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 2015  aprile 19 Domenica calendario

I SEGRETI DI MIO PADRE

Ditemi la bambina che possiede il palazzo d’oro di Barbie? Non oro finto, non laccato: oro vero, oro massiccio. Ditemi chi è questa creatura privilegiata, questo esserino prescelto?
Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho sei anni e un’infanzia felice: bambole parlanti, peluche giganti, e adesso il palazzo d’oro di Barbie. Sono io — penso accatastando lingotti uno sopra l’altro come Lego — proprio io — primo muro, secondo muro — il mondo m’invidia, o mondo rassegnati: sono la migliore, e niente, niente, mi piegherà — ora il tetto — la mia vita sarà per sempre così: sequela di privilegi — tento una torre — concatenazione di successi — rimiro a distanza la mia creazione: entrate Barbie, non tutte però, siete troppe — ho già detto che ho cento Barbie? — alternatevi, amiche: benvenute nella vostra nuova casa.
È adesso, nell’istante magico tra me e le mie bamboline, che la porta si spalanca, la porta della mia cameretta rosa su cui campeggia il cartello La principessa abita qui , e io, seduta sulla moquette rosa, alzo la testa, la principessa alza la testa e strizza gli occhi per mettere meglio a fuoco la figura sulla porta.
«Dove li hai trovati?», dice la figura maestosa. «Dove li hai trovati? — ripete — Devi smetterla di frugare nei cassetti», dice mio padre.
Mi chiamo Teresa Ciabatti e sono la figlia del Professore.
Mio padre, primario chirurgo dell’ospedale di Orbetello, è l’uomo più importante della Maremma, stimato, temuto, benefattore, qualcuno dice, santo. Lui i poveri li cura gratis, il Professore ha a cuore i poveri.
Il pomeriggio, accompagnata dalla tata, piombo in ospedale per salutarlo, ah, quanto lo amo! E quanto sono riamata, il mondo deve vedere, capire che sono io la prediletta, mettitelo bene in testa, mondo.
Se opera, lo aspetto nella stanza riservata al personale, dove passano medici e infermieri a rendermi omaggio. Tutti belli e giovani. E tra le braccia di uno o dell’altro, io chiudo gli occhi: non fatemi vedere — sospiro — ho così paura, quando si aprono le porte, e esce la barella, sopra il paziente addormentato, appendice calcoli tumore. Dietro medici, infermieri, e per ultimo lui. I discepoli si spostano per lasciargli il passo, e io lo vedo circondato dalla luce azzurrina, una luce come quella purissima di una stella, quella luce che benedice solo lui.
I momenti più belli della mia infanzia, questa visione e ricongiunzione, io che gli corro incontro, e gli salto addosso — piano, piano — con le gambe allacciate alla vita, e le braccia al collo, strette — così mi soffochi — e prego, imploro a voce alta ché tutti possano sentire: «O papi, andiamo a comprare il tutù».
Faccio danza. Diventerò ballerina professionista, ne sono certa per vari motivi, tra cui l’influenza di mio padre sul mondo. Lui può tutto: decidere chi sarà il nuovo primario di Massa Marittima, far assumere in Rai la figlia scapestrata dell’amico magistrato, far saltare il servizio militare a figli di amici e di poveri.
Il Professore ama i poveri.
E dunque: con tutto quello che fa per gli altri, cosa mai farà per me? Immagino, fantastico.
Ballerina, attrice, conduttrice tv. Intanto mi esercito a casa, dove ho preteso una piccola sala prove dotata di specchio e sbarra. A volte, tutù rosa e scarpette da punta, mi blocco di fronte allo specchio: Dio mio, quanto sei bella . La sensazione di un futuro speciale davanti. Ballerina, presidente della Repubblica, il primo presidente donna, santa. Santa Teresa da Orbetello: eccomi, eterea evanescente, incedere sulla spiaggia fino al mare, e non fermarmi, proseguire sull’acqua, camminare sulle acque, con tutti — compagni di classe, insegnanti, bidelli — a fare oh , a mormorare lo sapevo che era speciale . E allora papà, perché invece di essere orgoglioso di me, della creatura eccezionale, mi accusi di aver frugato nei tuoi cassetti? Perché trattarmi come una ladra, un’estranea? Sono tua figlia, la tua adorata bambina, quello che è tuo è mio, e ho solo aperto un cassetto, un nostro cassetto, e trovato nel doppio fondo, non sapevo che ci fosse un doppio fondo, pensa, ho trovato pistola e mazzette di soldi, queste cose meravigliose, luccicanti, questi lingotti d’oro, trenta, li ho contati, quanto peseranno, papi?
