo dopo nella nostra gioielleria.

La merce che avevamo in vendita era stupefacente. Ero un giovane commesso e rimanevo inebetito davanti alle scatole: c’era un’intera scatola solo per gli anelli di rubini, due o tre per quelli di zaffiri e lo stesso numero per gli smeraldi. Era così che mio padre concepiva la sua attività: concentrata in un luogo dove si poteva mostrare l’artiglieria pesante. Il negozio di via Condotti era molto diverso allora, per gran parte dedicato all’argenteria antica. Poi c’erano teche con ornamenti di giada e porcellane cinesi, pezzi di grande valore. I clienti ne restavano accecati. Avevamo anche un’importante selezione di scatole da tabacco risalenti al Diciottesimo e Diciannovesimo secolo, circa centocinquanta, in oro, smaltate e in madreperla, incastonate con pietre preziose. Era una selezione enorme di articoli. All’epoca venire nella nostra boutique di via Condotti era una vera e propria occasione mondana.

Una delle ragioni per cui siamo affascinati dalle pietre preziose è il fatto che sono immortali. Questo è uno dei motivi per cui amo tanto farne dono a mia moglie Beatrice. So che nostra figlia erediterà i suoi gioielli e penserà: “Questo lo metteva mamma”. Pensarci mi commuove. La vita è troppo breve.

Mio padre mi diceva: se c’è una cosa che amo nel nostro lavoro è che vendiamo sempre gioia e felicità.