Walter Barberis, La Stampa 19/4/2015, 19 aprile 2015
LA RESISTENZA ISPIRATA ANCHE DA RILKE E MONTALE
[Intervista a Giorgio Napoletano] –
Presidente Napolitano,siamo al settantesimo della Liberazione. Da storico, mi sono sempre chiesto se e quanto la caduta del fascismo determinò nei giovani una rottura con la cultura dei padri. Sappiamo che i giovani intellettuali che ingrossarono le file della Resistenza si nutrirono di una grande messe di letture, e penso anzitutto a Giaime Pintor, ufficiale del regno del Sud, agente di collegamento con gli inglesi, animatore con Leone Ginzburg, Cesare Pavese e Giulio Einaudi di una casa editrice di matrice azionista. Ma penso anche che nei mesi precedenti la caduta del fascismo la rivista di Bottai,Primato, sia stata punto di riferimento e palestra per molti futuri resistenti. A me pare che uno scarto generazionale ci fu. Lei, che era uno di quei giovani in quegli anni, cosa ne pensa?
«Credo che la saldatura generazionale ci fu nella partecipazione attiva alla fase conclusiva della lotta contro il fascismo, fino alla Liberazione. Un esempio è quello di Giorgio Amendola, che ebbe contatto diretto con i giovani ma che era legato alla cultura politica del padre e aveva fatto il grande salto dal liberalismo al comunismo, finendo per trasferire una componente liberale anche nella visione politica e culturale propria del Partito comunista.
«Ma è vero che l’eco dell’antifascismo passò pure attraverso un canale che in qualche modo fu aperto proprio dal regime, difficile dire con quanta consapevolezza e con quanto calcolo di convenienza, attraverso Bottai. Le sue responsabilità politiche generali non si cancellano, ma la rivista Primato rimane esempio di un modo nuovo, per i giovani di allora, di arrivare alla politica attraverso la cultura. Penso a Mario Alicata, allievo prediletto di Natalino Sapegno, a Giame Pintor grande germanista già da giovanissimo.
«Erano fondamentali alcune articolazioni dei Guf, i Gruppi universitari fascisti. Il Teatro Guf, i Cine Guf, i settimanali Guf diventarono luoghi d’incontro e discussione, e anche di qualche velleitaria malizia se si pensa che venne, sul settimanale Guf di Napoli, pubblicato addirittura un documento dell’Internazionale comunista... Nei Guf operavano cerchie ristrette, io feci parte di quella napoletana nella quale gravitavano una trentina di giovanissimi. Ricordo che nella stanzetta di uno di questi ragazzi, un poeta di origine armena, sentii leggere brani del Manifesto dei comunisti, che circolava perché era pubblicato in calce alla Concezione materialistica della storia di Antonio Labriola, disponibile ancora nei primi Anni Quaranta per iniziativa del binomio Croce-Laterza. Un libro che devo avere ancora da qualche parte.
«Questi giovani antifascisti cercavano anche il confronto con un interlocutore fascista. Si trattava di scegliere una persona che poi non andasse a denunciarci, e la individuammo in Ruggero Romano, che poi diventò storico di prima grandezza. Venne a discutere con noi, sostenendo posizioni antitetiche alle nostre: questa era la temperie. C’era dunque la possibilità di formarsi in maniera molto diversa dai padri. E cosa si leggeva in quel tempo? Ho incontrato tanti miei coetanei dell’epoca che in altre città e in altre università leggevano gli stessi libri, le poesie di Rilke tradotte per Einaudi da Pintor, gli scritti sulla rivoluzione di Pisacane, le Conversazioni in Sicilia di Vittorini, in poesia Montale soprattutto, e poi Ungaretti, Quasimodo, Alfonso Gatto...
«Un’angolazione che non poteva essere quella dei nostri padri, mio padre leggeva i grandi romanzi francesi e russi dell’Ottocento. Poi ci saranno state forzature soggettive nel leggere certe poesie di Montale che sembravano comunque pensate su misura per alimentare una fortissima curvatura anti-retorica; gli “ermetici” erano per noi simbolo dell’essenzialità, del rigore, e questo faceva parte di una certa formazione morale oltre che di un preciso gusto culturale. Questo fu il percorso di molti».
Eppure Giaime Pintor scrive nella sua ultima lettera al fratello che senza la guerra, probabilmente, lui sarebbe rimasto un letterato e molti suoi coetanei non avrebbero fatto una scelta determinante schierandosi in maniera militante nella Resistenza.