Perché adesso papà viene verso di me e mi prende per i capelli? Perché prende la sua principessina, e perché dice di non farlo mai più, di non mettere le mani nelle sue cose, che sennò finisco male, avvisa strattonandomi, strattonando la sua amatissima bambina? Perché una reazione tanto violenta?
Se lo rifai, ti prendo a pedate, minaccia.
Episodio anomalo nel nostro rapporto basato sulla mia supremazia. O così io credo. Misuro il suo amore con richieste sempre più complicate. Bambina chiedo un pony tutto mio, adolescente esigo un diadema, quasi diciottenne pretendo una festa a Villa Miani, abito lungo e smoking. Sono io in cima alla scalinata della villa neoclassica — trenta milioni di lire tra affitto e ricevimento — io in abito verde acqua, io che attendo gli ospiti. Paesana, burina. Ridicola.
Cosa che capirò dopo, molto dopo.
Intanto se qualcosa non va come voglio io, mi ribello. Tu vuoi portarmi via da scuola (scuola media Caravaggio) perché hai saputo che gira marijuana? E io mi suicido. Perché in mezzo a questi drogati io sono felice, papà, per la prima volta in vita mia — piango tragica — sono felice. Lui non cede, e neanch’io.
Tredici aspirine. Butto giù tredici aspirine, poi mi allungo sul letto ad aspettare la morte. Mi addormento, mi risveglio, mi addormento, e nello stato premorte vedo la sagoma di papà, scendi per cena , dice, è tre ore che ti chiamo , nemmeno si accorge che sto morendo. Glielo devo urlare con le ultime forze rimaste: mi sono suicidata, grido.
E mostro il blister delle aspirine. Mi sono suicidata, ripeto. Addio mamma, addio papà.
Invece sopravvivo. Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho diciott’anni, e a morire è mio padre. Muore d’estate, nel suo letto. Infarto. Non ho mai pensato che potesse morire. Mi vedevo sostenuta da lui per tutta la vita, ballerina, scienziato, politico. E ora? Che cosa sono io senza di lui?
«Ha fatto tanto del bene, aiutava i poveri», mi abbracciano per le condoglianze. Pazienti, malati, miracolati. Folla di sconosciuti. «Un benefattore, un santo», dicono. L’eredità che mi lascia, un’aura di bene, sarò una donna buona, di cuore. Mi adopererò per i poveri.
Adesso però occupiamoci dell’eredità materiale: case, terreni, ville. E lingotti d’oro. Vorrei capire quanto valgono. Dopo l’episodio del palazzo di Barbie, lui li ha portati in ospedale. Quale posto migliore? Portiere ventiquattr’ore su ventiquattro esattamente di fronte al suo studio. Nessuno sarebbe mai potuto entrare senza il Professore.
Entro io, papà. Oggi entro nel tuo studio senza di te. Con la speranza di ritrovarti, i ricordi restano, gli oggetti personali. Le reliquie.
Perché è tutto vuoto allora? Mi agito. Qui c’erano quadri, sculture, bottiglie di vino, regali ancora impacchettati, decine di regali. Qui io venivo, gironzolavo tra i pacchi, aprivo cassetti e trovavo mazzette di soldi, e rivedevo i lingotti, ah, mi dicevo, i miei lingotti, il mio palazzo di Barbie. Non c’è più niente. Qualcuno è arrivato prima di me. Così ora io sono nel vuoto, senza diritti di figlia, senza eredità. Il palazzo di Barbie distrutto.
