Marco Gasperetti, Chiara Vanzetto, Matteo Collura, Maria Luisa Agnese, Corriere della Sera 19/4/2015, 19 aprile 2015
LA RELIGIONE DI BOTERO INTERVISTA A BOTERO [4
LA RELIGIONE DI BOTERO INTERVISTA A BOTERO [4 pezzi] –
Lei crede in Dio, maestro?
Un attimo di esitazione. «No… non tanto. Non vado in chiesa, non pratico liturgie, giudico i santi persone noiose».
Eppure Fernando Botero i santi, della chiesa cattolica, li ha appena creati in una serie di opere, «impossibili da descrivere, perché sono cose così speciali...» che saranno presentate a settembre a Zurigo. «Ma non è fervore religioso – precisa – . Ho scelto questo tema per fare qualcosa di diverso e interessante e ci ho lavorato con grande passione e ossessione» dice alla vigilia della mostra milanese alla Galleria Tega, con i lavori recenti.
E nell’impegno politico dell’artista ci crede?
«Non ho mai fatto politica, vivo il potere in modo distaccato».
Sembra un pendolo e imperturbabile, Fernando Botero, 83 anni, colombiano di nascita, demiurgo infaticabile, che oscilla su materia e spirito, scetticismo e passione, fede e potere. Convinto di non aver mai fatto politica e poi capace di lanciare denunce (politiche) così devastanti da essere paragonate a comizi. Come quando disegnò 65 tele sulle torture che gli americani perpetrarono nella prigione di Abu Ghraib. «Quelle torture furono per me un’ossessione e da quella mostruosità sono riuscito a creare opere che ho poi regalato all’università statunitense di Berkeley. Una cosa simile accadde anche negli anni 60 con le mie opere satiriche contro le dittatura in America Latina e poi sulla guerra in Colombia. Ma non è mai stato qualcosa di sistematico. Se arriva l’ossessione che ti fa a pensare a quel tema lo fai, altrimenti no. L’artista deve essere libero e non può essere obbligato a denunciare l’ingiustizia e l’oscurità che ci circondano».
E questo vale anche per i temi religiosi?
«Certo. È accaduto per la Passione di Cristo che è in mostra a Palazzo Reale di Palermo. Mi ha mosso il cuore. Sono libero, liberi devono essere gli artisti. Arriva l’ispirazione e crei. Ma non sono religioso».
Alla guida della chiesa cattolica c’è un Papa arrivato dalla «terra della fine del mondo», che è quasi la sua terra. Che cosa ne pensa?
«È fantastico Francesco. Mi piace molto. La sua denuncia del lusso, la battaglia contro la pedofilia. Ho visto gente non cattolica trascinata dalla forza di questo Papa, come i non credenti. Mi piace come figura, con le scarpe nere e quei pantaloni che s’intravedono dalla gonna bianca. Tutto di lui è simpatico, formidabile».
Vorrebbe incontrarlo?
«Sarebbe un grande onore».
Ha mai pensato a ritrarlo?
«No, non sono forte nei ritratti. Non lo farò mai».
Perché in un dipinto lei si è disegnato all’inferno accanto ad Adolf Hitler?
«Non potevo mettere tutti in paradiso. Con me ho messo il giardiniere Mario che ha lavorato al mio fianco per 30 anni».
Una cattiveria, maestro...
«Macché, me l’ha chiesto lui. Avrebbe potuto anche scegliere il secondo dipinto ispirato al paradiso ma mi ha detto che voleva stare insieme a me. Anche all’inferno».
Qual è il suo rapporto con il potere?
«Distaccato. Ho conosciuto molti uomini potenti, sono venuti alle mie mostre, li ringrazio, ma non mi hanno dato gioia, non ne ho avuto particolari ispirazioni. Con loro sono cortese come quando incontro bravi medici, attori, uomini di cultura, gente comune».
Le dittature la spaventano?
«Anche i regimi totalitari più feroci non sono riusciti ad annullare grandi artisti. Ho incontrato colleghi straordinari ai tempi dell’Unione Sovietica, della Cina e delle dittature dell’America Latina».
Soddisfatto della mostra che si apre a Milano?
«Moltissimo. Ci sono figure e nature morte mai esposte in Italia e una parte importante del mio lavoro. Ci sono anche grandi disegni su tela. È una mostra molto variegata».