«Ricordo fortemente un altro passaggio di quella lettera in cui Pintor cita la corsa dei giovani verso la politica, e forse è un po’ retorico quel dire “se non ci fosse stata la guerra”. Certo, la guerra significa schierarsi, il giovane Antonio Giolitti per esempio il 9 settembre sale in montagna. Il 9 settembre! Siamo nel ’43 e la guerra c’era dal 1940... lo cito perché Giolitti sembrerebbe lontano da una passione politica che diventa impegno umano totale, e invece va in montagna con quello che sarebbe poi diventato il grande partigiano comunista Pompeo Colajanni, ufficiale di cavalleria e al comando di un reparto di autoblinde... Insomma si era avanti nel processo di maturazione verso la politica, che poi esplode durante la Resistenza, e culmina nel ’45 con l’ingresso nei partiti: la grande leva che i partiti accolsero nelle loro file».
E il tema della Resistenza come rivoluzione mancata? Umberto Saba, nascosto dietro i suoi libri, ragionava che per l’Italia una rivoluzione non è possibile perché la sua storia è fondata sul fratricidio, mentre una rivoluzione è un parricidio. Hannah Arendt ha affermato che tutta la storia umana è avanzata per via di episodi fratricidi. Claudio Pavone ha proposto di interpretare la Resistenza come l’intreccio di tre guerre: una patriottica contro i nazisti tedeschi, una civile contro i fascisti di Salò, e una sociale volta all’emancipazione delle classi subalterne. Lei come ha vissuto la questione in quegli anni e dopo?
«Naturalmente la tesi del fratricidio ha a che vedere con la tesi della guerra civile, illustrata da Pavone. Ma una cosa è fondamentale: Pavone è attentissimo a non porre le due parti sullo stesso piano. Una delle due aveva fondamentali ragioni storiche e ideali da far valere, e che devono sempre valere nel giudizio sulla Resistenza; l’altra parte è quella che arrivò all’asservimento totale ai nazisti con la Repubblica di Salò. Torno ancora una volta su Giame Pintor, del quale trovo ineguagliato il saggio sul 25 luglio, che si conclude con le parole “dopo una finta rivoluzione, quella fascista, potrà salvare l’Italia solo una vera rivoluzione”.
«Naturalmente c’è da intenderci sul concetto e sul termine di rivoluzione. Quest’idea, con tutte le indeterminatezze dell’epoca e della parola, era nella mente di parte dei combattenti. E c’era il mito più fuorviante di tutti, l’idea cioè della Resistenza che sarebbe stata rivoluzione in nuce e che fu tradita. In realtà anche il partito che aveva una visione di sé come partito rivoluzionario, cioè il Pci, aveva un leader il quale, quando a fine ’45 fa la sua grande relazione di quattro ore al primo congresso dopo la Liberazione, enuncia lo stesso programma di Giolitti: “rifare l’Italia”. Togliatti - è di lui che sto parlando - spiegherà poi che la rivoluzione è un processo molto graduale - da compiersi sul terreno democratico - delle strutture economiche e sociali.
«Bisognerebbe chiedersi però se sia eredità di una tradizione di “fratricidio” la “guerra civile strisciante” che secondo un giudizio diffuso si ebbe per molti anni in Italia, e che oggi appare degenerata in una rissosità che non merita nemmeno l’epiteto storico di fratricidio».
Togliatti nel ’44 indica ai resistenti una politica di unità nazionale contro il fascismo, che comprenda anche i monarchici. Gli azionisti sono fortemente critici. Tuttavia la cultura repubblicana era prevalente fra gli antifascisti. E se la Resistenza militare termina nei primi mesi del ’45, il ciclo della Liberazione si può far finire il 2 giugno ’46, con la Repubblica. Mi sembra di poter osservare che proprio le zone che ospitarono la guerra di Liberazione più militarmente intesa furono quelle stesse, il Centro-Nord, che dettero alla Repubblica il maggior contributo elettorale. Insomma, quella linea di Togliatti fu largamente pagante...
«È esattissimo quello che lei dice, al Sud solo in Basilicata la Repubblica ebbe la maggioranza, a Napoli ci fu addirittura una schiacciante maggioranza monarchica. I dirigenti comunisti erano convinti che non si sarebbe vinta la battaglia per la Repubblica se non si fosse prima trovato un compromesso per rinviare la questione istituzionale a dopo la Liberazione.