«Una tragedia, mamma, i ladri hanno rubato tutto», «i fratelli massoni», «ma perché, papà era massone?»
Ladri, delinquenti, cosa vi ha spinto a depredare una figlia del proprio padre? Con quale cuore? Con quale diritto, ladri, delinquenti, fratelli? Eppure qualcosa hanno lasciato. Una cosa di nessun valore. Abbandonata in un cassetto: La principessa abita qui . La targa che stava sulla porta di camera mia. Quella targa che un giorno dell’adolescenza ho buttato e non sapevo tu avessi ripreso ( perché? ). Col reperto dell’infanzia tra le mani, io piango, la principessa si accuccia a terra — hanno portato via anche la tua poltrona — la principessa si accuccia a terra e piange disperata. Come faccio senza di te? Che futuro avrò? Come posso sopravviverti, papà?
Invece sopravvivo. Sopravvivo ancora. Mi trasferisco a Roma. Università, laurea, un’estate a Los Angeles, Ucla, muore nonna, primo romanzo, muore zio, muore mamma, rimaniamo solo io e mio fratello. Sopravvissuti.
— C’è una cosa che vorrei ora, dico a mio fratello dopo l’ultimo funerale.
— Cosa?
— Un cane.
— Eh.
— Mamma e papà non ce l’hanno mai preso, è una cosa che mi manca.
Nel riassetto di ciò che finalmente si può prendere e ciò che invece si può abbandonare — in tal senso la morte dei genitori è una liberazione — c’è anche la casa di Orbetello. Che facciamo, vendiamo, affittiamo, B&B? Ma poi chi ci sta dietro, quello è proprio un lavoro. Vendiamo, congediamo il passato, i nostri morti. Io vorrei un attico a Roma — inizio a progettare — o un pied-à-terre a Parigi, o forse della terra, oggi come oggi è l’unico investimento sensato. Per vendere, la casa va svuotata, me ne occupo io. Esattamente come trentacinque anni fa, apro cassetti e armadi. E come allora, il tempo che si ripiega, mi accorgo di un doppio fondo, stavolta nella cassapanca. La donna di oggi si sovrappone alla bambina, sono mani piccole che aprono, occhi giovani che si spalancano: i lingotti d’oro, sette lingotti (ma non erano trenta?). Il palazzo di Barbie. È una riparazione. Oltre la morte, papà, tu torni a restituirmi l’infanzia. Di nuovo bambina, di fronte un futuro grandioso. Di nuovo io, bellissima e privilegiata, rassegnati mondo . Ancora io a costruire palazzi d’oro, a camminare sulle acque. Ballerina sul palcoscenico del Supercinema di Orbetello, mi stacco dal gruppo, avanzo, e ti cerco, la luce m’impedisce di riconoscerti, quale sei, papi? Indugio. Poi ti vedo, in prima fila, eccoti laggiù solo per me. Raddrizzo la schiena sotto la luce dei riflettori, una luce chiarissima, accecante, una luce dentro la quale so che ci sei tu, ti vedo, bagliore luminescente, come quello di una stella che consacra ogni cosa, anche me.
Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarant’anni e questa è la storia di una scoperta.
Questa è la storia di Lorenzo Ciabatti, primario chirurgo all’ospedale di Orbetello, massone, gran maestro del Grande Oriente d’Italia, loggia di Firenze. È la storia di un uomo che ha intrecciato rapporti con i potenti d’America, fra tutti Ronald Reagan e Robert Wood Johnson che ogni estate portava a noi bambini una cesta di shampoo e cerotti Johnson&Johnson. È la storia del capo di una loggia segreta che si coordinava con la P2, direttamente collegata alla Grande Loggia Unita d’Inghilterra, come fa fede il necrologio (vedi «Tirreno» del 14 agosto 1990). La storia di un uomo che custodiva parte dei lingotti del re di Jugoslavia portati in Italia da Gelli. La storia di un uomo sequestrato per un giorno.
Questa è la storia di un medico che no, non era buono, benefattore, santo. Ma era mio padre.