Federico Bona; Luca Castelli, Focus 5/2015, 22 aprile 2015
IN UFFICIO A PECHINO
Gli spaghetti italiani non possono diventare noodle cinesi: sono simili, ma non saranno mai uguali. È la metafora usata da Ren Jianxin, presidente di ChemChina, colosso statale cinese che ha lanciato un’offerta pubblica di acquisto su Pirelli, per assicurare che intende mantenere l’integrità del marchio italiano.
Il passaggio di Pirelli sotto il controllo di capitali cinesi è solo il caso più recente, ma non sarà l’ultimo: la Cina è destinata a dominare l’economia mondiale, e le sue aziende con lei. L’idea del colosso asiatico solo come “fabbrica del mondo” ormai è riduttiva. Da una parte, continueremo ad assistere ad acquisizioni di aziende occidentali. Dall’altra, imprese come Alibaba Group (colosso cinese dell’ecommerce sbarcato a settembre alla Borsa di New York) o Xiaomi (terzo produttore mondiale di smartphone) cresceranno sempre più e stanno già attirando top manager stranieri. E sono in aumento anche i nostri connazionali nella Repubblica Popolare Cinese. Insomma, è davvero giunto il momento di capire come si lavora nelle grandi aziende cinesi, qual è l’atteggiamento verso il capo e come sono i rapporti tra colleghi.
COM’È UMANO IL DIRETTORE... La prima cosa da tenere presente è l’importanza delle gerarchie. E l’assoluta centralità del ruolo del capo. «In un’azienda cinese il capo analizza i problemi e detta le soluzioni: i dipendenti si limitano a eseguire gli ordini», dice James McGregor, autore di One Billion Customers (Simon & Schuster). A qualcuno potrebbe sembrare un atteggiamento un po’ “fantozziano” verso il mega-direttore, ma in realtà il rispetto e la deferenza verso l’autorità hanno radici profonde: risalgono all’importanza data dalla dottrina confuciana ai rapporti gerarchici, come quelli tra sovrano e suddito o tra padre e figlio, che mantengono ordine e armonia nella società. Come si traduce questo, oggi, nella vita d’ufficio? In una riunione, per esempio, è quasi impossibile che i partecipanti intervengano o facciano osservazioni: non si parla se non si è interrogati dal capo.
«In Occidente siamo abituati a un clima di confronto. In Cina questo non è concepibile, perché andrebbe contro tre pilastri culturali molto precedenti al comunismo: lo spirito di gruppo, il rispetto per l’autorità e l’armonia. Anche per questo, l’impiegato cinese dice sempre sì e sorride sempre», conferma Valeria Gattai, specializzata in economia internazionale e mercati asiatici all’Università di Milano-Bicocca. «L’educazione poi insegna che nessuno deve farsi notare: questo limita la creatività e l’intraprendenza individuale. Lo si vede anche nelle nuove generazioni, nei rapporti degli studenti con i professori all’università, in cui emerge il rispetto verso l’autorità e resta in secondo piano la creatività».
La mancanza di discussione è legata anche a un altro importante principio della cultura cinese: mantenere la “faccia” (in cinese, mianzi). La faccia è legata al prestigio di una persona e alla sua posizione nel gruppo. Per non farla perdere, non si fanno commenti in pubblico e si evitano i conflitti. «La perdita della faccia è una vera ossessione, tanto che un impiegato non esprime pubblicamente opinioni sul proprio capo, ma anche il boss tende a non rimproverare davanti a tutti un proprio dipendente», dice Gattai. Dai sondaggi riportati da Anne-Laure Monfret nel suo libro Saving Face in China (Xlibris), emerge che mentre i lavoratori occidentali temono maggiormente l’idea che si parli male di loro di fronte al capo, i cinesi trovano più umiliante l’idea che si parli male di loro di fronte a impiegati di livello inferiore.
CORTESIA O PIAGGERIA? Naturalmente, molto dipende dal tipo di azienda. «Ci sono fondamentalmente tre grosse categorie», spiega Riccardo Battaglia, che con la sua Battaglia Advisory Services aiuta le aziende straniere in Cina. «La prima è quella delle aziende di proprietà pubblica, spesso molto grandi e fortemente gerarchizzate, dove il rispetto per l’autorità si manifesta in una burocrazia rigidissima: non si inizia un incontro senza che siano presenti tutti i capi dello stesso livello e tutti i rappresentanti di tutti i livelli previsti. Poi ci sono quelle dove il proprietario-fondatore decide tutto ed è circondato da un gruppetto di persone molto accondiscendenti, mentre a un altro livello ci sono gli impiegati, che vivono una vita d’ufficio regolare e svolgono i loro compiti senza tanti contatti con l’imprenditore e la sua cerchia di collaboratori e senza grosse prospettive di carriera. Infine, ci sono le aziende di proprietà straniera, che riescono a essere abbastanza meritocratiche: qui fanno strada i dipendenti che dimostrano più flessibilità e capacità di interagire».
