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 2015  aprile 20 Lunedì calendario

CANALE DI PANAMA, IL RADDOPPIO DELLA DISCORDIA

Panama City
«Tra pochi mesi, qui sarà tutto allagato», dice l’ingegner Alessandro Zaffaroni, che per quanto sia alto un paio di metri è un puntino in una valle di cemento dalle sponde irraggiungibili. Poco più di un anno fa, con i cantieri deserti e una lite furibonda in atto, non ci credeva più neppure la foresta pluviale che ce l’avrebbero fatta a completare il raddoppio del Canale di Panama, un lavoro gigantesco che aprirà la via breve inter oceanica a colossi da 14mila container, con una capacità più che triplicata rispetto a quella attuale. «Sarà una nuova era», dicono. «Questo non è il progetto più grande del mondo, ma è l’unico che avrà un impatto sul mondo», sorride Jorge Luis Quijano, amministratore delegato dell’Autorità del Canale, la controparte del consorzio guidato dalla Salini Impregilo che ha vinto l’appalto strappandolo ad altri tre consorzi. Il loro progetto tecnico è stato giudicato il migliore, e il prezzo era scontato persino rispetto alle stime dell’Autorità stessa. Ma poi è lievitato come una torta. Da 3,1 miliardi di dollari ai 5,8 miliardi chiesti dal consorzio per extracosti che l’Autorità rifiuta di pagare. «Sono tutti documentati e dovuti a informazioni tecniche errate da parte del committente, e a successive richieste di modifica delle prerogative del capitolato », dice Giuseppe Quarta, amministratore delegato del Grupo Upc (Unidos por el canal), il consorzio formato da Salini Impregilo (48%) e dalla spagnola Sacyr (48%) insieme alla belga Jan De Nul. Quijano non la pensa allo stesso modo, e ha un diavolo per capello. Dal punto di vista tecnico il progetto è grandioso, e almeno su questo sono tutti d’accordo. A un anno dal fine lavori previsto, il gruppo Salini Impregilo è orgoglioso del suo lavoro. Pochigiorni fa è stata montata l’ultima paratia delle nuove chiuse sull’Atlantico. «Per le grandi opere di ingegneria idraulica nessuno al mondo ha competenze tecniche ed esperienza paragonabili alle nostre », dice Pietro Salini, ammini-stratore delegato del gruppo italiano. Le chiuse servono a far salire le navi fino al lago Gatùn, il più grande lago artificiale al mondo realizzato cent’anni fa in un ecosistema fantastico e infernale che costò la vita a migliaia di lavoratori. Il dislivello da salire è di 27 metri, poi le navi solcano il lago per una settantina di chilometri fino a ridiscendere i 27 metri all’altra diga sul Pacifico. E viceversa. Per far salire fin lassù le gigantesche navi di classe post-panamax — chiamate così perché permettono di superare i limiti fisici imposti dal vecchio canale, ormai troppo angusto per permettere il passaggio alle moderne portacontainer — servivano otto chiuse sul Pacifico e altrettante sull’Atlantico. Sono prefabbricati da tremila tonnellate l’uno, parallelepipedi lunghi 58 metri, alti in media 30 metri e larghi 10. Li ha costruiti un altro gruppo italiano, la Cimolai di Pordenone che era in crisi prima che arrivasse la supercommessa. Immaginate cosa vuol dire trasportare quei “mattoncini” da un capannone realizzato apposta nel Nordest italiano fino a due cantieri sui due lati del nuovo canale di Panama. E una volta arrivati via nave, sbarcarli e caricarli su un millepiedi computerizzato con una distesa di ruote “intelligenti” alte un paio di metri e affiancate una ad una, il tutto guidato da un singolo pilota umano con un piccolo joystick. «Il posizionamento della prima chiusa è stata un’emozione grandissima», dice Zaffaroni, responsabile del cantiere sul Pacifico: «La manovra tra le paratie di cemento del canale è difficilissima, ma il pilota ci ha preso la mano e ora sembra quasi semplice». Sarà l’emozione, l’ultima manovra sul cantiere atlantico è da brividi, con tanto di “toccatina” innocua da parcheggio infausto. E via, buona l’ultima. Ora le paratie sul fronte atlantico sono tutte a dimora, e «presto lo saranno anche quelle sul Pacifico», il cui cantiere è un po’ più indietro. «Il progetto è pronto per più dell’80%», dicono al Grupo Upc. Ma l’ultimo miglio resta un incubo, sotto la mannaia di una lite finanziaria ancora furibonda. Si litiga in aula tra arbitrati, appelli e contrappelli che durano mesi, troppi per non mettere a rischio la progressione dei lavori. Anche per questo, a febbraio, il presidente della Repubblica di Panama, Juan Carlos Varela, ha incontrato il presidente del Consiglio Matteo Renzi a Roma: «L’incontro è stato molto positivo — dice nel palazzo presidenziale affacciato sul Casco Antiguo, il delizioso quartiere vecchio di Panama City — dobbiamo cercare la via del dialogo e sanare le differenze sia con Salini-Impregilo che con Finmeccanica». Il riferimento è ad un contratto per sei elicotteri e 19 radar che Varela definisce ora «inutili», firmato nel 2010 dal presidente Martinelli (oggi latitante, indagato per corruzione e fuggito all’estero) con la mediazione dell’uomo di Finmeccanica a Panama, Valter Lavitola, finito nei guai anche per corruzione internazionale. Erano i tempi in cui Martinelli e Berlusconi si abbracciavano davanti alle telecamere tagliando i nastri all’inaugurazione di un lotto dei lavori nel canale. D’altronde, l’allargamento del canale per Panama è la gallina dalle uova d’oro. È la prima azienda del paese insieme ai proventi della sua natura di paradiso fiscale, uno degli ultimi rimasti. «I lavori del cantiere si devono concludere — dice ancora Varela — è un progetto troppo importante per il paese. Il canale attuale genera introiti fiscali per lo Stato di un miliardo su oltre 2 miliardi di ricavi». Tra tariffe di navigazione, servizi marittimi e biglietti turistici (15 dollari a persona per il milione di visitatori che ogni anno va a godersi lo spettacolo di un gigante d’acciaio galleggiante che scavalca 27 metri di dislivello) il fatturato totale del 2014 è stato di 2,7 miliardi di dollari. Con il nuovo canale, le proiezioni raddoppiano a oltre 5 miliardi. Però le liti fra Salini e l’Autorità continuano. «Abbandonare il progetto a questo punto non avrebbe senso: dobbiamo arrivare in fondo — dice Quijano — ma se potessi tornare indietro starei più attento nella selezione degli appaltatori. Speriamo che finiscano il lavoro, ora. Ci hanno chiesto extracosti pari al 65% senza che cambiassimo una virgola nell’appalto. Se voi aveste un terreno e chiedeste a una serie di costruttori di farvi una casa, e quello che fa il prezzo migliore con un’offerta da 310mila euro ve la aumentasse a 580mila in corso d’opera cosa fareste?». «L’attitudine dell’Autorità — replica Pietro Salini — è negare sempre tutto, ma il primo arbitrato lo abbiamo vinto noi e afferma che hanno mentito: per fare quella casa di cui parla Quijano hanno detto che avrebbe avuto terreno solido per le fondamenta, e invece c’era una palude. La verità è una sola: questo signore è inadeguato».
Paolo G. Brera, Affari&Finanza – la Repubblica 20/4/2015