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 2015  aprile 22 Mercoledì calendario

Dopo la super vittoria dei repubblicani (con il record dei deputati alla Camera e la conquista del Senato), Barack Obama sembrava non del tutto in grado di esercitare completamente il proprio potere

Dopo la super vittoria dei repubblicani (con il record dei deputati alla Camera e la conquista del Senato), Barack Obama sembrava non del tutto in grado di esercitare completamente il proprio potere. Eppure il presidente continua a lavorare come se nulla fosse accaduto, anche se ho qualche dubbio che entro la fine del secondo mandato riuscirà a mantenere le promesse fatte in questi anni agli americani. Ho molto ammirato la presidenza di Eisenhower: secondo lei è possibile un confronto fra loro? Davide Corti Milano Caro Corti, N on è facile fare confronti tra le due presidenze. Quando arrivò alla casa Bianca, nel gennaio del 1953, Dwight D. Eisenhower era il presidente della maggiore potenza mondiale ed era stato personalmente protagonista dei due maggiori avvenimenti degli anni precedenti: la guerra vittoriosa contro la Germania hitleriana e la creazione della Nato. Apparteneva alle élite politico-militari del Paese ed era impeccabilmente wasp (white anglo-saxon protestant, bianco anglosassone e protestante). Si era candidato alla presidenza per il partito repubblicano, ma era stato percepito da molti suoi concittadini come un candidato nazionale, l’uomo che aveva tutte le doti necessarie per tenere testa all’Urss nella Guerra fredda, scoppiata fra il 1947 e il 1948. Completò l’anello delle alleanze militari simili alla Nato che avrebbero dovuto difendere il “mondo libero”, e dette prova di fermezza nei confronti dell’Urss; ma fu meno rigido del suo segretario di Stato (John Foster Dulles) e seppe cogliere i segnali di cambiamento che arrivavano da Mosca dopo l’avvento al potere di Nikita Kruscev. In politica interna e nella questione cruciale dei rapporti fra bianchi e neri non fu un grande riformatore, ma è ancora ricordato per l’invio di truppe federali nell’Arkansas in occasione dei disordini razziali che erano scoppiati in quello Stato nel 1957. E merita un particolare elogio, infine, per il discorso con cui, alla fine del suo mandato, denunciò la nascita di un complesso militare-industriale che stava acquisendo una dimensione preoccupante. Obama è alquanto diverso. Non appartiene alle élite politiche del Paese, non è wasp, non è entrato alla Casa Bianca grazie a successi politici precedenti. Deve la sua elezione a una brillante carriera accademica, a una oratoria molto accattivante e alle guerre sbagliate del predecessore, George W. Bush. Ma non è amato da tutti coloro che gli rimproverano, pur senza dirlo ad alta voce, il colore della pelle e che vedono in lui un pericoloso socialdemocratico. Il suo maggiore titolo di gloria in politica interna è una riforma sanitaria che garantisce assistenza a circa trenta milioni di cittadini americani, sinora privati di qualsiasi copertura. Ma per i suoi oppositori questa riforma è una pericolosa intrusione dello Stato nella società. Ha ereditato la peggiore crisi finanziaria degli ultimi settant’anni ed è riuscito a superarla piuttosto bene. Ma la biliosa opposizione dei nemici preferisce oscurare i suoi meriti. In politica estera non ha avuto fortuna ed è stato costretto a gestire il progressivo ridimensionamento della potenza americana in una delle fasi più turbolente della storia mediorientale. Gli rimane la speranza di un accordo sulla politica nucleare del governo iraniano. Ma neppure l’intesa preliminare di Losanna gli garantisce il successo. Temo che Barack Obama appartenga a quella categoria di uomini politici che vengono apprezzati soltanto quando la loro opera viene vista con il necessario distacco e confrontata a quella dei suoi successori.