I contatti lavorativi tra i diversi livelli sono pochi ed è quasi impossibile sviluppare rapporti di amicizia tra tute blu e colletti bianchi, o tra manager e impiegati. Proliferano invece forme di cortesia che noi scambieremmo per piaggeria e che invece sono manifestazioni di rispetto nei confronti del proprio capo. «Un manager oggi deve saper giocare a golf e magari... perdere contro il capo», conferma Massimo Ceccarelli, esperto di Cina. «Una volta sono andato a giocare con un importante industriale del Guangdong e con lui c’era un manager della sua azienda. Questo era più bravo del boss ma fece di tutto per farlo sentire più forte ai miei occhi e arrivati al dunque mancò clamorosamente la buca simulando un crampo al braccio».
Sembrerebbe davvero la scena di un film di Fantozzi... Invece è rispetto per il capo, spesso identificato con l’anziano, che emerge in molti modi. «Mentre ero a Tientsin, quando salivo le scale spesso qualcuno si avvicinava e mi porgeva il braccio per sostenermi», ricorda Roberto Accorsi, ex manager di una multinazionale italiana che ha aperto uno stabilimento in Cina nel 2004. «Ero un sessantenne piuttosto in forma e non avevo certo bisogno d’aiuto, ma avevo i capelli bianchi ed ero il capo». E pensare che, per le nostre abitudini, un comportamento del genere potrebbe apparire una gaffe.
QUESTIONE DI RELAZIONI. Altri rapporti da coltivare, oltre a quelli col capo, sono quelli con la rete personale di amicizie e relazioni. È ciò che va sotto il nome di guanxi. Avere un buon guanxi, un forte network di rapporti sociali al di fuori dall’ambiente di lavoro, è spesso il segreto per chiudere un buon affare. «È una prerogativa culturale cinese, che va al di là dei semplici rapporti tra colleghi o delle relazioni tra dirigenti d’azienda», sottolinea Renzo Riccardo Cavalieri, direttore del master in Global Management for China all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il guanxi affonda le sue basi nella famiglia estesa, dove è più solido, ma cresce attraverso relazioni costruite in ambiti come lo studio, il luogo di lavoro, o anche gli hobby. «Il golf club, nella maggior parte delle città cinesi, è diventato un luogo dove si riesce a costruire il guanxi. E infatti ne sono sorti a decine negli ultimi anni. Dopo le 6 del pomeriggio i campi-pratica sparsi per le città si riempiono di industriali, amministratori delegati, manager e qualche colletto bianco», conferma Massimo Ceccarelli. Anche cene e incontri “sociali” sono vitali. «Quando sei invitato a cene o a serate di karaoke dopo l’orario di lavoro, la tua partecipazione è attesa. Si tratta di occasioni non solo per un po’ di relax, ma anche per rafforzare le relazioni all’interno dell’azienda», racconta Sean Upton-McLaughlin, consulente americano specializzato in rapporti d’affari con la Cina, sul suo sito The China Culture Corner.
La regola vale anche per gli stranieri: «Prima fai amicizia, poi pensa agli affari. Ai cinesi piace chiacchierare e divertirsi. Vogliono sapere qualcosa di più della persona con cui stanno parlando. Per questo, i primi incontri d’affari difficilmente producono risultati. Non è raro che i venditori invitino a cena i potenziali nuovi clienti, prima di parlare di business», conferma James Chan, presidente di Asia Marketing and Management, società che aiuta le aziende Usa a fare affari in Cina.
«Andare spesso a cena o al karaoke serve a cementare i rapporti e migliora le possibilità di business», gli fa eco Ceccarelli. «Molti affari si fanno a tavola. E se il boss ha più di 50 anni si celebrano ancora a suon di maotai, l’antico distillato dal sorgo». Sono cene dove di lavoro non si parla affatto, o se ne discute solo alla fine, salutandosi e ponendo le basi per una futura collaborazione.
BIGLIETTINI. Un’altra cerimonia importante sul lavoro è lo scambio dei biglietti da visita. «Per i cinesi ha il valore di una stretta di mano e diventa un vero rito», conferma Riccardo Battaglia. In genere è offerto con entrambe le mani, quasi come un dono, ed è importante dedicargli attenzione, tenendolo magari in bella vista dopo averlo ricevuto.
Se però pensate che, una volta chiuso un accordo, le difficoltà d’interpretazione siano finite, vi sbagliate di grosso. «Mentre noi occidentali abbiamo una concezione lineare del tempo, i cinesi hanno una concezione ciclica», chiarisce Gattai. «Questo si riflette nell’interpretazione del contratto, che per loro non è mai un punto d’approdo definitivo: è semplicemente lo stato dell’arte di una trattativa. Qualcosa che potrà essere rimesso in discussione anche dopo cinque minuti o un mese».
Per fortuna, se ci sono problemi si può cercare di risolverli attraverso i legami del guanxi. Perché, come ricorda Ceccarelli, «è molto difficile che un cinese ti apra subito la porta, ma quando la apre è difficile che poi la richiuda».
Federico Bona e Luca Castelli