«Di quel compromesso, dal punto di vista della formula giuridico-costituzionale, furono artefici anche forze molto diverse. In modo particolare Benedetto Croce col quale De Nicola discusse, ricevendone quasi un mandato, per elaborare una formula che non fosse quella dell’abdicazione, rifiutata radicalmente dal re. Fu De Nicola ad andare da Vittorio Emanuele III a Ravello. Parlò per ore, e il re non aprì mai bocca, finché il suo principale consigliere non gli disse: “Maestà accettate, vi conviene”. Quella soluzione che non era stata “inventata” dai comunisti trovò l’accoglienza prima dei comunisti e poi anche degli altri partiti ivi compresa la Democrazia Cristiana».
La Resistenza nella storia italiana viene identificata come un patrimonio ideale e di esperienze del Centro-Nord. Invece, anche in virtù dello sbandamento della Quarta Armata, non solo militarono moltissimi meridionali, ma ci furono grandi combattenti e animatori della guerra di liberazione. Lei citava Pompeo Colajanni: è una figura che conferma una sorta di coralità italiana.
«Non c’è dubbio. Io ho cercato da Presidente di insistere molto sulla valorizzazione di tutte le componenti della Resistenza. C’è quella, ovviamente decisiva delle formazioni partigiane, ma un grandissimo contributo viene dalla componente militare e poi da quella popolare, dalla solidarietà che circonda i partigiani che lottano contro i nazisti».
Antonio Giolitti nei suoi Diari partigiani osservava che con il fascismo bisognava abbattere il nazionalismo, che nel ’45, in Francia e in Italia, era ancora esasperato e assai radicato. Guardando a una nuova Europa, diceva, dovremmo liberarci da questa cappa nazionalistica. Dopo pochi mesi, Bobbio, riprendendo gli elementi del Manifesto di Ventotene, riproponeva l’idea degli Stati Uniti d’Europa. Quanto questa lungimirante idea politica e civile era allora parte della cultura politica diffusa? E come mai ancora oggi questa prospettiva stenta ad affermarsi?
«Distinguerei, una cosa è quanto siano stati forti le radici e le propaggini del nazionalismo, che era stato brodo di coltura del fascismo. Su questo punto ci fu forte sensibilità soprattutto nella sinistra, dopo la Liberazione e per diversi anni, ma poi si trasformò in reticenza e perfino in negazione dei concetti di identità nazionale e di amor di patria. Come aveva ben compreso Croce, che nel giugno del ’43, prima che cada il fascismo, scrive sulla necessità di rimettere in onore l’amor di patria, che è poi l’opposto del nazionalismo. Cosa che però non avvenne per lungo tempo, direi sino a non molti anni fa, in Italia.
«Altra cosa è recuperare una prospettiva più ampia entro cui portare a un livello senza precedenti di coesione anche le diverse identità nazionali, cioè il progetto europeo. Che è assai poco sentito durante il processo di Liberazione. Lei cita il Manifesto di Ventotene, ma se è per questo il primo appello per gli Stati Uniti d’Europa viene da Luigi Einaudi, subito dopo la Prima guerra mondiale, senza attecchire, senza lasciare tracce profonde. In Parlamento dopo le elezioni del ’48 diventa di attualità la possibile scelta europeista, tanto che nel ’50 si discute in Senato una mozione federalista. Poi arrivano nel ’51 gli accordi tra i sei Paesi per dare vita alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, ma tutto si inceppa nella nascente Guerra fredda, e una parte dell’opinione pubblica, del mondo politico antifascista democratico e di sinistra, sbagliando, collega la proposta di integrazione europea all’egemonia americana. Quasi che i Trattati europei, a cominciare dal primo, fossero una proiezione del Patto Atlantico. Ci sono dei momenti di scontro molto intenso, perfino belli, tra De Gasperi e la sinistra che lui accusa di incoerenza perché, essendo per natura internazionalista, avrebbe dovuto essere la più aperta a una visione di integrazione europea. «Ci vollero parecchi anni perché i socialisti arrivassero, alla fine degli Anni 50, all’astensione sui Trattati di Roma istitutivi della Comunità europea (Mercato Comune Europeo), e occorre arrivare alla fine degli Anni 60 perché il Partito comunista, soprattutto attraverso la sua partecipazione - che inizialmente era gli stata negata - al Parlamento europeo, sia pure non ancora eletto dai cittadini, entri nel vivo e operi nelle istituzioni».
Walter Barberis, La Stampa 19/4/2015