Lei è un po’ italiano.
«L’Italia è un Paese straordinario che sta uscendo dalla crisi. L’Italia è un capolavoro».
Marco Gasperetti
POPOLARE MA RICCO DI RIMANDI DAI NUDI ALLE NATURE MORTE –
Una delle tendenze dell’arte oggi, si dice, è la fluidità. Non esistono confini tra i mezzi espressivi, non esistono movimenti definiti, non esistono categorie riconoscibili. Esiste l’individuo con la sua personalità creativa. In questo senso Fernando Botero, nato a Medellín, classe 1932, è un artista assolutamente contemporaneo.
Anzi, un pioniere della contemporaneità. Perché il suo linguaggio inconfondibile non si può incasellare entro un movimento o uno stile: Botero di stile ne ha inventato uno solo suo, che mette in pratica da cinquant’anni e lo ha reso celebre nel mondo. Tutti infatti conoscono e riconoscono il maestro colombiano, ma osservare le sue opere dal vero è un altro viaggio. L’occasione la dà dunque la personale da martedì 21 aprile a Milano alla Galleria Tega, che già aveva ospitato l’artista nel 2006. Una personale, a cura di Luca Beatrice, forte di una quarantina di opere tra dipinti, disegni e sculture degli ultimi vent’anni. Tra cui, quasi mostra nella mostra, un bel nucleo di nature morte inedite. «Per Botero è un tema ricorrente — spiega Beatrice —. Un soggetto meno noto rispetto alla sua pittura di figura e molto interessante, anche perché fare oggi un quadro di still life con margini di innovazione è molto difficile. Botero ci è riuscito, la sua è una reinterpretazione personale di un genere antico. Penso a «Oranges», del 2013, carnale e sensuale, splendida variazione cromatica sui toni del rosso, arancio e rosa. O a «Still life with tambour and clarinet», stesso anno, impostazione quasi cubista, con la prima pagina del quotidiano “El Sol” che ha chiuso nel 1936, l’anno prima di Guernica». Al di là quindi dell’apparente «facilità» del linguaggio figurativo di Botero, la sua è una pittura densa di riferimenti colti anche dove non te li aspetti. È un artista cosmopolita, ha viaggiato in America e Europa, tant’è che ha quattro atelier diversi: oltre che in Colombia, a Montecarlo, a New York e a Pietrasanta, in Toscana, dove trascorre due mesi ogni estate.
E alla cultura figurativa italiana ha spesso fatto riferimento: le sue figure monumentali traggono ispirazione dal plasticismo di Giotto, Masaccio e Piero della Francesca. «Come molti artisti di gran levatura Botero è trasversale, popolare e raffinato al tempo stesso. Ha la capacità di essere letto a vari livelli, secondo la natura dell’osservatore, in modo immediato oppure più complesso e impegnato» aggiunge il curatore. E di impegno si può parlare per molte opere del colombiano, a partire dal drammatico ciclo dedicato nel 2005 a Guantánamo. In galleria ci sarà invece uno dei suoi «Presidenti», opera del 2003: tema politico, radici nella cultura sudamericana, con la figura dittatoriale come metafora dell’arroganza del potere che calpesta la libertà.
Ma chi è e come è Botero uomo, persona? Luca Beatrice l’ha conosciuto pochi mesi fa. «È un ottantenne in forma splendida, carico di progettualità. Mi ha sorpreso per la vivacità intellettuale, continua a interrogarsi sulla pittura. Ed è generoso, ha avuto tanto ma è stato capace di restituire: ai musei colombiani e alla sua città natale ha donato moltissime opere e anche la sua personale collezione d’arte. Così per la prima volta i suoi compatrioti hanno potuto conoscere Monet, Renoir, Picasso, Miró, Chagall, Moore, Matisse e altri artisti europei».
In mostra anche soggetti diversi cari al pittore e ricorrenti: la famiglia, il circo, i nudi femminili. Opere smaglianti, che catturano lo sguardo con i loro volumi enfatici ma al tempo stesso perfettamente equilibrati. Inequivocabilmente e unicamente Botero.
Chiara Vanzetto
SUI SUOI PERSONAGGI DISSENTO DA SCIASCIA –
A differenza di quanto ne scrisse Leonardo Sciascia, io penso che agli italiani (siciliani compresi) un pittore come Fernando Botero possa piacere, perché i suoi personaggi non hanno asperità, spigoli, asciuttezze, disarmonie.
Viene da abbracciarli, da tastarne le rotondità, le forme sempre generose, anche se a volte il tema trattato dall’artista è tutt’altro che gradevole. In noi soddisfa il bisogno di tenerezza, Botero; quel bisogno che in molti casi ci rende bambini in eterno o genitori e nonni che non si stancano di coccolare i loro piccoli, anche se donne e uomini fatti. Ma è anche la nostra educazione pittorica a farci apprezzare le opere di questo artista che dell’esagerazione volumetrica ha fatto la sua cifra e la sua fortuna. C’è Giotto, nelle tele di Botero, così come — ma è soltanto un esempio — Mantegna. Questi sommi artisti sono rintracciabili nei suoi colori (quasi privi di sfumature, come in Giotto, appunto) e nelle sode rotondità, come nelle raffigurazioni (penso ai cavalli) di Mantegna.
Non credo che i personaggi di Botero esprimano,
come annotò Sciascia, la stupidità dell’oggi.
O perlomeno, non soltanto questo. Da scrittore attento alla narrativa della mia regione d’origine, penso che le «grassezze» di Botero incontrino il gusto dei siciliani e dei meridionali in genere.
«Come sei grasso», dice un personaggio femminile in «Cristo si è fermato a Eboli» di Carlo Levi; e con quel «grasso» vuol dire bello. La carnosità, la corpulenza come idea di bellezza. Ma anche di un benessere che i poveri non avevano (non hanno). «A te, ricco crapulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero» dice uno dei rivoltosi di Bronte, nella novella di Giovanni Verga
intitolata «Libertà». La pinguedine anche come ingiustizia: da una parte abbiamo il ricco in carne, dall’altra invece il povero scheletrico.
QUELLE DONNE IN CARNE CHE TROVANO RISCONTRO NELLE STANZE DEL POTERE –
Provate a guardarle quelle donne di Botero, così accoglienti, così rassicuranti, rotonde e sensuali, spesso nude, in languida attesa. Chi potrebbe averne paura? E difatti è questa la prima sensazione che chiunque sente sorgere in sé davanti alle sue opere. Le sue donne non mettono in fuga nessuno, scatenano piuttosto un processo identificativo di «festosa complicità» ha scritto Dacia Maraini.
Ma poi, riflettendo meglio, si capisce che l’artista colombiano, con quelle sue signore vistosamente grasse, non solo va controcorrente rispetto ai canoni estetici più retorici, ma coglie con spirito acutamente pop gli archetipi collettivi più profondi. Grasso storicamente significa abbondanza, grasso psicologicamente e nei nostri sogni notturni significa bisogno di aver peso nel proprio ambiente, di sentirsi visibili e apprezzati.
E difatti quelle donne così paciose corrispondono, se andiamo più a fondo, proprio all’essenza più genuina della donna di potere. Che dovendo condurre gli altri e quindi farsi accettare non può rappresentare un ideale algido e difficile da realizzare ma deve essere, anche nelle forme, rotonda e e amichevole. In una parola: pop.
E se andiamo con il pensiero ad alcune donne che rappresentano o hanno rappresentato il potere le troviamo fatte proprio di quelle stoffa. La regina Vittoria era matronalmente opulenta nei suoi severi abiti di pizzo scuro, eppure è stata la sovrana più longeva della storia, un primato che forse verrà bissato a settembre dalla nipotina Elisabetta, anche lei monarca dall’aspetto maestoso e confortante.
Stessa pasta di Angela Merkel, gran signora del potere contemporaneo capace di tenere la barra senza sconcertare nessuno e soprattutto senza suscitare sentimenti di gelosia/rivalità nelle donne o di sospetto/paura negli uomini. È capitato così anche con la signora di ferro Thatcher, di robusta costituzione e di aspetto estetico incoraggiante (almeno quello!), anche se poi leggendariamente si narra che cedesse a una dieta ferrea quasi come il suo carattere: 28 uova a settimana, per non perdere energia oltre che peso. Ma solo sotto elezioni!
E per vedere se l’equazione fin qui illustrata fra rotondità e potere funziona davvero, dobbiamo aspettare le prossime elezioni americane, e fare il tifo per la giunonica e coriacea Hillary Clinton.
Maria Luisa Agnese